Giorgio era il figlio del padrone di casa. Egli era in
giro col lutto al braccio a farsi riconoscere. Non aveva che venticinque anni e
sembrava vecchio. La sua testa rotonda, coperta a mala pena dai capelli lunghi,
faceva pensare a una calvizie precoce. La carne biancastra della sua faccia
aveva due virgoloni che incominciavano alla radice del naso e discendevano
bisciandosi fino alla parte estrema della bocca, perduta sotto i peli che gli
impedivano di essere repulsivo. Parlando, scopriva i dentini bianchi e aguzzi
come quelli della madre, dalla quale aveva ereditato il ticchio della
palpitazione delle palpebre ogni volta che gli si parlava d'interessi. Del
padre non aveva che la tendenza al pancione e la tenacità nel far denari.
Il padre era spalluto, capelluto, con il faccione schiacciato e inondato
di salute e con le pupille vivide circondate di macchioline luminose. Era un
uomo alla buona che ciarlava con il cuore in mano e che non nascondeva ad
alcuno la sua origine. Figlio di un fruttivendolo del Verziere, diceva a tutti
ch'egli era figlio della piazza. La sua fortuna era dovuta alla sua operosità,
al suo occhio che andava lontano, alla sua audacia. I primi denari li aveva
fatti arrischiando tutto ciò che possedeva. Una bella mattina egli era
ritornato in Verziere come un incettatore che aveva comperato tutte le pesche
arrivate nella notte alle porte di Milano. Con questo colpo napoleonico, come
venne poi chiamato, egli aveva soppresso la concorrenza bestiale tra la gente
che si affannava per giungere prima a impadronirsi di un carretto di frutta in
viaggio verso il dazio.
La mattina delle pesche egli si era seduto nella bottega in Verziere
come un dittatore. O morire sotto di lui o rimanere senza pesche. La cosa aveva
fatto scalpore e messo sottosopra i fruttivendoli all'ingrosso che
continuavano, di padre in figlio, col sistema del «vivere e lasciar vivere».
L'esasperazione degli altri lo aveva fatto passare per un assassino del
mestiere. La Gigiona, che aveva il negozio vicino al suo, s'era levata in piedi
come una vipera e gli era andata coi pugni sul naso a dirgli che non era la
maniera di mettere il coltello alla gola della gente che non gli aveva fatto
nulla di male. Con le mani nel tascone in mezzo al grembiule azzurro, giurava
che, se il suo uomo non fosse stato un cacone, gliela avrebbe fatta pagar cara.
— Vigliacco!
Cesarino, quello dagli occhi cisposi e dal ciuffetto sulla fronte alla
moda dei barabba, gli si era piantato nella bottega con le braccia imbracciate,
deciso a rompergli la faccia. Ci dovevano essere delle leggi per i birboni, e
quando non ce n'erano si aveva il diritto di farsi giustizia con le cinque dita
della mano.
Negli spacci all'ingrosso, lungo le due linee parallele al rialzo
dell'immensa piattaforma del Verziere, si parlava di Pasquale Introzzi come di
un camorrista che aveva consumato metà della vita in prigione. Lo si diceva, né
più né meno, che il boia dei fruttivendoli. Gli si mandavano tutte le
maledizioni e gli si auguravano morti crudeli. Agli altri che comperavano dai
grossisti, il colpo napoleonico aveva fatto buona impressione. Godevano di
vedere umiliata la superbia di quella manata di speculatori che aveva tanto disprezzo
per la gente che li aveva ingrassati. L'Introzzi era venuto in tempo a frenare
la loro ingordigia e la loro boria che faceva male. A mano a mano che si andava
innanzi non si sapeva più come trattarli, questi villanacci venuti su dal
niente. Durante la vendita i fruttivendoli al minuto erano obbligati a girare
intorno alle corbe con l'aria dei mendicanti per non farli andare in furia.
Sbattevano sulla faccia delle ingiurie atroci se appena qualcuno si arrischiava
a mettere le mani nel fogliame secco per adocchiare il primo «corso» e
ingiungevano di andare all'inferno a chi aveva da dire sul prezzo. Coloro che
trovavano la frutta degli ultimi «corsi» marcia, non avevano altro rimedio che
pagare. La colpa era degli asini che l'avevano comperata.
— Un Pasquale Introzzi è un castigo di Dio per tutti i mestieri — diceva
Agostino, detto il «Molle» per quella sua cascaggine di stare in piedi. — Ma
dico e dirò sempre che un uomo come lui era necessario. Ci voleva, parola
d'onore, ci voleva.
Pasquale, a poco a poco, aveva finito per farsi voler bene. Era
ragionevole con tutti. Non appena gli si facevano vedere gli strati andati a
male, ne faceva fare la cernita e il cambio della fracida.
— È giusto — diceva — che chi compera non debba essere imbrogliato da
chi vende.
Sorrideva amabilmente, parlava con mansuetudine, considerava la frutta
guasta della perdita personale e assicurava tutti i compratori ch'egli aveva
combinato l'interesse del fruttivendolo con quello del negoziante. Perché il
suo ideale era quello di ridurre i suoi guadagni a dei centesimi. Guadagnare
poco e vendere molto. Ecco dove tendeva Pasquale. Il quantitativo doveva
rappresentare la sua ricchezza.
E vinse. Con la sua fortuna venuta su a vista d'occhio, il Verziere gli
si era prostrato e aveva finito per abituarsi a pensare col cervello di
Pasquale Introzzi. Egli aveva compiuto una vera rivoluzione. Con lui il
commercio della frutta si era esteso eliminando gli inadatti e si era assodato
sulla base della concorrenza temperata dal buonsenso. Ai facchini aveva
insegnato di chiudere i cancelli agli scalzacani, agli intrusi, agli
avventizii. E i facchini erano diventati una associazione che imperava e non
dava da vivere che agli associati. Egli era rimasto solo perché i suoi colleghi
all'ingrosso non conoscevano che l'invidia. Ma era convinto che quella era la
strada e che un giorno o l'altro il Verziere sarebbe stato dominato da un
gruppo di negozianti con la testa sulle spalle. I negozianti isolati non si
occupano del pubblico che per sfruttarlo. Sono tirchioni senza intelligenza. I
negozianti uniti si elevano, perdono la qualità rapace, s'accorgono che il
denaro dei compratori ha dei diritti ed innalzano la classe alla rettitudine
professionale. «Se campo!» si diceva egli sovente battendosi la fronte.
Ma come tutti i pionieri di un ideale, egli è morto senza vedere il
compimento del suo sogno.
La morte di lui è stata considerata una sventura generale. I suoi
funerali parevano quelli del principe dei fruttaiuoli. Non s'era mai veduto
tanto lusso e tanto cordoglio, come il 20 settembre 1867. Il convoglio,
preceduto dalla croce in alto, e da una filata di preti, svoltava verso la
chiesa di Santo Stefano e le ombrelle continuavano a venir su dal ponte di
porta Vittoria a frotte. Si andava via pigiati, con la punta delle scarpe degli
uni sui calcagni degli altri. Per un'ora il Verziere rimase una fiera di
parapioggia sotto l'acquazzone che imperversava. Tutta la massa si muoveva
lentamente, sprofondava nella morte del «povero Pasquale», senza badare ai
rovesci d'acqua che la inzuppavano. Le finestre ed i balconi erano gremiti di
fruttivendole che piangevano, commosse dalla musica che rompeva loro il cuore.
La monotonia della marcia funebre faceva nascere il singhiozzo da un
capo all'altro della processione. Alla nota patetica, se non avessero avuto
vergogna, si sarebbero messi tutti a piangere. La Gigiona, lassù, tra la folla del balcone a ventre, sopra il tabaccaio Saporiti, si teneva il
fazzoletto alla bocca per soffocarne lo strazio. Teresa, la più vecchia e la
più ricca delle fruttaiuole, manifestava la piena del suo dolore con
un'irruzione di lacrime.
— Povero Pasquale!
In mezzo alla processione il singhiozzo era più forte. Si vedevano gli
uomini maturi che si asciugavano il faccione e si stringevano le mani come per
implorare il perdono del Signore. Era una verità sacrosanta che uno alla volta
si doveva andare al cimitero, ma nessuno voleva darsi pace. Morire quando si è
giunti al benessere, quando si è fatto tanto bene, quando tutti vi metterebbero
le braccia al collo, è una vera desolazione. E si piangeva e si piangeva
dirottamente.
Dinanzi alla chiesa di Santo Stefano alle lacrime succedeva la
commozione che raccoglie tutto l'essere come in una preghiera. I dolenti vi
giungevano prostrati dal pianto e levavano gli occhi imbambolati sul
drappellone nero frangiato d'oro che copriva la facciata e intetrava la scena
del funerale.
pace all'anima
di
PASQUALE INTROZZI
negoziante integerrimo
marito virtuoso
addormentatosi nella
fede del signore a 74 anni
amici e fruttivendoli
collacrimanti
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