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Paolo Valera
La folla

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Giorgio era il figlio del padrone di casa. Egli era in giro col lutto al braccio a farsi riconoscere. Non aveva che venticinque anni e sembrava vecchio. La sua testa rotonda, coperta a mala pena dai capelli lunghi, faceva pensare a una calvizie precoce. La carne biancastra della sua faccia aveva due virgoloni che incominciavano alla radice del naso e discendevano bisciandosi fino alla parte estrema della bocca, perduta sotto i peli che gli impedivano di essere repulsivo. Parlando, scopriva i dentini bianchi e aguzzi come quelli della madre, dalla quale aveva ereditato il ticchio della palpitazione delle palpebre ogni volta che gli si parlava d'interessi. Del padre non aveva che la tendenza al pancione e la tenacità nel far denari.

Il padre era spalluto, capelluto, con il faccione schiacciato e inondato di salute e con le pupille vivide circondate di macchioline luminose. Era un uomo alla buona che ciarlava con il cuore in mano e che non nascondeva ad alcuno la sua origine. Figlio di un fruttivendolo del Verziere, diceva a tutti ch'egli era figlio della piazza. La sua fortuna era dovuta alla sua operosità, al suo occhio che andava lontano, alla sua audacia. I primi denari li aveva fatti arrischiando tutto ciò che possedeva. Una bella mattina egli era ritornato in Verziere come un incettatore che aveva comperato tutte le pesche arrivate nella notte alle porte di Milano. Con questo colpo napoleonico, come venne poi chiamato, egli aveva soppresso la concorrenza bestiale tra la gente che si affannava per giungere prima a impadronirsi di un carretto di frutta in viaggio verso il dazio.

La mattina delle pesche egli si era seduto nella bottega in Verziere come un dittatore. O morire sotto di lui o rimanere senza pesche. La cosa aveva fatto scalpore e messo sottosopra i fruttivendoli all'ingrosso che continuavano, di padre in figlio, col sistema del «vivere e lasciar vivere». L'esasperazione degli altri lo aveva fatto passare per un assassino del mestiere. La Gigiona, che aveva il negozio vicino al suo, s'era levata in piedi come una vipera e gli era andata coi pugni sul naso a dirgli che non era la maniera di mettere il coltello alla gola della gente che non gli aveva fatto nulla di male. Con le mani nel tascone in mezzo al grembiule azzurro, giurava che, se il suo uomo non fosse stato un cacone, gliela avrebbe fatta pagar cara.

Vigliacco!

Cesarino, quello dagli occhi cisposi e dal ciuffetto sulla fronte alla moda dei barabba, gli si era piantato nella bottega con le braccia imbracciate, deciso a rompergli la faccia. Ci dovevano essere delle leggi per i birboni, e quando non ce n'erano si aveva il diritto di farsi giustizia con le cinque dita della mano.

Negli spacci all'ingrosso, lungo le due linee parallele al rialzo dell'immensa piattaforma del Verziere, si parlava di Pasquale Introzzi come di un camorrista che aveva consumato metà della vita in prigione. Lo si diceva, né più né meno, che il boia dei fruttivendoli. Gli si mandavano tutte le maledizioni e gli si auguravano morti crudeli. Agli altri che comperavano dai grossisti, il colpo napoleonico aveva fatto buona impressione. Godevano di vedere umiliata la superbia di quella manata di speculatori che aveva tanto disprezzo per la gente che li aveva ingrassati. L'Introzzi era venuto in tempo a frenare la loro ingordigia e la loro boria che faceva male. A mano a mano che si andava innanzi non si sapeva più come trattarli, questi villanacci venuti su dal niente. Durante la vendita i fruttivendoli al minuto erano obbligati a girare intorno alle corbe con l'aria dei mendicanti per non farli andare in furia. Sbattevano sulla faccia delle ingiurie atroci se appena qualcuno si arrischiava a mettere le mani nel fogliame secco per adocchiare il primo «corso» e ingiungevano di andare all'inferno a chi aveva da dire sul prezzo. Coloro che trovavano la frutta degli ultimi «corsi» marcia, non avevano altro rimedio che pagare. La colpa era degli asini che l'avevano comperata.

— Un Pasquale Introzzi è un castigo di Dio per tutti i mestieridiceva Agostino, detto il «Molle» per quella sua cascaggine di stare in piedi. — Ma dico e dirò sempre che un uomo come lui era necessario. Ci voleva, parola d'onore, ci voleva.

Pasquale, a poco a poco, aveva finito per farsi voler bene. Era ragionevole con tutti. Non appena gli si facevano vedere gli strati andati a male, ne faceva fare la cernita e il cambio della fracida.

— È giustodiceva — che chi compera non debba essere imbrogliato da chi vende.

Sorrideva amabilmente, parlava con mansuetudine, considerava la frutta guasta della perdita personale e assicurava tutti i compratori ch'egli aveva combinato l'interesse del fruttivendolo con quello del negoziante. Perché il suo ideale era quello di ridurre i suoi guadagni a dei centesimi. Guadagnare poco e vendere molto. Ecco dove tendeva Pasquale. Il quantitativo doveva rappresentare la sua ricchezza.

E vinse. Con la sua fortuna venuta su a vista d'occhio, il Verziere gli si era prostrato e aveva finito per abituarsi a pensare col cervello di Pasquale Introzzi. Egli aveva compiuto una vera rivoluzione. Con lui il commercio della frutta si era esteso eliminando gli inadatti e si era assodato sulla base della concorrenza temperata dal buonsenso. Ai facchini aveva insegnato di chiudere i cancelli agli scalzacani, agli intrusi, agli avventizii. E i facchini erano diventati una associazione che imperava e non dava da vivere che agli associati. Egli era rimasto solo perché i suoi colleghi all'ingrosso non conoscevano che l'invidia. Ma era convinto che quella era la strada e che un giorno o l'altro il Verziere sarebbe stato dominato da un gruppo di negozianti con la testa sulle spalle. I negozianti isolati non si occupano del pubblico che per sfruttarlo. Sono tirchioni senza intelligenza. I negozianti uniti si elevano, perdono la qualità rapace, s'accorgono che il denaro dei compratori ha dei diritti ed innalzano la classe alla rettitudine professionale. «Se campo!» si diceva egli sovente battendosi la fronte.

Ma come tutti i pionieri di un ideale, egli è morto senza vedere il compimento del suo sogno.

La morte di lui è stata considerata una sventura generale. I suoi funerali parevano quelli del principe dei fruttaiuoli. Non s'era mai veduto tanto lusso e tanto cordoglio, come il 20 settembre 1867. Il convoglio, preceduto dalla croce in alto, e da una filata di preti, svoltava verso la chiesa di Santo Stefano e le ombrelle continuavano a venir su dal ponte di porta Vittoria a frotte. Si andava via pigiati, con la punta delle scarpe degli uni sui calcagni degli altri. Per un'ora il Verziere rimase una fiera di parapioggia sotto l'acquazzone che imperversava. Tutta la massa si muoveva lentamente, sprofondava nella morte del «povero Pasquale», senza badare ai rovesci d'acqua che la inzuppavano. Le finestre ed i balconi erano gremiti di fruttivendole che piangevano, commosse dalla musica che rompeva loro il cuore.

La monotonia della marcia funebre faceva nascere il singhiozzo da un capo all'altro della processione. Alla nota patetica, se non avessero avuto vergogna, si sarebbero messi tutti a piangere. La Gigiona, lassù, tra la folla del balcone a ventre, sopra il tabaccaio Saporiti, si teneva il fazzoletto alla bocca per soffocarne lo strazio. Teresa, la più vecchia e la più ricca delle fruttaiuole, manifestava la piena del suo dolore con un'irruzione di lacrime.

Povero Pasquale!

In mezzo alla processione il singhiozzo era più forte. Si vedevano gli uomini maturi che si asciugavano il faccione e si stringevano le mani come per implorare il perdono del Signore. Era una verità sacrosanta che uno alla volta si doveva andare al cimitero, ma nessuno voleva darsi pace. Morire quando si è giunti al benessere, quando si è fatto tanto bene, quando tutti vi metterebbero le braccia al collo, è una vera desolazione. E si piangeva e si piangeva dirottamente.

Dinanzi alla chiesa di Santo Stefano alle lacrime succedeva la commozione che raccoglie tutto l'essere come in una preghiera. I dolenti vi giungevano prostrati dal pianto e levavano gli occhi imbambolati sul drappellone nero frangiato d'oro che copriva la facciata e intetrava la scena del funerale.

 

pace all'anima

di

PASQUALE INTROZZI

negoziante integerrimo

marito virtuoso

addormentatosi nella fede del signore a 74 anni

amici e fruttivendoli collacrimanti

 

 




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