Era la prima volta che Giorgio si trovava nella casa
del Terraggio come proprietario. Il suo amministratore, Tommaso Ghiringhelli,
un uomo fatto che conosceva gli interessi degli Introzzi assai meglio degli
eredi, lo consigliava di non essere troppo rivoluzionario. La casa del Terraggio
era di quelle che vanno lasciate cosi, come sono, per paura che si sfascino.
Bisogna contentarsi di blindarle dove il pericolo è maggiore e di imbiancarle
ogni tre o quattro anni per nascondere le magagne che indispongono gli
inquilini. Sono case alle quali non si deve pensare che per la demolizione, una
cosa sconsigliabile fino a quando producono. Anche il signor Pasquale aveva di
queste idee. I danari per i rattoppi gli parevano sciupati e lo diceva agli
inquilini che lo seccavano per qualche riparazione.
— Tirate innanzi come faccio io, e verrà il giorno che rifaremo tutto
dalla base al tetto. Provatevi, signor Giorgio, a concedere a uno il muratore e
all'altro l'imbianchino, e vedrete che tutto il vicinato avrà bisogno di
imbiancare la stanza, di tappare i buchi o di mettere a posto qualche mattone
del suolo. Date retta a me e lasciate correre.
L'idea di Giorgio di proclamare un indulto per tutti gli inquilini in
arretrato era buona e onorava la memoria del padre. Ma Ghiringhelli era uomo di
cifre e l'uomo di cifre non poteva occuparsi del cuore. Il rappresentante di
una savia amministrazione che cede, conduce gli amministrati alla malora.
L'indulto è sempre un atto di debolezza. Salvo qualche eccezione, chi non paga
regolarmente l'affitto è un uomo destinato a naufragare nella miseria tutta la
vita. A lasciarlo affondare piuttosto oggi che domani la società non perde
nulla. Sul modo di riscuotere gli affitti con una popolazione fluttuante e
sempre in margine alla povertà senza rimedio, l'esperienza non ammetteva due
sistemi. Bisognava riscuoterli di settimana in settimana, se si voleva trovarsi
contenti alla fine dell'anno.
Col libriccino delle noterelle alla mano, diceva al signor Giorgio che
c'erano alcune passività che toglievano anche l'idea di un indulto. Il numero
38 del terzo piano del blocco C, per esempio, rimaneva vuoto perché la gente
s'ostinava a considerarla una stanza indiavolata dal giorno in cui quel matto
di pittore vi si era tolta la vita invece di sloggiare o pagare l'affitto.
— Vedete come fanno gli spiantati: si ammazzano piuttosto che fare il
loro dovere. Se ne vanno e lasciano gli altri negli impicci. Il signor Pasquale
fu tanto disgustato degli artisti che non ne volle più sapere.
Ghiringhelli continuava a scorrere le note e a salire i gradini. Giunto
al primo piano del blocco A, si fermò al 26, bussando.
— Ehi, Tognazzo? Siete morto? — diss'egli spingendo l'uscio.
Tognazzo era disteso sul pagliericcio fetente con una gamba giù dal
letto e le braccia slargate coi pugni chiusi. La stanza era spaventevolmente
vuota. Non c'era che un crocifisso di stagno ricamato di ragnatele alla parete
e una panca spaccata dalla falce e buttata sul focolare spento. I calzoni e il
giacchettone sporchi e pezzati erano in terra vicino alle pezze dei piedi marce
e alle scarpe squinternate. Ghiringhelli, cercandolo sul libriccino, parlava
come a se stesso e si riconvinceva della sua convinzione che la grappa era la
maledizione della povera gente. Tognazzo, dopo essere stato il modello degli
inquilini per tanti anni, dopo avere avuto la stanza piena di mobilia, si era
ridotto l'ultimo pitocco che vende l'ultima seggiola per bruciarsi lo stomaco
con un'altra mezza zaina di liquido ardente.
— Se vi lascerete impietosire — diceva rivolto a Giorgio — le loro
disgrazie diventeranno le vostre.
Lo prese per il pugno e lo scosse con qualche violenza.
— Tognazzo, svegliatevi che sono già le dodici.
Giorgio, che si commoveva in casa della pitoccheria, si volse
verso la ringhiera. Egli avrebbe voluto lasciarlo dormire. Tanto e tanto
all'affitto non c'era da pensare. Ma Ghiringhelli, che voleva comunicargli lo
sfratto, gli riprese il pugno tirandolo verso la sponda.
— Svegliatevi, che ho fretta — diss'egli con voce stizzita. — O è ubbriaco
fradicio o non è più tra i vivi. Ecco la vita da cane che conducono questi
pezzenti. Invece di tenere da conto, consumano tutto dall'acquavitaio e
all'osteria.
La donnicciuola del 27 uscì a dirgli che poteva darsi che dormisse della
quarta, perché la notte passata lo aveva sentito a lamentarsi e a fare del
fracasso fino alle tre del mattino. Non era andata a vederlo perché da un po'
di tempo si guardavano in cagnesco. Bevendo, era diventato permaloso e
ipocondriaco e bestemmiava
— Sugli arretrati possiamo tirare la croce — disse l'amministratore
degli Introzzi.
Giorgio e Ghiringhelli ripresero il loro giro e Margherita, la 27,
dimenticando le villanie dell'ultima volta, passò il gradino sul quale aveva
giurato di non mettere più piede, e, adagio adagio, colla schiena alla parete,
andò verso i piedi, guardando e non guardando per paura di trovarsi a faccia a
faccia col cadavere. I morti le mettevano addosso la terzana e andavano a
turbarla di notte con sogni che le davano i brividi. La Lucia dell'anno scorso, morta col sangue alla bocca, non le era ancora uscita dalla mente.
Tognazzo era là che pareva rovesciato da qualcuno in una lotta disperata.
Sembrava che i peli dello stomaco tentassero risollevarsi dalla sconfitta. La
faccia spaurita dalla magrezza aveva conservato i segni delle contrazioni
crudeli e gli occhi vitrei nella profondità delle occhiaie completavano una
figura spaventevole. Margherita non seppe trattenere un grido che andò giù
dalla ringhiera a chiamare disopra le donne nel cortilone a pettinarsi.
— Che c'è? Che cosa c'è?
Le si pigiarono intorno come sbigottite esse stesse di trovarsi dinanzi
il 28 lungo e disteso con la barba che sembrava stata scompigliata dal vento.
Giovanna si stringeva nelle spalle e diceva all'altra che non poteva vedere i
morti senza sentirsi gelare il sangue. Provava dei tremori alle gambe.
L'opinione di tutte era che il povero Tognazzo doveva essere crepato come un
cane.
— Povero diavolo!
Ciascuna di esse se lo avesse saputo sarebbe andata a portargli almeno
una goccia d'acqua. Erano tutte cristiane e in un momento di bisogno sapevano
farsi in quattro. Vivo lo si lasciava nel suo brodo perché era un selvaticone
che non si sapeva da che parte prendere. Se gli si diceva buona sera,
rispondeva con una spallata e voltava via la faccia come se gli si avesse detto
una porcheria. A chi gli domandava se stava bene o male, digrignava i denti
come una bestia cattiva.
La poverezza dell'ambiente faceva venir freddo. Non c'era proprio nulla,
neppure uno straccio per far giù la polvere al crocifisso da mettergli sul
letto. Giovanna piangeva dalla paura ch'egli fosse morto di fame. Era una
crudeltà lasciar morir di fame un povero cristo che non faceva nulla di male.
Ma Luigia la consolava dicendo che non si poteva morire di fame. Ne aveva fatta
lei della fame e non ne era morta.
Intanto che Margherita versava qualche goccia di olio nel lumicino di
vetro per non lasciarlo allo scuro, le altre gli raccoglievano le braccia dalla
pelle che ingialliva e lo coprivano fin sotto la gola con la coperta sucida e
piena di buchi e di rattoppi che faceva schifo. Era una vergogna lasciarlo lì
con gli occhi che buttavano indietro dalla paura. Parevano indemoniati e
Luigia, dicendo ch'era meglio chiuderglieli, gli calava la palpebra, la quale
risaliva lentamente come quella dell'occhio meccanico. Un orrore che non si era
mai visto. Le più vecchie si facevano il segno della croce e dicevano che
doveva essere stregato se non poteva tener chiusi gli occhi. Qualcuna voleva
scappare o chiamar gente in aiuto. Ma Margherita le tranquillò tutte dicendo
che gli occhi aperti portavano fortuna.
Si guadagnava nove volte su dieci. Il gioco del lotto era diventato
birbone e ormai col nuovo governo non guadagnavano più che i signori. Un tempo,
quando c'erano gli austriaci, anche le povere donne prendevano degli ambi.
Adesso non rimanevano loro che gli occhi aperti dei cadaveri e qualche sogno in
cui i morti portavano loro i numeri. Sul Tognazzo non c'era dubbio. Egli era un
morto che poteva rovinare il lotto. C'erano semplicemente dei numeri che
bisognava buttar via e il guaio era che si potevano buttar via proprio quelli
che potevano venire. Il libro dei sogni parlava chiaro. Morte, senza alcuno di
notte, 50; occhi spalancati 22.
— Il 22 è venuto la settimana scorsa — disse Luigia.
— Va bene, ma può venire anche stavolta. C'è nella ruota tutte le
settimane. Chi tira su i numeri ha gli occhi bendati, ed è un ragazzo innocente
come l'acqua. State attente: miseria 55, fuoco spento 3, cadavere 61, numero
della stanza 28, non ammogliato 10, capelli castani 27. Ci sono degli ambi e
dei terni per tutto il vicinato.
Margherita si sceglieva i più buoni. Il fuoco spento perché
rappresentava la desolazione, il cadavere perché era tutto l'uomo e gli occhi
spalancati perché non perdevano mai.
— Io giuoco 3, 22 e 61.
Giovanna metteva al posto del fuoco spento il 55, la miseria. Il fuoco
poteva essere spento anche perché non aveva voluto accenderlo. Ma la miseria
era lì bella e buona che nessuno poteva negare. Anche la Luigia era di questo parere. Il fuoco era spento, ma c'era la legna. La miseria invece non
avrebbe potuto cacciarla via anche se avesse voluto.
— E poi — disse Giovanna — io credo che sia morto di fame.
E questo pensiero faceva spuntare i lacrimoni a Luigia.
— Io metto 22, 55 e 61.
— Fate come volete, ma non venite poi a lamentarvi da me. Io vi ho dato
tre numeri che in coscienza sono buoni. Adesso tocca a voi. È venerdì e io
corro per paura di dimenticarmene.
I numeri scelti fecero il giro delle ringhiere.
|