Giorgio era più equilibrato del suo ragioniere. Con la
stampa che cacciava il naso dappertutto, anche negli affari privati, era da
uomo con la testa sulle spalle sopprimere i buchi che davano l'idea di un
Casone dilapidato. Le scale le considerava davvero in uno stato
deplorevolissimo. Una volta che vi era stato col padre andò a rischio di
rompersi l'osso del collo. C'erano gradini sdruciti, gradini slabbrati, gradini
smossi, gradini in due, gradini con dei solchi che slogavano i piedi e gradini
che non erano più gradini. Domani poteva capitare una disgrazia al medico o a
uno della Congregazione di carità e il nome degli Introzzi andare in pubblico
come quello di quei padroni di casa che hanno per ideale la proprietà senza
doveri. Lui amava il denaro come suo padre, forse più di suo padre, ma ci
teneva a non essere inumano. Ghiringhelli era padrone di dire quello che voleva
perché era più vecchio. Lui però aveva quarant'anni di meno e un altro concetto
del padrone di casa. Tanto più vedeva il suo edificio in rovina, quanto più il
suo pensiero si rovesciava su tutto quell'ammasso di stanze malfatte, mal messe
assieme, mal tenute, e faceva sorgere al loro posto un vero palazzo operaio,
come uno di quelli del Peabody, che aveva veduto in Inghilterra e in America, coi
loro cortili erbosi per i figli che hanno bisogno di aria pura, con gli
appartamenti a due, a tre e a quattro stanze alte, arieggiate, con le latrine
inodore, con le pompe a ogni piano, con gli acquai in ogni abitazione, con il
lavatoio comune a tettoia e con la buca delle spazzature coperta e in un luogo
staccato dai blocchi abitati.
Giunto al penultimo gradino del secondo piano, dinanzi l'uscio del
calzolaio, i suoi pensieri filantropici venivano stroncati dalla scena che si
svolgeva un po' dappertutto, lungo le ringhiere di ogni blocco. Il marito, con
gli occhi striati dal vino a buon mercato, si levava in piedi, incalzato dalle
grida delle donne che dicevano che sarebbero andate a chiamare i questurini. Lo
si diceva un satanasso cattivo come la peste. In galera ce ne dovevano essere
dei migliori, se era vero che non erano tutti assassini. Non si era mai visto
uno sporcaccione come lui che dava più botte alla madre dei suoi figliuoli che
bocconi di pane. Se fosse stato il loro uomo gli avrebbero messo le budella al
collo. La Pina, con la faccia sconciata dagli sberlotti, con le gengive che
facevano sangue, sbalordita dalla violenza, si ravviava i capelli, si asciugava
gli occhi con la punta del grembiale e accarezzava i bimbi che piangevano
intorno alle sue gambe. Il calzolaio incanagliva piangendo. Si toglieva il
grembiale a petto e lo sbatteva sul desco dei ferri dicendo che la sua era una
vita da cane. Un giorno o l'altro, con quella donna, avrebbe finito per
commettere uno sproposito. Era lui che li manteneva tutti e non era padrone
neanche di bere quando voleva, in santa pace, senza essere tormentato da quella
vipera che gli toglieva il fiato. Non era possibile che la durasse con una
stracciona che non aveva un soldo di pane quando l'aveva sposata e che ora gli
faceva fare di quelle figuracce. A questo mondo si è proprio ricompensati bene.
Con tanto lavoro e con tanti figli sulle spalle era obbligato a farsi passare
la rabbia dabbasso con del vetriolo. E se ne andava singhiozzando e contando
gli spiccioli che aveva nel taschino del panciotto stracciato.
La Pina, finito di piangere, continuava ad accarezzare il bimbo che si
era presa in braccio e a dire alle donne che avevano voluto difenderla di
occuparsi delle loro case che n'avevano tanto bisogno. Il suo marito era
padrone lui in casa sua e poteva fare quello che voleva della sua donna, senza
che loro andassero a dargli dello sporcaccione.
— Sporcaccione sarete voi, pettegole!
Ghiringhelli non aveva smesso di leggere le note. Non era il primo
marito bestiale che vedeva. Le famiglie di questi casoni non passavano mai la
giornata senza scompigliarsi e finirla con una sfuriata di schiaffi. Prendersi
per i capelli e gettarsi alla testa l'immondizia del vocabolario plebeo non
voleva mica dire, per loro, andare in collera. Mezz'ora dopo potevano trovarsi
insieme a gozzovigliare e a mangiare senza neppure ricordarsi dei morelli sulla
faccia e delle morsicature al collo.
— Dite a vostro marito — disse tranquillamente Ghiringhelli che
consultava le sue cifre — che se sabato non riceverò le tre settimane, potrà
considerarsi licenziato. Egli è padrone di andare all'osteria e di bersi fuori
la camicia, se vuole. Purché non dimentichi di pagare l'affitto. Siamo intesi.
A Giorgio sembrava che fosse stato un po' duro. La rassegnazione della
povera donna che soffocava il crepacuore nella faccia del piccino, meritava
almeno un po' di tregua. Ghiringhelli alzò il lapis con un gesto d'impazienza.
Se si inteneriva per dei casi come questi, poteva rinunciare alle pigioni. Si trattava
di gente ereditariamente cronica che si trasmetteva, di generazione in
generazione, la stessa voluttà di percuotersi e di stracciarsi le carni coi
denti e di rotolarsi sul pavimento abbracciati dalla collera alcoolizzata. Il
suo mestiere era di curare gl'interessi dei suoi amministrati. Se avesse dato
loro ascolto, li avrebbe mandati al fallimento più di una volta. Anche
Pasquale, ridendo, gli diceva sovente che aveva il pelo sullo stomaco. Ma poi
conveniva che quello che gli aveva detto avveniva. Valeva di più lasciare una
bella somma a qualche istituzione per i poveri, che sperperare una fortuna in
piccoli perdoni che giovano solo a far perdere completamente al popolo il senso
della responsabilità individuale.
Ora si trattava di un caso più difficile. C'era la 49 che occupava due
stanze da parecchi anni e che da parecchi anni pagava regolarmente. Alla
scadenza il padre di Giorgio diceva al ragioniere:
— Ghiringhelli, registri il semestre della 49, al primo piano del blocco
A, che mi ha mandato i denari.
— Va bene — gli rispondeva lui con qualche colpo di tosse che traduceva
il dubbio e non se ne parlava più per altri sei mesi. Dalla morte di Pasquale
era diventata una leticona che si sottraeva a tutti i mezzi pacifici. Le si
mandavano delle sollecitatorie e delle sollecitatorie con minaccia di
sgombrare, senza riuscire a rimetterla sul binario del pagamento a data fissa.
All'incaricato Fioravanti che andava a riscuotere, rispondeva sbattendogli
l'uscio in faccia:
— Dite al padrone che venga lui a prendere l'affitto!
La 49 era una di quelle ragazzotte che crescono e si sviluppano
superbamente tra gli scapaccioni e i patimenti. A dieci anni correva per il
cortile a piedi nudi e svegliava negli uomini che la vedevano il desiderio acre
di palpeggiarla o di sentirsela fresca tra le braccia. A tredici, cogli
occhioni neri circondati di macchioline fulgide, con i capelli nerissimi giù
disseminati per le spalle, con il seno nudo che pareva un nido di piaceri,
perdeva dovunque il sentore della vergine che ha già scaldata la carne
dell'altro sesso. Di sera si lasciava inchiodare al muro dai baci dei primi
ragazzotti che la sorprendevano sulla scala, o lungo la ringhiera con la
tazzina in mano della cena. La madre, una donna che faticava maledettamente a
tenerla in piedi con del pane e della minestra, la cacciava in casa a pugni e
le diceva che era una vergogna marcia che una ragazza della sua età fosse
sempre fra le gambe degli uomini. Annunciata lasciava dire e ritornava all'aria
aperta come una che tripudiava nell'ambiente. Non era ancora vecchia per
ammuffire negli angoli di una stanza lercia e piena di fumo, quando il fuoco
era acceso. Si lasciava ingravidire senza pensarci, con la stessa
spensieratezza di tutto ciò che faceva. Il primo abbraccio vittorioso che la
lasciò col sedimento fecondo fu come l'ultimo. Un caso. Un'avventura senza
precedenti, senza continuazione. La prima volta si lasciò sdraiare nel
pomeriggio di una domenica soleggiata, in un prato rasente il viale del
Sempione, dal figlio di un facchino che le aveva dato da un pezzo delle
ciliegie rosse come le sue guance. L'ultima venne colta dal figlio del
maniscalco sulla piazzetta. Egli le ruppe la resistenza mettendole la mano
sulla spalla. Con la mano del maschio sulle carni, i nervi di Annunciata oscillavano
come sotto l'azione di un filo elettrico. Piegava, perdeva la conoscenza, non
era più padrona di sé. Fu di molti senza mai essere di alcuno. Il suo gusto era
di slacciarsi dagli abbracci e andarsene via più indipendente di prima. Ella si
dava perché le faceva piacere, ma non voleva le seccature degli uomini che si
attaccano alla gonna come a una proprietà individuale. Morta la madre, la gente
matura che aveva del lusso aveva tentato di farsene una mantenuta. Le aveva
esibito la ricchezza della vita, le aveva impromesso delle gite sul lago e
delle giornate in campagna. Invano. Annunciata scappava ridendo e ogni giorno
ritornava a mettere le ginocchia nella cassetta del lavatoio, a sbattere la
biancheria sulla pietra e a partecipare alle canzoni delle compagne che si
diffondevano come cori sull'acqua che biancheggiava di sapone.
Le sue gravidanze non impensierivano e non importunavano gli autori.
Essa scompariva per qualche settimana e ricompariva a riassumere il servizio di
lavandaia che lavora per proprio conto come se nulla fosse avvenuto. Usciva
dagli strazi materni ammantata di un pallore che illeggiadriva la grandiosità
delle sue forme sempre in fiore. Pasquale, il padrone di casa, se la portava
negli occhi ogni sabato in cui andava in giro lui stesso, di uscio in uscio, a
raccogliere i settimanali e gli affitti. Certe volte che la vedeva con le sue
cosce di donna fatta e con il largo della sua carne sana e rosea, si sentiva
preso da una voglia birichina di immergere le labbra nel suo seno turgido e di
suggere ai capezzoli fino all'ubbriachezza. E per rinsensare doveva scuotersi
la testa a più riprese come per snebbiarsela e sottrarsi dalla malia. Sovente
diceva alla mamma di tenersi i soldi della pigione e di comperare qualche cosa
alla tosa. A lei portava sempre qualche dolce che le regalava con una
mezz'oncia. Se sua moglie fosse stata una donna più ragionevole, egli non
avrebbe esitato a mettersela in casa come una della famiglia. Perché in certi
momenti gli pareva che fosse dovere del padrone di casa di dare una mano dove
mancava il padre. Con gli anni questa bellezza selvaggia aveva finito per
dargli dei capogiri e per incendiargli i sensi. In Verziere, seduto alla
vendita, se la sentiva nella testa, nel sangue, nella pelle e più di una volta
i suoi pensieri indiavolati lo scudisciavano e lo facevano correre in cerca di
lei per naufragare nelle sue braccia. Ammalata o indisposta, si metteva a
disposizione di lei come un padre affettuoso. La faceva visitare da un medico a
pagamento, le mandava dei corbelli di frutta e dei sacchetti di dolci che
comperava in Santa Margherita, e alla sera andava a tenerle compagnia con
qualche bottiglia di vino stravecchio della sua cantina. Furono queste
gentilezze che permisero a Pasquale di godere l'intimità della coltre di
Annunciata, anche quando gli altri con delle manate d'oro rimanevano col
desiderio.
Morì come un ingrato, senza ricordarsene, senza lasciarle un centesimo,
senza mandarle un addio. Essere stata buona e trattata in quella maniera le
faceva male al cuore, proprio, perché era della ingratitudine nera. Sovente,
quando era da lei, apriva il portafoglio gonfio di biglietti di banca e le
diceva:
— Senz'offenderti, serviti come se fosse roba tua.
Lei, che aveva sempre avuto della repulsione per la mantenuta e che
aveva tra le poche idee della sua testa la convinzione che la donna, quando non
è inferma, deve bastare a se stessa, respingeva l'offerta negandogli i baci
ch'egli con grazia voleva pagarle.
— Non sono di quelle, io, sai!
Allora Pasquale le faceva passare la sua mano enorme per il dorso come
un solletico e le diceva che era una gran buona figliuola.
— Lo credo bene, lo credo!
— Tu puoi fare quello che vuoi. Ma io non me ne andrò da questo mondo
senza lasciarti qualche cosa. I miei figli ne hanno anche troppo. Ho
incominciato anch'io a guadagnarmi il pane con la carriuola del fruttivendolo.
Se non ne hanno abbastanza facciano come il padre: lavorino. Io voglio che tu
non abbia più bisogno di romperti le braccia come fai oggi, e che tu possa
conservarti l'indipendenza che ti è tanto cara. Perché in fin dei conti tu hai
ragione. I giovani sono degli sciuponi che voltano le spalle da un'ora
all'altra e i maturi gente che ti gualcisce e ti saluta alla prima ruga.
— Ingrato!
Se ne infischiava dei suoi denari, perché i denari non li aveva mai
amati. Ma non credeva Pasquale capace di corbellarla come un gaglioffo. Chi gli
aveva mai cercato qualche cosa?
Ghiringhelli bussò all'uscio con le nocche, leggermente, per paura di
sentirsi in faccia qualche improperio. Con un'altra inquilina si sarebbe
servito dei mezzi spicci che la legge mette a disposizione dei galantuomini.
Con la 49 bisognava andare adagio per evitare lo scandalo di fare sapere al
pubblico, che lo aveva accompagnato al cimitero come cittadino virtuoso, che
Pasquale, in fatto di morale, non era proprio superiore al suo tempo. A lui,
ragioniere, non conveniva parlare. Ma quando registrava il semestre della 49
gli veniva una voglia pazza di aggiungervi tre!!! Non era possibile credere che
il suo principale si occupasse della miseria di due stanze per dimenticare
quella degli altri 483 inquilini. Ribussò più forte e fece segno a Giorgio di
avvicinarglisi.
— Avanti!
Era una voce dolce che andava piuttosto al cuore. C'era nulla della
insolenza di cui parlava sovente l'incaricato Fioravanti per vendicarsi di uno
schiaffo che gli aveva dato al sole, un giorno ch'egli si era permesso di farle
sdrucciolare nell'orecchio una sudiceria. Ghiringhelli, che voleva entrare con
un'aria d'amministratore deciso a farla finita, pur vedendola con le maniche
rimboccate fino alla spalla, si tolse la tuba domandandole scusa se la si
disturbava.
Ella sorrise come una grande signora abituata ai complimenti. Non la si
disturbava affatto. Stiracchiava delle lenzuola per una vicina che stava per
mettersi a letto coi dolori di parto. Si sa, le povere famiglie hanno la
biancheria contata. Non appena capitano loro di queste disgrazie la lavandaia
deve correre al fosso anche se è stanca morta.
Ghiringhelli rimaneva lì a bocca aperta. Non gli pareva vero che
Pasquale, quantunque vigoroso e in gamba, avesse potuto avere il cuore di un
tocco di ragazza di quella fatta. Alzando le braccia per tirar giù la
biancheria dalla corda che andava da una parte all'altra, la carne bianca della
lavandaia pareva diffondesse della luce nel buio della stanza. I peli biondi
delle ascelle all'aria suscitavano nell'amministratore una sensazione che non
aveva mai provato. Giorgio, dietro le sue spalle, si riversava con gli occhi nella
cavità del seno e risaliva per le eminenze come inebriato.
— In che posso servirli?
Ghiringhelli non sapeva più da qual parte incominciare. Giorgio guardava
in terra e di soppiatto inseguiva i suoi piedini chiusi in una calza a
quadrettoni scozzesi.
— Ecco, io sono l'amministratore del signor Giorgio Introzzi e prima lo
ero di suo padre buon'anima. Intanto che si stava facendo un giro col nuovo
padrone, si dava un'occhiata per vedere se vi erano delle operazioni da fare.
Qui sembra che sia tutto in ordine.
Annunciata tirava via a stiracchiare e a piegare la biancheria come
donna che non aveva tempo da sprecare. Lei non era mica una sporcacciona.
Abituata a lavarsi continuamente al fosso, le piaceva la casa pulita. Quando
c'era qualche riparazione da fare non incomodava nessuno. La faceva fare a
proprie spese. Potevano vedere la calcina fresca intorno all'acquaio fuori
dell'uscio. Col signor Pasquale era un'altra cosa. Lui ci veniva due o tre
volte la settimana e gli inquilini, abituati a vederlo, non avevano paura di
aspettarlo sulla scala e di dirgli quello che mancava in casa loro. Lui aveva
cura della popolazione della sua casa. Nei sei anni che lo aveva conosciuto non
le aveva mai dato modo di domandargli un chiodo. Non era ancora caduto che
c'era lì l'uomo col martello in mano. Era un padrone che considerava la
vitaccia dei poveri cristi, perché diceva che anche lui ne aveva provato delle
belle.
Giorgio assentiva col capo in tutto quello che udiva e aggiungeva
ch'egli non desiderava che di continuare le tradizioni paterne, migliorandole
dove erano deficienti. Secondo il suo debole parere sarebbe stata necessaria
una stufa nell'angolo per asciugare la biancheria e anche l'abitazione. Ella
era giovine e aveva della salute da buttar via, ma i malanni non si facevano
annunciare. Capitavano addosso a ogni momento, senza fare tanti complimenti.
Lui stesso, che non aveva che venticinque anni, aveva preso dei dolori
reumatici per avere dormito imprudentemente in una camera stata chiusa per
degli anni con della mobilia che suo padre vi aveva dimenticato. Le pareti
erano coperte di uno strato umidiccio che faceva tanto male alla salute.
Annunciata sorrideva. Lei era troppo forte per acchiapparsi dei malanni.
Non era stata ammalata che una volta e anche questa per essersi storpiata un
piede in una pozza del cortile. Se ne ricordava ancora per la disperazione del
signor Pasquale, buon'anima. Il brav'uomo non se ne poteva dar pace. Diceva che
la colpa era sua e che toccava al padrone trascurato di riparare al malfatto.
— Mi mandava il suo medico e alla sera stava qui a farmi compagnia,
seduto nella poltrona rossa che vedono là in fondo. Era un cuore d'oro, il
signor Pasquale.
Figlio e amministratore si piegavano con la faccia illuminata dalla
compiacenza.
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