Al sabato il Casone si tramutava in una fiera. Era un
andirivieni di persone che non finiva mai. Si vedevano frotte di ragazze che
rincasavano dalle fabbriche, madri che entravano con le corbe cariche di
provvigioni per la domenica, giovani che passavano con la giacca sulla spalla
come infuriati dall'appetito, e uomini stracchi, con le scarpe piene di
polvere, con le giacche e i capelli impillaccherati di calcina, che andavano di
sopra con le sleppe di polenta nei fazzoletti colorati che non avevano mangiate
al lavoro. Il cortilone era cosparso di capannelli di operai in maniche di
camicia, di individui seduti sui cavalletti o appoggiati alle carriuole dalle
stanghe in aria o addossati alle muraglie, che discorrevano tranquillamente
dell'aumento del pane, come di una birbonata del sindaco. Se la andava avanti
di questo passo, diceva il 61 del quarto piano, blocco B, si poteva finire per
fare il ladro. C'era il figlio della 74, della sesta ringhiera, il quale
passava nove mesi dell'anno in prigione, e stava meglio di loro fuori a
frustarsi le ossa. Un poveraccio di fabbro con una e ottanta al giorno doveva
nutrire sei persone; col pane a quaranta centesimi il chilo, non aveva altra
alternativa che patire la fame o fare dei debiti. Il 39, della seconda
ringhiera del blocco A, conveniva anche lui che non si poteva più vivere. Una
volta al sabato c'era modo di berne un mezzo e passare un'ora cogli amici.
Adesso era molto se si riusciva a comperarsi un grosso di tabacco di seconda
ogni due giorni. Luigione, del terzo capannello, coi capelli arruffati e la
cravatta rossa, diceva, pipando, che c'era nel «Secolo» che l'aumento era una
trama dei signori, i quali volevano punire così gli operai che davano ascolto a
certi caporioni con certe ideacce che finivano per condurre i gonzi alla
rivoluzione. Nessuno aveva mai saputo spiegare chi erano questi caporioni con
tante brutte idee per la testa. Era però certo che prima di loro non si andava
tanto a cercare il pelo nell'uovo. Per conto suo...
— Cacone!
Tutti si erano voltati dalla parte della voce. Chi era che aveva
parlato? Se c'era qualcuno che gli bastavano i suoi cinque soldi poteva andare
innanzi che lui non aveva paura. Non era più di primo pelo, ma non si sentiva
tremare le ginocchia, perdio! Anche se fosse stato un gigante, perdio! Già, una
volta o l'altra doveva venire alle mani con uno di questi birichini che
sollevano i poveri diavoli che hanno la famiglia da mantenere, e lasciano gli
altri nei pasticci. Caconi voialtri che dite sempre di voler fare la
rivoluzione e non la fate mai!
— Cacone!
Dall'ultimo capannello a sinistra si staccava un giovine alto, forte, in
giacca di velluto oliva chiaro, con cravatta nera giù per la camicia di cotone
azzurro, con il cappello floscio dall'ala rotonda, che pipava nella radica che
gli sbatteva l'acceso sulla faccia.
— Cacone!
Luigione voleva buttarglisi addosso e mangiargli via il naso. Era un
pezzo che gli prudevano le mani e che aveva voglia di sfogarsi con uno di
codesti arruffapopoli che mettevano sottosopra il cortilone. Lui era lì che lo
aspettava. Solamente domandava il permesso alla compagnia di cavarsi la giacca
per sentirsi più libero. Ma gli altri si mettevano di mezzo e dicevano che non
c'era nulla di male. Chiunque, discutendo, poteva avere delle opinioni, senza
venire alle mani. Se si fossero dovuti ammazzare tutti coloro che la pensavano
diversamente, là là, si sarebbe dovuto lavorare di coltello tutto il giorno.
Con un po' di calma si sarebbe veduto che tutti e due erano d'accordo.
— Coi rivoluzionarii, mai!
— Coi caconi, mai!
Con il sole che affondava dietro la brace del cielo a perdita d'occhio,
le ringhiere si andavano popolando di fanciulle che uscivano con la cena in
mano, di madri con dei bimbi tra le braccia e tra le gambe e di padri che
masticavano l'ultimo boccone e calcavano il tabacco nel gessino che annerivano
con compiacenza. Le aristocratiche del Casone erano lungo la ringhiera del
primo piano del blocco A, a sinistra, in fondo alla quale abitava l'Annunciata.
Vi si vedevano dei grembiali candidi, delle sottane insaldate, dei corpettini
bianchi e allacciati dalla gala rossa puntata al petto e delle vesti di
percallo colorato giù a piombo con tanta grazia. La ringhiera non era mai
completa che colla Gigia, la stiratrice dei graduati della caserma di San
Francesco. Era una polputa dalle pupille vivaci nella lascivia lattiginosa, con
un mucchio di capelli disordinati e chiari sbattuti indietro, che
cianciava coi pugni sui fianchi e con una audacia che faceva arrossire più di
una compagna. Per lei il dizionario non aveva parole proibite. Quando vedeva la
84 del quarto piano in faccia, che andava via coi passettini della ragazza che
ha sempre paura di cadere, diceva che era ammalata come una dell'edificio di
via Lanzone. Le sorelle Bigliani, che vestivano della stessa stoffa e dello
stesso colore e che l'una non cambiava mai il fazzolettino da naso senza che
l'altra lo cambiasse, passavano via inseguite dalle sue frasi a doppio senso
che facevano scompisciare dalle risa. Le descriveva parlando all'orecchio e
concludeva dicendo che quelle due si volevano bene come marito e moglie.
Andavano sempre a spasso assieme, si alzavano alla stessa ora, quello che
mangiava l'una mangiava anche l'altra, il desiderio della Proserpina era il
desiderio di Elvira e sovente salivano le scale a braccetto. L'Annunciata era
il cavallo di battaglia della lingua della stiratrice. La inchiodava alla croce
della vergogna con dei sottovoci che facevano il giro delle ringhiere. La
diceva malfatta e imbottita, le metteva nel seno della bambagia, le gonfiava i
fianchi con la stoppa e giurava che metà dei suoi denti erano falsi. Non capiva
come gli uomini potessero essere tanto imbecilli da perdere il tempo con una
senza cuore che dimenticava i figli all'ospizio della maternità, come se
fossero stati tanti gattini. Anche lei ne aveva avuto uno e non ne faceva
mistero. Si sa, chi va al molino s'infarina. Ma almeno lei non si copriva di
ipocrisia e lo manteneva a balia colla fatica delle sue braccia. Loro potevano
ridere e anche tossire se volevano, ma la verità era una sola.
— Lo mantengo io con la fatica delle mie braccia, care mie.
Se vedeva la 32 del blocco C, si stringeva al gomito delle amiche e
susurrava alle orecchie, con la parola sbracata, la scena avvenuta due anni
sono al lavatoio, tra quella femmina e l'Annunciata, per un uomo che le aveva
divise lasciando in ciascuna un odio mortale. E stringendosi le amiche ai
gomiti narrava loro che, alla presenza di tutte le lavatrici, si erano gettate
l'una sull'altra coi bramiti della donna ferita nell'amore e con un accanimento
feroce. Vi fu un momento in cui tutte le ragazze saltarono in piedi con un
grido d'orrore. Si credeva che l'Adalgisa avesse sdocchiata l'Annunciata con un
dito. Pareva loro di avere udito il tonfo dell'occhio sbattuto violentemente nell'acqua.
Quantunque nessuna avesse simpatia per una donnaccia che si faceva rompere il
dorso sui prati dal primo maschio chele faceva l'asino, pure, in quell'attimo,
ebbero tutte della compassione. Dopo gli scotimenti per buttarsi a terra, le
due rivali si staccarono l'una dall'altra ansanti, con le facce spruzzate di
sangue, rimboccandosi un po' più le maniche e ravviandosi i capelli per vedere
meglio. Ripresero il combattimento come due lottatrici decise a lasciarvi la
vita. L'una abbracciata all'altra in una stretta suprema, si contorcevano e si
piegavano con la bocca aperta per addentarsi la carne, fino a quando
l'Annunciata, con uno sforzo sovrumano, la levava d'in terra e la scaraventava
nel fosso come un sacco di biancheria sporca. Rimasero tutte intontite.
L'Annunciata era in piedi trafelata, e l'altra si dibatteva nell'acqua vociando
a bocca piena.
— Chi crede che l'abbia salvata?
— Lei!
— Proprio, lei! Intanto che noi restavamo lì istupidite, la rivale si
slacciava le sottane, si immergeva nel fosso, l'agguantava per la vita, la
sollevava dall'acqua la riportava al di là della pietra del lavatoio senza dire
una parola.
— Fu un atto coraggioso e generoso — disse una delle compagne.
— Fu un atto superbo, se volete. Ma desso non mi impedirà mai di dire
ch'ella è peggio di una cagna che dimentica i figli per la strada e cambia gli
uomini una volta la settimana come la camicia.
Alla sera questa maldicente di Gigia si assentava alla sordina per fare
due passi e nessuno la vedeva più che all'indomani, quando ella vi compariva a
sgarbugliarsi gli occhi sull'uscio per dar a intendere che aveva dormito fino a
ora tardi. Ma nessuno credeva alla fintona. Le vicine e le compagne si facevano
dei segni con gli occhi, o si scambiavano parole sottovoce, tagliandole i panni
addosso e non lasciandola che quasi nuda. La dicevano una lingua di ferro che
avrebbe parlato male di sua madre, se la povera donna non fosse morta da tre
anni.
— Una volta — diceva Carolina — era più affettuosa e si passava con lei
una mezz'ora che era un piacere. Ora è invecchiata. Non vede più che sgualdrine
e non c'è monturato che non sia suo. La sua casa è divenuta una caserma di
soldati.
E dicendo questo, Carolina, col gomito appoggiato alla ringhiera,
chiamava le amiche e, col dito puntato verso il portone d'uscita, additava loro
la Gigia che dava il braccio all'Annibale che l'aspettava.
— Il ludro di tutte le donne insaziabili.
— Vedete che ora si adatta anche coi borghesi!
La sera era afosa. Il cielo aveva ai margini delle strisce che parevano
il principio di un incendio. Dappertutto si gocciolava come in un forno. Le
donne si agitavano le vesti per mandare sotto un po' di fresco e gli uomini si
sbottonavano e uscivano con la camicia spalancata a protendere la testa dalla
ringhiera per sentirsi alitare un po' di aria sulla faccia. Il vecchio tintore,
dalle mani piene di crene azzurrate, raccontava al pubblico del quarto piano
del blocco A, che questo non era ancora nulla. Con il caldo del '55, l'anno famoso della cometa con la coda di fuoco, i poveri cadevano per le vie come
estenuati da una pestilenza e i signori si salvavano in campagna come ai tempi
del colera. Ci furono delle giornate in cui si poteva andare a torno nudi senza
paura d'incontrare anima viva. La città pareva divenuta un cimitero.
Lo scalpellino, nel '55, c'era anche lui e aveva già vent'anni. Si
ricordava di una cometa che fu un vero castigo di Dio, di quella del '58,
quando gli strilloni andavano per le porte a vendere le predizioni che
spaventavano tutti gli ignoranti che credevano sul serio potesse cadere sulla
testa come un'immensa tettoia di carboni accesi. Ma di quella del '55 non
sapeva nulla, non ne aveva udito parlare, non credeva che ci fosse mai stata.
— C'è stata. Me ne ricordo come se fosse adesso. L'ho veduta con questi
occhi, signori!
L'atmosfera in alto diventava di brace. Sembrava che salissero i fiati
ardenti dei crocchi giù al buio a raccontarsi l'eterna storia della loro
esistenza. Qualcuno si sentiva venir meno, si faceva vento col fazzoletto e
diceva che si moriva. Antonio, il figlio della povera vecchia del 65 che andava
ancora a lavare i piatti dal farmacista sull'angolo per tre lire al mese, si
era appoggiato al muro con gli occhi smarriti e la faccia tanto bianca da
spaventare le donne. Giuseppa, che sapeva del suo male, incominciò a
palpeggiarlo e a domandargli se stava male.
— Oh Dio, mi pare che svenga! Andate a chiamare la sua mamma, che gli
viene la bava alla bocca. — Antonio stralunava gli occhi. — E tu, Giuliana, va
in casa, che non sta bene una donna incinta intorno a queste disgrazie.
Il tintore gli teneva le mani per impedirgli di menare pugni alla cieca.
— Portate dell'acqua con uno spruzzo d'aceto per bagnargli le tempia.
Tenetegli la testa, santa Madonna! che è capace di rompersela sulla muraglia!
Antonio si abbandonava di peso sulle braccia degli altri e poi tentava
di svincolarsi con grida lunghe e cavernose, come se stessero sgozzandolo.
— Chiamate qualcuno, che diventa furioso, e portate fuori un cuscino da
mettergli sotto la testa. Così va bene. Quando un poveraccio ha di questi
accidenti sarebbe meglio che il Signore se lo tirasse in cielo. Tenetegli giù
le gambe e voi, Peppino, buttatevi attraverso il suo stomaco. Anche suo padre,
buon'anima, è morto d'epilessia. La gente che ha di questi disturbi non
dovrebbe prendere moglie. Dopo si mettono al mondo degli infelici. Badate che
tenta di sollevarsi. Gesummaria, come scricchiola i denti, e che paura mi fanno
i suoi occhi imbambolati nel sangue. Eccolo, tenetelo. Dio, come è forte, a
momenti mi fracassava la mano!
Antonio si era risollevato con un urlo che faceva rabbrividire, cercando
di liberarsi dalle mani che lo tenevano come incatenato e poi si era lasciato
andare di peso, prostrato dalla lotta, con un sospirone pieno di gemiti.
La popolazione era aumentata dappertutto. Alcune ringhiere erano
affollate. Di fuori, agli imbocchi delle scale, c'erano vivai di ragazzi e
gruppi di donne accosciate, col mento sulle ginocchia, e sedute in terra, coi
piedi nudi, che si facevano aria col grembiale e si scambiavano le loro idee
sull'estrazione del lotto. Una volta, una povera donna che metteva regolarmente
i suoi 25 centesimi, era sicura, una settimana o l'altra, di rifarsi con un ambo,
a dir poco. La ruota non era nelle mani dei birboni e i bisognosi guadagnavano
qualche cosa. Ora, che ci son tante diavolerie, non si capisce più niente, il
popolo, bestione, perde. Si continua a giocare gli stessi numeri per dei mesi e
si è obbligati a cambiarli dalla disperazione. La Giovanna, la quale aveva scelto i tre numeri al letto del povero Tognazzo, non era così
pessimista. I numeri buoni non bisognava mai abbandonarli. 22, 55 e 61,
se non eran venuti nelle prime tre settimane, sarebbero venuti fra sei, fra
dieci settimane. Ma dovevano venire. Nel suo sogno dell'altra notte aveva
riveduto Tognazzo disteso sul Ietto, con la faccia scarna e gli occhi striati.
Era un avviso che il povero morto le dava di non dimenticarli.
— Sta tranquillo, povero Tognazzo, che la Giovanna non li dimentica, dovesse impegnare la marmitta appena stagnata della minestra!
La 27 rimaneva attaccata al suo grande principio, che i numeri che non
uscivano in tre settimane non valevano la carta sulla quale erano scritti. La
52 e la 38, che si ostinavano da sei mesi a giocare 36, 69 e 82, non avevano più
nulla da portare al monte. Non rimaneva più loro che la sottana che avevano
indosso. E i loro mariti facevano benone a cacciarle fuori dall'uscio a pedate.
Quando tre numeri non vengono, le donne di giudizio cambiano strada e mettono
degli altri numeri.
La notte infittiva e la fosca luce delle lampade metteva dei chiarori
confusi alle finestre e gettava, qua e là, sui gruppi che chiacchieravano
rasente i davanzali, chiazze che impallidivano e criminalizzavano le facce,
vicini delle quattro ringhiere del blocco ove abitava l'Annunciata, veduti dal
cortilone gremito di chiacchieroni, parevano fantasmi che si rincorressero e si
perdessero schiacciandosi gli uni negli altri. E i chiacchieroni, veduti
dall'alto delle ringhiere, con le loro braccia che uscivano dai raggi della
luna per immergersi nell'ombra, con le loro teste che sparivano e
ricomparivano, sembravano una moltitudine di paesani in tumulto. Giuliano, il
giovine forte, in giacca di velluto, annegato nella velatura chiara della luce
lunare, con la bella testa che soprannuotava sulle altre, diventava la figura
ascetica di un predicatore di turbe.
Buono come un marzapane, ascoltava volentieri ciò che dicevano gli altri
e non andava mai in collera che quando qualcuno sragionava come il Luigione,
l'operaio cacone che sparlava dell'operaio. Gli faceva male di sentire a buttar
giù una classe che lavorava tanto tanto. Suo nonno e suo padre erano stati
operai come lui e come lui perdevano la pazienza se si dava addosso alla gente
che lascia nelle fabbriche quasi tutta se stessa. Nessuno è perfetto. E anche i
lavoratori hanno molto da imparare. Ma, santo dio! non si doveva dimenticare
che loro saltavano via a piè pari il periodo scolastico. Correvano a bottega
quando gli altri fanciulli andavano a scuola.
Se non ci fosse di mezzo la miseria, si vedrebbe che anche i lavoratori
non sono poi tutte zucche. Suo padre, che era stato presidente della società di
mutuo soccorso dei fabbri, gli diceva, strada facendo, che egli era troppo
vecchio per vedere certe cose, ma che era sicuro che i suoi figli e i figli dei
suoi figli avrebbero veduto una società un po' diversa da quella in cui viveva.
Non gli pareva giusto che si dovesse faticare tutto il giorno per stentare la
vita come i pitocchi che facevano nulla. I senzacasa gli rimescolavano il
sangue. Diceva che era inumano di lasciarli a torno per le strade in quella
maniera. Se avevano commesso dei delitti, c'era una buona legge per punirli. Ma
se erano innocenti, bisognava aiutarli come si aiutano i naufraghi quando hanno
perduto tutto durante il viaggio. Una volta, che il suo amico Stefano si era
lasciato uncinare il braccio nelle ruote della macchina, pianse come un
ragazzo. Era uno dei migliori lavoranti e un uomo a cui tutti volevano del
bene. Gli sanguinava il cuore di vedere un povero padre di famiglia ridotto
alla mendicità per un infortunio del lavoro. Si struggeva e si
convinceva che qualcuno avrebbe dovuto pensarci. L'operaio doveva stare
attento, ma la responsabilità dei disastri non poteva essere tutta sua.
Il grido venuto giù dalla scala C decompose l'assemblea che si deliziava
a sentire un giovine che parlava con una semplicità che innamorava. Era il
solito Giovanni che si era ubbriacato. Al sabato non andava a dormire se non
faceva delle pagliacciate, che chiamavano sulla ringhiera anche gli inquilini
che stavano per andare a letto. Non appena metteva piede nella stanza, dava
della porca alla moglie e della vaianella alla figlia, due mangiapani che lui
era stufo di vedersi in casa. Il giorno che gli era venuto in mente di
sposarla, doveva rompersi una gamba tre volte. Il suo dovere l'aveva fatto. La
madre aveva 39 anni e la figlia 20, e tutte due potevano andarsene fuori
dall'uscio quando volevano. Lui non aveva bisogno di nulla. La minestra sapeva
dove mangiarla, e più buona, accidenti!
Se aveva del vino fino alla gola, allora cominciava a sacramentare coi
pugni sul tavolo e finiva col trascinarle giù dal letto come stavano, per
inseguirle a calci. La madre si lasciava martirizzare sovente senza dire una
parola. Era inutile prendersela con un uomo che non sapeva quello che si
faceva. Ma Luciana diventava più d'una volta una tigre. Stavolta si gettò indosso
la veste e, coi capelli giù per le spalle e lo zoccolo in mano, si mise tra lui
e la madre.
— Provati a batterla, vigliaccone, se sei buono!
Giovanni, aizzato, le si rovesciò addosso col manone spalancato. Luciana
non vide altro. Gli menò una zoccolata sulla fronte che lo fece stramazzare al
suolo inaffiato di sangue con l'urlo di un bue che ha ricevuto il primo colpo
sulla testa.
— Non ci sto più in questa casa! Casa del demonio, casa d'inferno! —
diceva annodandosi al collo il fazzoletto di seta scarlatta. — Andrò al
diavolo. Non mi vedrete più, più, più! È ora di finirla con un imbriacone di
padre che non ci lascia quiete neanche in letto. Crepa! E tu, madre, guarda
bene di dargli una mano. Lascialo lì a morire come un cane.
I vicini le davano ragione. L'ubbriachezza del padre era divenuta
cronica. Sciupava parte della settimana e poi andava disopra a maltrattarle.
L'inquilina di faccia, al loro posto, sarebbe andata alla questura. Un
po' di prigione per certi sbevazzoni non fa male. Le amiche accarezzavano
Luciana e le dicevano di ritornare a letto, che la gente non avrebbe mancato di
sparlare e di dar ragione a chi non ne aveva.
— Facciano! Dicano! — rispondeva lei, accomodandosi il cappello di
paglia affollato di fiori. — Sono stufa! Sono stufa!
E batteva i piedi come presa dalle convulsioni.
Andrea, che era stato avvertito all'osteria che il padre della sua
morosa era di sopra a fare il prepotente, entrò nella stanza con la faccia
spaurita. Era un tocco di vergogna che un uomo di 40 anni tribolasse delle
povere donne tutta la settimana. Bisognava farla finita. Voleva aspettare
ancora qualche mese per comperare della mobilia a pronti contanti. Ma non
importava, avrebbe compiuto anche questo sacrificio per dare un po' di quiete
alle donne.
— E tu, Luciana, ricordati che casa nostra sarà casa della mamma. Per un
boccone di pane e un cucchiaio di minestra, non andremo in malora, non andremo.
Luciana piangeva appesa al collo di Andrea e l'inquilina di faccia
lavava con una pezzuola inzuppata la fronte dell'ubbriaco, perché a questo
mondo bisognava essere cristiani anche coi cattivi. Sono dei dolori di testa
questi uomini. Già, un po', la colpa è anche degli osti. Se non dessero loro da
bere quando hanno gli occhi rossi, non ci sarebbero di queste disgrazie.
Dabbasso il cortile e il cortilone si erano spopolati. Non c'erano più
che poche persone sparse che tiravano dalle pipe le ultime boccate di fumo, e,
qua e là, delle coppie addossate ai muri o agli usci chiusi che si baciavano e
si tenevano la mano in mano. Virginia, la figlia di Giovanna, la 32, era al suo
posto di tutte le sere nell'inquadratura esterna del lavorerio di Luraschi, il
fabbricatore di casse da morto, con la bocca sulla bocca di Angelino, il figlio
della Pina, la moglie del calzolaio manaccione, che se la palpeggiava con dei
gridi di monello viziato. Qualcheduno chiudeva gli occhi per non vedere queste
porcherie di ragazzi che avevano ancora la camicia sporca e si tiravano l'uno su
l'altra come matrimoniati. Peppina, la locandaia, quando usciva a votare il
baslotto dell'acqua dei piatti non poteva trattenersi dal dire la sua. Se
quella sfacciatona di Virgina fosse stata sua figlia, l'avrebbe presa a
sculacciate. Ai suoi tempi si cresceva prima, e non si dava scandalo a nessuno.
Si vedevano in chiesa, alla domenica, e poi si sposavano col consenso dei
genitori. Adesso questi orrori del vicinato producono delle famiglie che tirano
su dei piccini che fanno schifo. E si chiudeva dietro l'uscio, borbottando tra
i denti che, quando c'era un po' di timor di Dio, certe cose non si vedevano.
Peppina, nata nel Casone, aveva 67 anni. Tutt'assieme era una donna che
si vedeva e si portava via nella mente come un ritratto indimenticabile. Era
alta, ischeletrita, con una faccia dall'ossatura pronunciata e un mento così
lungo che ricordava il cavallo. I rari capelli grigi, bipartiti per le pareti
craniche, le spandevano per la testa un po' della beghina e gli occhi neri, che
non avevano perduto nulla della vivezza antica, davano a tutta quella carcassa
dei bagliori di vita. Suo padre era un affittaletti, morto dopo la cacciata dei
tedeschi. Peppina, a furia di risparmi e di buona amministrazione, era riuscita
a compiere il sogno del genitore, che era di allargarsi nelle sei stanze del
pollivendolo che gli appuzzava l'abitazione. I tredici letti diventarono
trentasette. Per degli anni non ne ebbe mai uno vuoto. I suoi avventori stavano
bene e potevano considerarsi in casa propria. Se un giorno si trovavano a corto
di quattrini la locanda della Peppina non chiudeva loro l'uscio in faccia. Si
sa, gli affari non vanno sempre come dovrebbero andare. Senza domandare loro se
avevano fame, metteva sul tavolo una scodella nera, colma di minestra, col
cucchiaio di latta attraverso e diceva di mangiare senza cerimonie. Fu il suo
cuore che la fece venire meno al proponimento di rimanere zitella. Tra i suoi
ospiti del '65 era un poveraccio di precettato che di tanto in tanto veniva
ripreso dalle leggi, senz'altra colpa che quella di essere un disgraziato
addosso al quale poteva pisciare ogni malcreato. Lo aveva veduto dimagrire
senza mai domandare una minestra a credito e correre delle giornate intiere in
cerca di un lavoro che non trovava mai. Nei cenci del pitocco, con la barba
incolta e i capelli lunghi, pareva un diavolo capace di svaligiare le persone
che incontrava di notte. Ma lavato, sbarbato, nutrito regolarmente, con indosso
una camicia di bucato e degli abiti all'onor del mondo, veniva fuori un giovane
di trent'anni da far gola ad una donna più giovine di Peppina. Le informazioni
che le aveva dato il delegato, al quale aveva comunicata la sua idea di
sposarlo, erano di quelle che possono lasciare indifferente una persona di
giudizio e commuovere una innamorata. Si riassumevano in una lunga lista di
arresti e di condanne senza che ci fosse mai un delitto. Il primo momento fu
perché era senza domicilio e non aveva mezzi di sussistenza, il secondo perché
venne trovato attorno senza lavoro, il terzo per vagabondaggio e il quarto
perché colto di notte in un atteggiamento sospetto. Dopo la prima condanna si è
continuato a considerarlo pericoloso e a ricondannarlo come vagabondo recidivo
fino al giorno in cui il magistrato si credette in dovere di metterlo sotto la
sorveglianza speciale della pubblica sicurezza. Una volta precettato, la
riabilitazione, diceva Peppina, che ne aveva veduti tanti, diventava un
paradiso senza entrata. Nessuna casa pulita, che non fosse stata una locanda
come la sua, dava il letto a un precettato che poteva venire visitato dalla
squadra volante due o tre volte per notte.
Questo povero precettato di Andrea Cardellini, di temperamento dolce, si
era affezionato a Peppina in un modo da ingraziarsi anche i vicini che lo
guardavano di malocchio per quei suoi giorni di miseria fino al collo. Passavano
via e gli auguravano la buona sera o il buon giorno, magari con l'aggiunta
dello «state bene, Andrea». L'azienda, a poco a poco, se l'era fatta sua,
spiegando un'attività che faceva meravigliare la stessa Peppina, che ne andava
orgogliosa come del proprio capolavoro. I vetri della casa, da che si era messo
a pulirli, scintillavano come cristalli e il rame della cucina ricordava la
vigilia di Natale, quando le donne preparano tutto che pare uno specchio. Le
stanze avevano i catini di stagno che luccicavano e i pitali, sotto il letto,
non avevano più il fondo incrostato di sedimento come una volta. Tanto più
lavorava, quanto più gli sembrava di mondarsi di un passato che lo faceva
arrossire. Verso sera, mezzo morto dalla stanchezza, dava un bacione alla moglie,
prendeva una scranna liscata e andava col virginia in bocca a sedere tra
l'entrata ed il cortile, dove godeva a correre dietro al sogno di diventar
padre. Egli era stato troppo sventurato negli anni più belli della vita per
rinunciare alla consolazione di sentirsi una mano figliale sulla guancia nelle
giornate della vecchiaia. Un bimbo avrebbe ribadito e santificato la loro
unione.
Ma Cardellini era proprio nato sotto una cattiva stella. Una sera in cui
egli stava lavando alla sainera i bicchieri raccolti sui tavoli, due tristi,
che mangiavano un piattone di frittura, si misero a dargli del lasagnone e a
dirgli che non doveva far tanto il superbioso perché lo conoscevano bene.
— Quei fiori che hai sul braccio te li sei fatti nel camerotto con noi,
te ne ricordi?
La moglie, che gli era vicina a far su delle somme, diede una strappata
alla giacca di Andrea per impedirgli di rispondere. In una locanda c'era
d'aspettarsi di tutto. Erano dei mascalzoni ubbriachi coi quali bisognava
portare pazienza. Andrea si mangiava le labbra senza smettere di lavar
bicchieri. Ma le parole dei malviventi gli avevano fatto l'effetto di una
cinghiata attraverso la faccia. Se non ci fosse stata lì la Peppina, avrebbe dato loro una lezione da ricordarsene per un pezzo. I fiori tatuati sul
braccio, ch'egli non lasciava mai scoperti se non quando doveva voltarsi su le
maniche per immergere le braccia nell'acqua, gli davano già abbastanza fastidio
senza ricordarglieli.
— Precettato!
Peppina si alzò in piedi e con un gesto additò loro la porta. Era una
vera porcheria d'insultare un uomo che attendeva ai fatti suoi. Se non se ne
andavano con le buone, sarebbe andata a chiamare la questura, che era lì fuori
a due passi.
— Per lasciarvi sola col vostro mantenuto! Venga qui lui a mandarci via!
Andrea si sentiva il sangue alla testa. Erano loro che provocavano e che
andavano proprio a prenderlo per i capelli.
Armato di un randello che teneva dietro il banco per precauzione, andò
loro a intimare l'uscita.
— Uscite tutti o vi faccio uscir io a randellate!
Il più giovine degli accattabrighe prese il bicchiere, buttò il vino in
faccia a Andrea e con la prestezza del gatto saltò sul tavolo e gli si
precipitò alla gola con dei «precettato! precettato! precettato!».
Andrea se lo gettò d'addosso con una violenza da rompergli le ossa. Poi,
all'altro che si era curvato per avventarglisi allo stomaco con qualcosa di
puntuto, menò una randellata che gli poteva spaccare il braccio in due. Intanto
Peppina era nel cortilone che gridava:
— Soccorso! Aiuto! Ammazzano mio marito!
La lotta fra i tre si era impegnata in un modo bestiale. Colui, che gli
era saltato sul collo, gli era di nuovo con le mani alla camicia per
strangolarlo e con la bocca che faceva di tutto per mangiargli via l'orecchio o
strapparglielo. Il secondo, bassotto, con una grinta che metteva freddo,
snodato come un saltimbanco, gli aveva fatto cadere il bastone con un pugno
alla nuca che pareva di piombo.
La voce di Peppina aveva radunato quattro o cinque vicini che stavano di
fuori all'uscio a dire loro di smetterla di massacrarsi in quel modo. Andrea,
bianco come un cadavere, con la testa che faceva sangue da tutte le parti,
stordito dai colpi che lo malconciavano, con uno sforzo supremo afferrò il
coltellaccio sul tavolo, e, come uomo che non sa più quello che si faccia, si
divincolò da coloro che stavano per finirlo.
Peppina, ricompariva trafelata coi questurini, proprio nel momento in
cui gli altri due erano in terra e Andrea, inorridito, si guardava le mani
imbrattate di sangue con uno scoppio di pianto.
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