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Paolo Valera
La folla

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Al sabato il Casone si tramutava in una fiera. Era un andirivieni di persone che non finiva mai. Si vedevano frotte di ragazze che rincasavano dalle fabbriche, madri che entravano con le corbe cariche di provvigioni per la domenica, giovani che passavano con la giacca sulla spalla come infuriati dall'appetito, e uomini stracchi, con le scarpe piene di polvere, con le giacche e i capelli impillaccherati di calcina, che andavano di sopra con le sleppe di polenta nei fazzoletti colorati che non avevano mangiate al lavoro. Il cortilone era cosparso di capannelli di operai in maniche di camicia, di individui seduti sui cavalletti o appoggiati alle carriuole dalle stanghe in aria o addossati alle muraglie, che discorrevano tranquillamente dell'aumento del pane, come di una birbonata del sindaco. Se la andava avanti di questo passo, diceva il 61 del quarto piano, blocco B, si poteva finire per fare il ladro. C'era il figlio della 74, della sesta ringhiera, il quale passava nove mesi dell'anno in prigione, e stava meglio di loro fuori a frustarsi le ossa. Un poveraccio di fabbro con una e ottanta al giorno doveva nutrire sei persone; col pane a quaranta centesimi il chilo, non aveva altra alternativa che patire la fame o fare dei debiti. Il 39, della seconda ringhiera del blocco A, conveniva anche lui che non si poteva più vivere. Una volta al sabato c'era modo di berne un mezzo e passare un'ora cogli amici. Adesso era molto se si riusciva a comperarsi un grosso di tabacco di seconda ogni due giorni. Luigione, del terzo capannello, coi capelli arruffati e la cravatta rossa, diceva, pipando, che c'era nel «Secolo» che l'aumento era una trama dei signori, i quali volevano punire così gli operai che davano ascolto a certi caporioni con certe ideacce che finivano per condurre i gonzi alla rivoluzione. Nessuno aveva mai saputo spiegare chi erano questi caporioni con tante brutte idee per la testa. Era però certo che prima di loro non si andava tanto a cercare il pelo nell'uovo. Per conto suo...

Cacone!

Tutti si erano voltati dalla parte della voce. Chi era che aveva parlato? Se c'era qualcuno che gli bastavano i suoi cinque soldi poteva andare innanzi che lui non aveva paura. Non era più di primo pelo, ma non si sentiva tremare le ginocchia, perdio! Anche se fosse stato un gigante, perdio! Già, una volta o l'altra doveva venire alle mani con uno di questi birichini che sollevano i poveri diavoli che hanno la famiglia da mantenere, e lasciano gli altri nei pasticci. Caconi voialtri che dite sempre di voler fare la rivoluzione e non la fate mai!

Cacone!

Dall'ultimo capannello a sinistra si staccava un giovine alto, forte, in giacca di velluto oliva chiaro, con cravatta nera giù per la camicia di cotone azzurro, con il cappello floscio dall'ala rotonda, che pipava nella radica che gli sbatteva l'acceso sulla faccia.

Cacone!

Luigione voleva buttarglisi addosso e mangiargli via il naso. Era un pezzo che gli prudevano le mani e che aveva voglia di sfogarsi con uno di codesti arruffapopoli che mettevano sottosopra il cortilone. Lui era che lo aspettava. Solamente domandava il permesso alla compagnia di cavarsi la giacca per sentirsi più libero. Ma gli altri si mettevano di mezzo e dicevano che non c'era nulla di male. Chiunque, discutendo, poteva avere delle opinioni, senza venire alle mani. Se si fossero dovuti ammazzare tutti coloro che la pensavano diversamente, , si sarebbe dovuto lavorare di coltello tutto il giorno. Con un po' di calma si sarebbe veduto che tutti e due erano d'accordo.

— Coi rivoluzionarii, mai!

— Coi caconi, mai!

Con il sole che affondava dietro la brace del cielo a perdita d'occhio, le ringhiere si andavano popolando di fanciulle che uscivano con la cena in mano, di madri con dei bimbi tra le braccia e tra le gambe e di padri che masticavano l'ultimo boccone e calcavano il tabacco nel gessino che annerivano con compiacenza. Le aristocratiche del Casone erano lungo la ringhiera del primo piano del blocco A, a sinistra, in fondo alla quale abitava l'Annunciata. Vi si vedevano dei grembiali candidi, delle sottane insaldate, dei corpettini bianchi e allacciati dalla gala rossa puntata al petto e delle vesti di percallo colorato giù a piombo con tanta grazia. La ringhiera non era mai completa che colla Gigia, la stiratrice dei graduati della caserma di San Francesco. Era una polputa dalle pupille vivaci nella lascivia lattiginosa, con un mucchio di capelli disordinati e chiari sbattuti indietro, che cianciava coi pugni sui fianchi e con una audacia che faceva arrossire più di una compagna. Per lei il dizionario non aveva parole proibite. Quando vedeva la 84 del quarto piano in faccia, che andava via coi passettini della ragazza che ha sempre paura di cadere, diceva che era ammalata come una dell'edificio di via Lanzone. Le sorelle Bigliani, che vestivano della stessa stoffa e dello stesso colore e che l'una non cambiava mai il fazzolettino da naso senza che l'altra lo cambiasse, passavano via inseguite dalle sue frasi a doppio senso che facevano scompisciare dalle risa. Le descriveva parlando all'orecchio e concludeva dicendo che quelle due si volevano bene come marito e moglie. Andavano sempre a spasso assieme, si alzavano alla stessa ora, quello che mangiava l'una mangiava anche l'altra, il desiderio della Proserpina era il desiderio di Elvira e sovente salivano le scale a braccetto. L'Annunciata era il cavallo di battaglia della lingua della stiratrice. La inchiodava alla croce della vergogna con dei sottovoci che facevano il giro delle ringhiere. La diceva malfatta e imbottita, le metteva nel seno della bambagia, le gonfiava i fianchi con la stoppa e giurava che metà dei suoi denti erano falsi. Non capiva come gli uomini potessero essere tanto imbecilli da perdere il tempo con una senza cuore che dimenticava i figli all'ospizio della maternità, come se fossero stati tanti gattini. Anche lei ne aveva avuto uno e non ne faceva mistero. Si sa, chi va al molino s'infarina. Ma almeno lei non si copriva di ipocrisia e lo manteneva a balia colla fatica delle sue braccia. Loro potevano ridere e anche tossire se volevano, ma la verità era una sola.

— Lo mantengo io con la fatica delle mie braccia, care mie.

Se vedeva la 32 del blocco C, si stringeva al gomito delle amiche e susurrava alle orecchie, con la parola sbracata, la scena avvenuta due anni sono al lavatoio, tra quella femmina e l'Annunciata, per un uomo che le aveva divise lasciando in ciascuna un odio mortale. E stringendosi le amiche ai gomiti narrava loro che, alla presenza di tutte le lavatrici, si erano gettate l'una sull'altra coi bramiti della donna ferita nell'amore e con un accanimento feroce. Vi fu un momento in cui tutte le ragazze saltarono in piedi con un grido d'orrore. Si credeva che l'Adalgisa avesse sdocchiata l'Annunciata con un dito. Pareva loro di avere udito il tonfo dell'occhio sbattuto violentemente nell'acqua. Quantunque nessuna avesse simpatia per una donnaccia che si faceva rompere il dorso sui prati dal primo maschio chele faceva l'asino, pure, in quell'attimo, ebbero tutte della compassione. Dopo gli scotimenti per buttarsi a terra, le due rivali si staccarono l'una dall'altra ansanti, con le facce spruzzate di sangue, rimboccandosi un po' più le maniche e ravviandosi i capelli per vedere meglio. Ripresero il combattimento come due lottatrici decise a lasciarvi la vita. L'una abbracciata all'altra in una stretta suprema, si contorcevano e si piegavano con la bocca aperta per addentarsi la carne, fino a quando l'Annunciata, con uno sforzo sovrumano, la levava d'in terra e la scaraventava nel fosso come un sacco di biancheria sporca. Rimasero tutte intontite. L'Annunciata era in piedi trafelata, e l'altra si dibatteva nell'acqua vociando a bocca piena.

— Chi crede che l'abbia salvata?

— Lei!

— Proprio, lei! Intanto che noi restavamo istupidite, la rivale si slacciava le sottane, si immergeva nel fosso, l'agguantava per la vita, la sollevava dall'acqua la riportava al di della pietra del lavatoio senza dire una parola.

— Fu un atto coraggioso e generosodisse una delle compagne.

— Fu un atto superbo, se volete. Ma desso non mi impedirà mai di dire ch'ella è peggio di una cagna che dimentica i figli per la strada e cambia gli uomini una volta la settimana come la camicia.

Alla sera questa maldicente di Gigia si assentava alla sordina per fare due passi e nessuno la vedeva più che all'indomani, quando ella vi compariva a sgarbugliarsi gli occhi sull'uscio per dar a intendere che aveva dormito fino a ora tardi. Ma nessuno credeva alla fintona. Le vicine e le compagne si facevano dei segni con gli occhi, o si scambiavano parole sottovoce, tagliandole i panni addosso e non lasciandola che quasi nuda. La dicevano una lingua di ferro che avrebbe parlato male di sua madre, se la povera donna non fosse morta da tre anni.

— Una voltadiceva Carolinaera più affettuosa e si passava con lei una mezz'ora che era un piacere. Ora è invecchiata. Non vede più che sgualdrine e non c'è monturato che non sia suo. La sua casa è divenuta una caserma di soldati.

E dicendo questo, Carolina, col gomito appoggiato alla ringhiera, chiamava le amiche e, col dito puntato verso il portone d'uscita, additava loro la Gigia che dava il braccio all'Annibale che l'aspettava.

— Il ludro di tutte le donne insaziabili.

Vedete che ora si adatta anche coi borghesi!

La sera era afosa. Il cielo aveva ai margini delle strisce che parevano il principio di un incendio. Dappertutto si gocciolava come in un forno. Le donne si agitavano le vesti per mandare sotto un po' di fresco e gli uomini si sbottonavano e uscivano con la camicia spalancata a protendere la testa dalla ringhiera per sentirsi alitare un po' di aria sulla faccia. Il vecchio tintore, dalle mani piene di crene azzurrate, raccontava al pubblico del quarto piano del blocco A, che questo non era ancora nulla. Con il caldo del '55, l'anno famoso della cometa con la coda di fuoco, i poveri cadevano per le vie come estenuati da una pestilenza e i signori si salvavano in campagna come ai tempi del colera. Ci furono delle giornate in cui si poteva andare a torno nudi senza paura d'incontrare anima viva. La città pareva divenuta un cimitero.

Lo scalpellino, nel '55, c'era anche lui e aveva già vent'anni. Si ricordava di una cometa che fu un vero castigo di Dio, di quella del '58, quando gli strilloni andavano per le porte a vendere le predizioni che spaventavano tutti gli ignoranti che credevano sul serio potesse cadere sulla testa come un'immensa tettoia di carboni accesi. Ma di quella del '55 non sapeva nulla, non ne aveva udito parlare, non credeva che ci fosse mai stata.

C'è stata. Me ne ricordo come se fosse adesso. L'ho veduta con questi occhi, signori!

L'atmosfera in alto diventava di brace. Sembrava che salissero i fiati ardenti dei crocchi giù al buio a raccontarsi l'eterna storia della loro esistenza. Qualcuno si sentiva venir meno, si faceva vento col fazzoletto e diceva che si moriva. Antonio, il figlio della povera vecchia del 65 che andava ancora a lavare i piatti dal farmacista sull'angolo per tre lire al mese, si era appoggiato al muro con gli occhi smarriti e la faccia tanto bianca da spaventare le donne. Giuseppa, che sapeva del suo male, incominciò a palpeggiarlo e a domandargli se stava male.

— Oh Dio, mi pare che svenga! Andate a chiamare la sua mamma, che gli viene la bava alla bocca. — Antonio stralunava gli occhi. — E tu, Giuliana, va in casa, che non sta bene una donna incinta intorno a queste disgrazie.

Il tintore gli teneva le mani per impedirgli di menare pugni alla cieca.

Portate dell'acqua con uno spruzzo d'aceto per bagnargli le tempia. Tenetegli la testa, santa Madonna! che è capace di rompersela sulla muraglia!

Antonio si abbandonava di peso sulle braccia degli altri e poi tentava di svincolarsi con grida lunghe e cavernose, come se stessero sgozzandolo.

Chiamate qualcuno, che diventa furioso, e portate fuori un cuscino da mettergli sotto la testa. Così va bene. Quando un poveraccio ha di questi accidenti sarebbe meglio che il Signore se lo tirasse in cielo. Tenetegli giù le gambe e voi, Peppino, buttatevi attraverso il suo stomaco. Anche suo padre, buon'anima, è morto d'epilessia. La gente che ha di questi disturbi non dovrebbe prendere moglie. Dopo si mettono al mondo degli infelici. Badate che tenta di sollevarsi. Gesummaria, come scricchiola i denti, e che paura mi fanno i suoi occhi imbambolati nel sangue. Eccolo, tenetelo. Dio, come è forte, a momenti mi fracassava la mano!

Antonio si era risollevato con un urlo che faceva rabbrividire, cercando di liberarsi dalle mani che lo tenevano come incatenato e poi si era lasciato andare di peso, prostrato dalla lotta, con un sospirone pieno di gemiti.

La popolazione era aumentata dappertutto. Alcune ringhiere erano affollate. Di fuori, agli imbocchi delle scale, c'erano vivai di ragazzi e gruppi di donne accosciate, col mento sulle ginocchia, e sedute in terra, coi piedi nudi, che si facevano aria col grembiale e si scambiavano le loro idee sull'estrazione del lotto. Una volta, una povera donna che metteva regolarmente i suoi 25 centesimi, era sicura, una settimana o l'altra, di rifarsi con un ambo, a dir poco. La ruota non era nelle mani dei birboni e i bisognosi guadagnavano qualche cosa. Ora, che ci son tante diavolerie, non si capisce più niente, il popolo, bestione, perde. Si continua a giocare gli stessi numeri per dei mesi e si è obbligati a cambiarli dalla disperazione. La Giovanna, la quale aveva scelto i tre numeri al letto del povero Tognazzo, non era così pessimista. I numeri buoni non bisognava mai abbandonarli. 22, 55 e 61, se non eran venuti nelle prime tre settimane, sarebbero venuti fra sei, fra dieci settimane. Ma dovevano venire. Nel suo sogno dell'altra notte aveva riveduto Tognazzo disteso sul Ietto, con la faccia scarna e gli occhi striati. Era un avviso che il povero morto le dava di non dimenticarli.

— Sta tranquillo, povero Tognazzo, che la Giovanna non li dimentica, dovesse impegnare la marmitta appena stagnata della minestra!

La 27 rimaneva attaccata al suo grande principio, che i numeri che non uscivano in tre settimane non valevano la carta sulla quale erano scritti. La 52 e la 38, che si ostinavano da sei mesi a giocare 36, 69 e 82, non avevano più nulla da portare al monte. Non rimaneva più loro che la sottana che avevano indosso. E i loro mariti facevano benone a cacciarle fuori dall'uscio a pedate. Quando tre numeri non vengono, le donne di giudizio cambiano strada e mettono degli altri numeri.

La notte infittiva e la fosca luce delle lampade metteva dei chiarori confusi alle finestre e gettava, qua e , sui gruppi che chiacchieravano rasente i davanzali, chiazze che impallidivano e criminalizzavano le facce, vicini delle quattro ringhiere del blocco ove abitava l'Annunciata, veduti dal cortilone gremito di chiacchieroni, parevano fantasmi che si rincorressero e si perdessero schiacciandosi gli uni negli altri. E i chiacchieroni, veduti dall'alto delle ringhiere, con le loro braccia che uscivano dai raggi della luna per immergersi nell'ombra, con le loro teste che sparivano e ricomparivano, sembravano una moltitudine di paesani in tumulto. Giuliano, il giovine forte, in giacca di velluto, annegato nella velatura chiara della luce lunare, con la bella testa che soprannuotava sulle altre, diventava la figura ascetica di un predicatore di turbe.

Buono come un marzapane, ascoltava volentieri ciò che dicevano gli altri e non andava mai in collera che quando qualcuno sragionava come il Luigione, l'operaio cacone che sparlava dell'operaio. Gli faceva male di sentire a buttar giù una classe che lavorava tanto tanto. Suo nonno e suo padre erano stati operai come lui e come lui perdevano la pazienza se si dava addosso alla gente che lascia nelle fabbriche quasi tutta se stessa. Nessuno è perfetto. E anche i lavoratori hanno molto da imparare. Ma, santo dio! non si doveva dimenticare che loro saltavano via a piè pari il periodo scolastico. Correvano a bottega quando gli altri fanciulli andavano a scuola.

Se non ci fosse di mezzo la miseria, si vedrebbe che anche i lavoratori non sono poi tutte zucche. Suo padre, che era stato presidente della società di mutuo soccorso dei fabbri, gli diceva, strada facendo, che egli era troppo vecchio per vedere certe cose, ma che era sicuro che i suoi figli e i figli dei suoi figli avrebbero veduto una società un po' diversa da quella in cui viveva. Non gli pareva giusto che si dovesse faticare tutto il giorno per stentare la vita come i pitocchi che facevano nulla. I senzacasa gli rimescolavano il sangue. Diceva che era inumano di lasciarli a torno per le strade in quella maniera. Se avevano commesso dei delitti, c'era una buona legge per punirli. Ma se erano innocenti, bisognava aiutarli come si aiutano i naufraghi quando hanno perduto tutto durante il viaggio. Una volta, che il suo amico Stefano si era lasciato uncinare il braccio nelle ruote della macchina, pianse come un ragazzo. Era uno dei migliori lavoranti e un uomo a cui tutti volevano del bene. Gli sanguinava il cuore di vedere un povero padre di famiglia ridotto alla mendicità per un infortunio del lavoro. Si struggeva e si convinceva che qualcuno avrebbe dovuto pensarci. L'operaio doveva stare attento, ma la responsabilità dei disastri non poteva essere tutta sua.

Il grido venuto giù dalla scala C decompose l'assemblea che si deliziava a sentire un giovine che parlava con una semplicità che innamorava. Era il solito Giovanni che si era ubbriacato. Al sabato non andava a dormire se non faceva delle pagliacciate, che chiamavano sulla ringhiera anche gli inquilini che stavano per andare a letto. Non appena metteva piede nella stanza, dava della porca alla moglie e della vaianella alla figlia, due mangiapani che lui era stufo di vedersi in casa. Il giorno che gli era venuto in mente di sposarla, doveva rompersi una gamba tre volte. Il suo dovere l'aveva fatto. La madre aveva 39 anni e la figlia 20, e tutte due potevano andarsene fuori dall'uscio quando volevano. Lui non aveva bisogno di nulla. La minestra sapeva dove mangiarla, e più buona, accidenti!

Se aveva del vino fino alla gola, allora cominciava a sacramentare coi pugni sul tavolo e finiva col trascinarle giù dal letto come stavano, per inseguirle a calci. La madre si lasciava martirizzare sovente senza dire una parola. Era inutile prendersela con un uomo che non sapeva quello che si faceva. Ma Luciana diventava più d'una volta una tigre. Stavolta si gettò indosso la veste e, coi capelli giù per le spalle e lo zoccolo in mano, si mise tra lui e la madre.

Provati a batterla, vigliaccone, se sei buono!

Giovanni, aizzato, le si rovesciò addosso col manone spalancato. Luciana non vide altro. Gli menò una zoccolata sulla fronte che lo fece stramazzare al suolo inaffiato di sangue con l'urlo di un bue che ha ricevuto il primo colpo sulla testa.

— Non ci sto più in questa casa! Casa del demonio, casa d'inferno! — diceva annodandosi al collo il fazzoletto di seta scarlatta. — Andrò al diavolo. Non mi vedrete più, più, più! È ora di finirla con un imbriacone di padre che non ci lascia quiete neanche in letto. Crepa! E tu, madre, guarda bene di dargli una mano. Lascialo a morire come un cane.

I vicini le davano ragione. L'ubbriachezza del padre era divenuta cronica. Sciupava parte della settimana e poi andava disopra a maltrattarle.

L'inquilina di faccia, al loro posto, sarebbe andata alla questura. Un po' di prigione per certi sbevazzoni non fa male. Le amiche accarezzavano Luciana e le dicevano di ritornare a letto, che la gente non avrebbe mancato di sparlare e di dar ragione a chi non ne aveva.

— Facciano! Dicano! — rispondeva lei, accomodandosi il cappello di paglia affollato di fiori. — Sono stufa! Sono stufa!

E batteva i piedi come presa dalle convulsioni.

Andrea, che era stato avvertito all'osteria che il padre della sua morosa era di sopra a fare il prepotente, entrò nella stanza con la faccia spaurita. Era un tocco di vergogna che un uomo di 40 anni tribolasse delle povere donne tutta la settimana. Bisognava farla finita. Voleva aspettare ancora qualche mese per comperare della mobilia a pronti contanti. Ma non importava, avrebbe compiuto anche questo sacrificio per dare un po' di quiete alle donne.

— E tu, Luciana, ricordati che casa nostra sarà casa della mamma. Per un boccone di pane e un cucchiaio di minestra, non andremo in malora, non andremo.

Luciana piangeva appesa al collo di Andrea e l'inquilina di faccia lavava con una pezzuola inzuppata la fronte dell'ubbriaco, perché a questo mondo bisognava essere cristiani anche coi cattivi. Sono dei dolori di testa questi uomini. Già, un po', la colpa è anche degli osti. Se non dessero loro da bere quando hanno gli occhi rossi, non ci sarebbero di queste disgrazie.

Dabbasso il cortile e il cortilone si erano spopolati. Non c'erano più che poche persone sparse che tiravano dalle pipe le ultime boccate di fumo, e, qua e , delle coppie addossate ai muri o agli usci chiusi che si baciavano e si tenevano la mano in mano. Virginia, la figlia di Giovanna, la 32, era al suo posto di tutte le sere nell'inquadratura esterna del lavorerio di Luraschi, il fabbricatore di casse da morto, con la bocca sulla bocca di Angelino, il figlio della Pina, la moglie del calzolaio manaccione, che se la palpeggiava con dei gridi di monello viziato. Qualcheduno chiudeva gli occhi per non vedere queste porcherie di ragazzi che avevano ancora la camicia sporca e si tiravano l'uno su l'altra come matrimoniati. Peppina, la locandaia, quando usciva a votare il baslotto dell'acqua dei piatti non poteva trattenersi dal dire la sua. Se quella sfacciatona di Virgina fosse stata sua figlia, l'avrebbe presa a sculacciate. Ai suoi tempi si cresceva prima, e non si dava scandalo a nessuno. Si vedevano in chiesa, alla domenica, e poi si sposavano col consenso dei genitori. Adesso questi orrori del vicinato producono delle famiglie che tirano su dei piccini che fanno schifo. E si chiudeva dietro l'uscio, borbottando tra i denti che, quando c'era un po' di timor di Dio, certe cose non si vedevano.

Peppina, nata nel Casone, aveva 67 anni. Tutt'assieme era una donna che si vedeva e si portava via nella mente come un ritratto indimenticabile. Era alta, ischeletrita, con una faccia dall'ossatura pronunciata e un mento così lungo che ricordava il cavallo. I rari capelli grigi, bipartiti per le pareti craniche, le spandevano per la testa un po' della beghina e gli occhi neri, che non avevano perduto nulla della vivezza antica, davano a tutta quella carcassa dei bagliori di vita. Suo padre era un affittaletti, morto dopo la cacciata dei tedeschi. Peppina, a furia di risparmi e di buona amministrazione, era riuscita a compiere il sogno del genitore, che era di allargarsi nelle sei stanze del pollivendolo che gli appuzzava l'abitazione. I tredici letti diventarono trentasette. Per degli anni non ne ebbe mai uno vuoto. I suoi avventori stavano bene e potevano considerarsi in casa propria. Se un giorno si trovavano a corto di quattrini la locanda della Peppina non chiudeva loro l'uscio in faccia. Si sa, gli affari non vanno sempre come dovrebbero andare. Senza domandare loro se avevano fame, metteva sul tavolo una scodella nera, colma di minestra, col cucchiaio di latta attraverso e diceva di mangiare senza cerimonie. Fu il suo cuore che la fece venire meno al proponimento di rimanere zitella. Tra i suoi ospiti del '65 era un poveraccio di precettato che di tanto in tanto veniva ripreso dalle leggi, senz'altra colpa che quella di essere un disgraziato addosso al quale poteva pisciare ogni malcreato. Lo aveva veduto dimagrire senza mai domandare una minestra a credito e correre delle giornate intiere in cerca di un lavoro che non trovava mai. Nei cenci del pitocco, con la barba incolta e i capelli lunghi, pareva un diavolo capace di svaligiare le persone che incontrava di notte. Ma lavato, sbarbato, nutrito regolarmente, con indosso una camicia di bucato e degli abiti all'onor del mondo, veniva fuori un giovane di trent'anni da far gola ad una donna più giovine di Peppina. Le informazioni che le aveva dato il delegato, al quale aveva comunicata la sua idea di sposarlo, erano di quelle che possono lasciare indifferente una persona di giudizio e commuovere una innamorata. Si riassumevano in una lunga lista di arresti e di condanne senza che ci fosse mai un delitto. Il primo momento fu perché era senza domicilio e non aveva mezzi di sussistenza, il secondo perché venne trovato attorno senza lavoro, il terzo per vagabondaggio e il quarto perché colto di notte in un atteggiamento sospetto. Dopo la prima condanna si è continuato a considerarlo pericoloso e a ricondannarlo come vagabondo recidivo fino al giorno in cui il magistrato si credette in dovere di metterlo sotto la sorveglianza speciale della pubblica sicurezza. Una volta precettato, la riabilitazione, diceva Peppina, che ne aveva veduti tanti, diventava un paradiso senza entrata. Nessuna casa pulita, che non fosse stata una locanda come la sua, dava il letto a un precettato che poteva venire visitato dalla squadra volante due o tre volte per notte.

Questo povero precettato di Andrea Cardellini, di temperamento dolce, si era affezionato a Peppina in un modo da ingraziarsi anche i vicini che lo guardavano di malocchio per quei suoi giorni di miseria fino al collo. Passavano via e gli auguravano la buona sera o il buon giorno, magari con l'aggiunta dello «state bene, Andrea». L'azienda, a poco a poco, se l'era fatta sua, spiegando un'attività che faceva meravigliare la stessa Peppina, che ne andava orgogliosa come del proprio capolavoro. I vetri della casa, da che si era messo a pulirli, scintillavano come cristalli e il rame della cucina ricordava la vigilia di Natale, quando le donne preparano tutto che pare uno specchio. Le stanze avevano i catini di stagno che luccicavano e i pitali, sotto il letto, non avevano più il fondo incrostato di sedimento come una volta. Tanto più lavorava, quanto più gli sembrava di mondarsi di un passato che lo faceva arrossire. Verso sera, mezzo morto dalla stanchezza, dava un bacione alla moglie, prendeva una scranna liscata e andava col virginia in bocca a sedere tra l'entrata ed il cortile, dove godeva a correre dietro al sogno di diventar padre. Egli era stato troppo sventurato negli anni più belli della vita per rinunciare alla consolazione di sentirsi una mano figliale sulla guancia nelle giornate della vecchiaia. Un bimbo avrebbe ribadito e santificato la loro unione.

Ma Cardellini era proprio nato sotto una cattiva stella. Una sera in cui egli stava lavando alla sainera i bicchieri raccolti sui tavoli, due tristi, che mangiavano un piattone di frittura, si misero a dargli del lasagnone e a dirgli che non doveva far tanto il superbioso perché lo conoscevano bene.

— Quei fiori che hai sul braccio te li sei fatti nel camerotto con noi, te ne ricordi?

La moglie, che gli era vicina a far su delle somme, diede una strappata alla giacca di Andrea per impedirgli di rispondere. In una locanda c'era d'aspettarsi di tutto. Erano dei mascalzoni ubbriachi coi quali bisognava portare pazienza. Andrea si mangiava le labbra senza smettere di lavar bicchieri. Ma le parole dei malviventi gli avevano fatto l'effetto di una cinghiata attraverso la faccia. Se non ci fosse stata la Peppina, avrebbe dato loro una lezione da ricordarsene per un pezzo. I fiori tatuati sul braccio, ch'egli non lasciava mai scoperti se non quando doveva voltarsi su le maniche per immergere le braccia nell'acqua, gli davano già abbastanza fastidio senza ricordarglieli.

Precettato!

Peppina si alzò in piedi e con un gesto additò loro la porta. Era una vera porcheria d'insultare un uomo che attendeva ai fatti suoi. Se non se ne andavano con le buone, sarebbe andata a chiamare la questura, che era fuori a due passi.

— Per lasciarvi sola col vostro mantenuto! Venga qui lui a mandarci via!

Andrea si sentiva il sangue alla testa. Erano loro che provocavano e che andavano proprio a prenderlo per i capelli.

Armato di un randello che teneva dietro il banco per precauzione, andò loro a intimare l'uscita.

Uscite tutti o vi faccio uscir io a randellate!

Il più giovine degli accattabrighe prese il bicchiere, buttò il vino in faccia a Andrea e con la prestezza del gatto saltò sul tavolo e gli si precipitò alla gola con dei «precettato! precettato! precettato!».

Andrea se lo gettò d'addosso con una violenza da rompergli le ossa. Poi, all'altro che si era curvato per avventarglisi allo stomaco con qualcosa di puntuto, menò una randellata che gli poteva spaccare il braccio in due. Intanto Peppina era nel cortilone che gridava:

Soccorso! Aiuto! Ammazzano mio marito!

La lotta fra i tre si era impegnata in un modo bestiale. Colui, che gli era saltato sul collo, gli era di nuovo con le mani alla camicia per strangolarlo e con la bocca che faceva di tutto per mangiargli via l'orecchio o strapparglielo. Il secondo, bassotto, con una grinta che metteva freddo, snodato come un saltimbanco, gli aveva fatto cadere il bastone con un pugno alla nuca che pareva di piombo.

La voce di Peppina aveva radunato quattro o cinque vicini che stavano di fuori all'uscio a dire loro di smetterla di massacrarsi in quel modo. Andrea, bianco come un cadavere, con la testa che faceva sangue da tutte le parti, stordito dai colpi che lo malconciavano, con uno sforzo supremo afferrò il coltellaccio sul tavolo, e, come uomo che non sa più quello che si faccia, si divincolò da coloro che stavano per finirlo.

Peppina, ricompariva trafelata coi questurini, proprio nel momento in cui gli altri due erano in terra e Andrea, inorridito, si guardava le mani imbrattate di sangue con uno scoppio di pianto.

 




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