Il cielo si era abbuiato e i nuvoloni per la volta
andavano addensandosi dove le stelle erano più luminose. L'aria si era
rinfrescata e i blocchi del Casone sommersi nell'ombra intetravano il silenzio
del Terraggio.
Dal marciapiede lontano del corso Magenta si sentivano le strimpellature
gaudiose della chitarra di Gaetanino che veniva a casa con Alfredo, il
violinista, e con lo Strambo, il quale completava la compagnia dei tre
suonatori ambulanti con la pizzicatura della mandola che straziava il cuore
delle ragazze. Quando arrivavano loro nei cortili dei quartieri popolari, era
una festa. I primi tocchi di violino passavano di uscio in uscio come armonie
che sospendevano i lavori e chiamavano fuori la folla in sottana che discendeva
dalle alture al primo piano o al pianterreno a intenerirsi delle canzoni che
andavano per l'aria accompagnate dagli strumenti dei tre soci con garbo
squisito. Il canto e la musica trascinavano la moltitudine a partecipare con le
ondulazioni del corpo e con il sussurro alle espressioni appassionate e ai
ritornelli commoventi. Le fanciulle, appoggiate le une alle altre, si perdevano
dietro la mandola, dalla quale lo Strambo, come piegato su se stesso, faceva
uscire il codazzo de' patimenti femminili. Parevano ondate di lamenti, gemiti
di amori traditi, lacrime di giovani dimenticate, irruzioni di dolori sentiti,
ambasce che si disfacevano come aliti supremi di amanti sfortunati.
Lo Strambo, con il viso paffutello, con gli occhi cilestri e i
capelli biondo chiari ondeggiati, ritornava al suo posto col cappello sempre
pieno di rame. Gli volevano tutte del bene e dicevano in coro che era proprio
un peccato che un artista come lui non avesse le gambe come gli altri.
Nelle settimane in cui avevano fatto il giro degli edifici popolari,
esulavano per i grandi cascinali milanesi, ove venivano accolti come membri
della famiglia ritornati da un viaggio.
Le paesane, con il seno del busto colorato e le maniche della camicia
orlate di azzurro che lambivano loro il gomito, uscivano dalle stalle con le
larghe scodelle di latte appena munto, mentre le «reggiore» offrivano agli
ospiti una tafferia di pane giallo fresco di tre giorni. Gaetanino, il più
vecchio dei soci, pur avendo un occhio di vetro e un nasone bitorzoluto sulle
labbra senza baffi, si faceva amare per quella sua comicità inesauribile che
metteva del burlesco anche nelle narrazioni lacrimevoli. Più di una volta tutto
il cascinale si teneva la pancia in mano e gridava: «Basta! O ci farete
morire!» Alla sera nella stalla più vasta della bergamina, le famiglie si
pigiavano sedendo sulle calcagna, in terra, rasente le muraglie viscide e
acquose, ai piedi del bestiame, tra vacca e vacca, come nelle serate memorabili
in cui sono radunati a sentire la lettera di qualche Giacomino a soldato. La
minutaglia, che non era nel grembiale delle donne, si acconciava nello strame
delle mangiatoie, e le donne piene di spadine si accosciavano sulle gambe, dove
la paglia distesa come strame era più soffice. Gaetanino, al centro coi suoi
compagni, con dei modacci e delle facce che facevano torcere dalle risa,
raccontava loro panzane condite di lepidezze che tramutavano la stalla in un
teatrino dialettale. Il suo naso soffiava come una tromba e la sua bocca sapeva
imitare la voce bestiale di tutte le bestie. Muggiva e levava un coro di
muggiti. Gli rispondevano tutte le vacche e tutti i buoi. Poi, con la mandola
ricomponeva l'assemblea che ascoltava i notturni popolari a bocca aperta,
dondolando la testa di tanto in tanto come per dire: pare impossibile!
Terminata la rappresentazione, i tre soci salivano in cascina a nascondersi nel
fieno caldo fino all'alba.
Denari ne facevano a cappellate. Tranne le stagioni perverse e le
giornatacce, non rincasavano mai senza una ventina di lire in saccoccia. Non
appena a casa, appendevano i loro strumenti nella stanza comune che occupavano
da sei anni, e correvano all'osteria dabbasso, col cartoccio di salame che
avevano comperato lungo la strada.
La loro società era primitiva. L'uno si fidava dell'altro e ciascheduno
aveva diritto di mettere la mano nella borsa comune senza neppure dire:
guardate che prendo. Mettendosi assieme, si erano detti: «Nessuno di noi ha
denaro. Nessuno di noi ha grattacapi di famiglia. Ciascuno di noi sa suonare un
istrumento. Ci mettiamo in società per essere l'uno dell'altro e per soddisfare
ai nostri bisogni sociali». In sei anni non avevano fatta una parola che avesse
potuto turbare la loro unione. All'osteria nessuno si guardava nell'occhio. Chi
aveva sete beveva anche se gli altri ne erano sazii. Gaetanino, per esempio,
aveva un debole per lo stufato a pancia piena. Finita la cena, che veniva
regolarmente inaffiata di tre o quattro litri di barberone, domandava a
Gianmaria se aveva ancora di quella miscela nella casseruola. Lo Strambo, che
alla sera diventava silenzioso, non fumava mai meno di tre virginia e qualche
volta gli prendeva il ticchio di offrire un bicchiere di quel buono agli amici
che entravano. Gli andava a genio di far sapere alla gente la loro indipendenza
e il loro benessere. Alfredo, trascinato al sentimentalismo dal violino,
rimaneva lì spesso, con gli occhi incantati dietro la nuvolaglia che faceva la
sua eterna sigaretta. Più giovine degli altri, si vestiva con un certo scicche.
La caratteristica era che tra loro non c'erano donne. Di sottane non
volevano saperne. Dove ci sono, dicevano, mettono la zizzania e si finisce per
prendersi a coltellate. Tutto il Terraggio ne era un esempio. Non vi si trovava
una famiglia che non finisse la giornata con uno sfogo manesco e
un'espettorazione di parole maialesche. Gaetanino si sarebbe lasciato morire in
letto piuttosto che domandare l'aiuto di una femmina. Anche quando era
tormentato dalla sciatica sul materasso che nessuno voltava mai, rifiutò
l'entrata alla vecchierella vicina che voleva domandargli se gli occorreva
qualche cosa.
— Andate all'inferno! — le rispose.
Il vicinato scioglieva il problema che univa i tre suonatori ambulanti
con delle turpitudini. Di orecchio in orecchio si riempiva il Casone di dicerie
che sbalordivano e disgustavano.
— Ecco il perché odiano l'altro sesso!
— Odiano le donne perché si amano tra loro. Sono degli uomini schifosi
che il padrone di casa dovrebbe cacciar via a pedate. Non s'era mai visto uno
scandalo di tre uomini che dormivano nella stessa stanza da parecchi anni,
senza mai farsi vedere con una donna.
— Sporcaccioni!
La donna invece aveva incominciato il suo lavoro di decomposizione.
Alfredo da un po' di tempo non aveva più la bonarietà e la condiscendenza che
lo rendevano così caro agli amici. Scattava per dei nonnulla e aveva dei
momenti di tristezza cupa. Lavorava con loro, mettendo anzi un po' più di
mestizia nelle sue canzoni, ma evitava il loro contatto più che poteva. Uscendo
da un portone per passare in un altro, preferiva andare sul marciapiede dalla
parte opposta. Se sostavano a bere la staffa in una delle tante osterie
suburbane, lui tirava innanzi con la testa sulle scarpe o si fermava a guardare
attorno come un'oca. Gaetanino e lo Strambo, che lo amavano come artista e che
gli volevano del bene fraterno, se l'avevano a male di vederlo imbronciato
dalla mattina alla sera. Gaetanino si studiava di cavargli il segreto per
consolarlo. Ma Alfredo si stizziva non appena gli si parlava del suo malumore.
Non si poteva essere sempre allegri. Gaetanino non desisteva. Lo palpeggiava
per le spalle, o gli passava la mano al dorso, e riusciva a sbronciarlo.
— Così va bene!
Se lo stringeva al fianco con la mano in mano e chiamava lo Strambo per
dirgli che stasera bisognava festeggiare l'avvenimento con un pranzetto che
avrebbe ordinato lui al Gianmaria.
— Voglio che mangiamo il risotto coi funghi, stasera!
Alfredo si sforzava e rideva delle loro risate senza divenire allegro.
Strambo intuiva che il suo male era un male inguaribile. L'aveva sentito più di
una volta alzarsi e andare sulla ringhiera nelle ore in cui i galantuomini
dormono e l'aveva sorpreso a piangere una mattina in cui lui e Gaetanino erano
andati a sgarbugliarsi gli occhi col grappino. Che cosa è che poteva
martoriarlo se non una donna? Non sono che le donne che rovinano gli uomini. Te
li prendono, te li gualciscono e te li buttano via come dei limoni spremuti.
Lui era vecchio e queste cose le sapeva.
E chi sa che donna! Forse era una donna che non valeva due centesimi.
Una donna che poteva abbracciare l'ultimo degli sfaccendati o l'ultimo dei
paltonieri! Le donne, puah!
Era così. Dopo il pranzo ridiveniva pensoso, e di notte, alla
chetichella, mentre gli altri russavano, apriva l'uscio e non rientrava che coi
bagliori dell'aurora. Appoggiato col dorso alla ringhiera, cogli occhi
sull'uscio dell'Annunciata, passava dai pensieri passionali che gliela facevano
vedere supina, con la esuberanza del seno leggermente agitato dalla
respirazione, alla gelosia che gli increspava il sangue e lo metteva davanti al
corpo della donna nuda con le braccia avviticchiate a un uomo che le suggeva i
baci. Nell'attimo passionale, se la cingeva alla persona e nel delirio
dell'abbraccio sensuale si deliziava a sentirsi tra le mani la morbidezza della
sua pelle di raso. Nella tempesta, impallidiva con le labbra tremanti e si
disfaceva il sogno con dei trasporti tragici che gli davano l'oppressione lunga
di un delitto compiuto. Più di una volta egli era stato lì lì per sfondare la
porta con una spallata per convincersi se lo scricchiolìo del letto non era che
nella sua testa incendiata. Era stufo di penare. Voleva vedere, sapere, finirla
col dubbio che lo divorava con degli spasimi dolorosi.
A momenti si gettava carponi coll'orecchio sulla fessura, trepidante di
sorprenderla nella colluttazione carnale. Perché Annunciata doveva essere sua,
tutta sua, di nessun altro che sua. Una notte, mentre origliava col cuore che
gli palpitava febbrilmente, gli giunse l'eco di un bacio che gli fece trasudare
la fronte come in un bagno russo. Era caduto in ginocchio, col cuore trapassato
da uno spillo e si era alzato sfinito. In piedi, si palpava la fronte e si
teneva alla ringhiera cercando dell'aria fresca che gli potesse ridonare la
tranquillità dei sensi. Sovente si diceva che il suo era un brutto sogno. Che
aveva lui di comune con l'Annunciata? L'Annunciata era libera, padrona di sé.
Non gli aveva mai dato altro permesso che di salutarla come vicina. Tuttavia
Alfredo non sapeva darsi pace.
L'ultima notte era d'inverno. Fioccava da due giorni senza interruzione.
La struttura dei blocchi del Casone era naufragata sotto un enorme peso di
neve. I solchi delle pedate venivano riempiti prima che l'inquilino
raggiungesse la scala. Alfredo rincasava tardi. Era stato a stordirsi in
parecchie osterie dove aveva degli amici. Fumava, senza sentire che l'aria
gelata gli portava via le orecchie e gli intirizziva il naso. Andava via lemme
lemme, con le mani nelle saccocce del soprabito, senza accorgersi che le faide
gli si calcavano l'una sull'altra e lo seppellivano. Ai piedi del gradino si
scosse il materiale bianco di dosso, percuotendo il pilastro più volte col
cappello e risvegliando il vecchio Siliprandi che si era scelto per domicilio
lo spazio a fianco della scala dal giorno in cui Ghiringhelli gli aveva fatto
portare dabbasso le ultime masserizie della sua miseria.
— Su, andate alla locanda se non volete gelare.
Siliprandi, con delle frasi incoerenti, si raggomitolava sempre più
sotto il marsinone stracciato e si rimetteva a russare. Alfredo, che lo aveva
veduto scendere lentamente negli squallori della vecchiaia che va di porta in
porta a mendicare un boccone di pane, lo riprese per il braccio e con uno
sforzo lo tirò su di peso, trattenendolo con degli scotimenti che lo
richiamavano alla realtà della nottata.
— Su, presto, andate in un letto di Peppina —. Egli diede una manata di
soldi.
— Buonasera.
— Buonasera.
Salì il piano, passò sulla ringhiera affondando nella candidezza fino al
ginocchio, senza voltarsi verso l'uscio che racchiudeva la donna che aveva
finito per fargli paura. Non voleva più pensarci. Era stato un quarto d'ora in
cui aveva perduto la testa dietro una felicità impossibile. Ora era guarito.
Aveva giurato a se stesso di passarle d'accanto come si passa d'accanto alle
sconosciute. Era una donna che non valeva i danari degli abiti. Fingeva di
essere di nessuno ed era un vaso comune. Faceva la frignona e lasciava che sul
suo corpo passasse il quartiere. Pasquale, il padrone di casa, le aveva
frustato il letto e Giorgio, più brutto del padre, affondava nell'impronta del
genitore. Era una specie di incesto che gli rivoltava l'animo. Si sarebbe dato
dei pugni per punirsi di essere stato con le mani nei capelli e sul punto di
rovesciarsi giù dalla ringhiera come uno sciocco che impazzisce d'amore. Felice
notte! Domani l'avrebbe fatta crepare d'invidia. Le sarebbe passato sotto il
naso, a braccio dell'Adalgisa, la figlia dell'ortolana, bella, forse più bella
di Annunciata. Adalgisa era ritornata dalla campagna più donna, affusolata in
una lunga veste di foulard, stretta in vita, fasciata da una larga striscia
scarlatta con galone alla schiena, con dei modi da grande signora. Salutava i
vicini cogli inchini, andava a spasso calzandosi dei guanti a quattro bottoni e
dava dei buffetti ai bimbi nelle braccia delle amiche che era un amore.
A letto Alfredo si voltava e si rivoltava sempre più contento della sua
risoluzione. Almeno poteva addormentarsi col cuore tranquillo. Aveva passato
delle notti da far pietà ai sassi. Pazienza, era finita e non se ne doveva
parlar altro. Ma non dormiva. Pareva sdraiato sulle bucce delle castagne. Le
ore che andavano per la neve gli risonavano nella testa come rintocchi
d'agonia. Il miagolamento dei gatti per i tetti gli andava per le orecchie come
una confusione di voci umane che lo terrorizzavano. Si tirava la coltre sui
capelli e vi si rannicchiava sotto cogli occhi chiusi per addormentarsi subito.
L'Annunciata, sbattuta via a calci, riprendeva il suo posto appesa al suo
collo, pelle contro pelle, con la bocca sulla bocca, a suggergli dolcemente
l'anima. Allora si brutalizzava da sé, stiracchiandosi e rivolgendosi boccone,
come per ritrovare il coraggio di levarsela dal letto. Inutile! La perfida gli
si riadagiava lungo il corpo, carne contro carne, con la mano che gli remigava
per lo stomaco e l'alito che gli andava per la guancia come una
fiammata.
Il letto era diventato di brace. Dovette alzarsi. Di fuori la neve
veniva giù a precipizio. Tutto era scomparso. Non esistevano più che
giganteschi blocchi bianchi, con la base sommersa nella superficie bianca.
Alfredo, istupidito dall'insonnia, si era rimesso alla stessa ringhiera come un
sonnambulo, contro lo stesso uscio, incurante delle falde che il vento gli
sbatteva sulla faccia come tanti schiaffi. Coi piedi nel soffice gelato e gli
occhi sull'uscio ovattato, si lasciava urtare dall'idea fissa d'impadronirsi
d'Annunciata come i banditi si impadroniscono della donna sullo
stradone. Essa gli sfuggiva ed egli se la prendeva tra le braccia e se la
faceva sua con la violenza e coi baci. Poi, impaurito della sua audacia, si volgeva
dall'altra parte e si inteneriva coi gomiti appoggiati alla ringhiera,
lasciandosi seppellire dalla neve che infittiva e s'azzuffava. A volte gli
sembrava una vigliaccheria la sua di sfondare un uscio e gettarsi su una donna
nuda, addormentata, senza difesa. E a volte le sue esitazioni lo esasperavano
fino alla collera. Ciò che stava facendo era semplicemente umano. L'amava,
l'amava, l'amava! Il sangue gli andava al cervello come un'eruzione di fuoco.
Non sentiva più che il bisogno di finirla con questa donna che lo inseguiva
dovunque come una persecuzione.
Agitato, coi pensieri che sovraneggiavano i tremiti, con la schiena
addossata all'uscio e coi piedi puntati alla ringhiera, si diceva che il suo
strazio era durato anche troppo. E nell'incoscienza della sua forza sentiva il
catenaccio della serratura che si piegava lentamente e l'uscio che si apriva
senza fracasso. Si trovò nella prima stanza inondata di luce bianca, sotto un affollamento
di biancheria giù penzolone, come un ladro che ha paura di essere sorpreso.
Ella era là che dormiva. Gli pareva di sentirne la respirazione. Avrebbe voluto
irrompere come una furia per stordirsi e darsi del coraggio. Passate in punta
di piedi le cortine che dividevano le due stanze, si trovò nell'oscurità negra
come l'inchiostrò. Con le mani febbricitanti che palpeggiavano le coltri, uscì
dagli ardori che Io bruciavano con il balbettamento della febbre fredda. Il
letto era vuoto, le lenzuola erano di ghiaccio, la donna era a gozzovigliare in
un altro letto.
— Bagascia!
Adalgisa era tornata dalla campagna sul Terraggio più brunastra, con gli
occhi che lampeggiavano e la boccuccia che si apriva ammantata di rosso acceso.
Nei mesi d'assenza aveva imparato il cocottismo di lasciar crescere l'unghia
bianca al mignolo che teneva lontano dalle dita, come per lasciar ammirare i
solitarii nelle occhiaie del serpentino verde-scuro, striato di puntini d'oro,
che si mordeva con bizza la coda intorno al dito. Nessuno sapeva indovinare
questa sua pazzia di avere gettato il lusso dalla finestra per il cortilone dei
poveri. Quando qualcuno glielo domandava, il suo nasino subiva quella leggera
palpitazione che piace tanto agli uomini. Che cosa doveva rispondere? Si era
annoiata, ecco tutto. Abituata a levarsi con l'aurora, non sapeva poltrire nel
letto con Edoardo fino alle dieci e magari fino all'ora della colazione che
voltandosi e rivoltandosi con sbadigli sghangherati. Le sere che passava con la
scicconeria, le costavano della giovinezza. Diveniva inquieta e si trovava
impacciata a muoversi, a parlare, a ridere. Più di una volta, distratta, si stiracchiava
le braccia come una villana o si toglieva con le dita i filamenti di carne che
le erano rimasti tra i denti, in mezzo alle occhiate d'orrore delle
amiche e degli amici di Edoardo. Se prendeva parte alla conversazione, vedeva
delle smorfie e si sentiva premere il piedino come per frenarla di dire
sciocchezze. A spasso, la seccava. Le diceva e le ridiceva a ogni momento che
una signorina per bene non guarda mai indietro. Le correggeva il linguaggio a
tutte le ore e in qualunque luogo e dava della bestia al maestro che stava
lottando per farle entrare nella testolina qualche frase italiana. Guai se le
scappava una parola del Casone! Era capace di tenerle il muso fino a pranzo e
di punirla andando a dormire nell'altra stanza. Dinanzi le chiese, Adalgisa non
sapeva trattenersi dal fare il cenno con la testa e dal piegarsi uno zinzino
sulle ginocchia. Era una specie di riverenza che ella faceva da quando era
nata. Ma Edoardo la maltrattava e la chiamava una pinzochera o una
santocchiona, come se fosse stato un delitto avere un po' di religione! La vita
agiata le era diventata, a poco a poco, un supplizio. Se invitava qualcuno a
pranzo, lui continuava a raccomandarle di non bere quando aveva il boccone in
bocca, di non far sentire il romorio delle mascelle come i ruminanti e di non
prendere i pezzi di pollo con le mani. Andava a tavola confusa, svogliata,
incapace di dire due parole. Se rovesciava il bicchiere che faceva ridere la
tavolata, metteva di malumore il suo uomo, il quale, dopo, pestando i piedi, le
dava dell'ineducata e della senza cervello.
Adalgisa si irritava e gli rispondeva che neanche le altre erano più
educate di lei.
— Sissignore, sissignore, sissignore! Vedeva bene quando andavano a
prendere l'assenzio nell'offelleria in Galleria Vittorio Emanuele. Ieri la Marta metteva nelle tasche degli amici dei pasticci che insudiciavano e si rideva. Tutti i
giorni la Clemente beveva nei bicchierini degli uomini senza essere invitata.
Le si rispondeva che era dello scicche! Ciascuna civettava alla presenza degli
amanti e nessuno si lamentava. Era dell'altro scicche! La Gilda, la grassona che perdeva carne dappertutto, la grassona che si vantava d'essere fatta
per la gente coronata, era una sboccacciona che faceva vomito. Sissignore, era
dell'altro scicche!
— Ho veduto la Bice lasciarsi baciare da Ottavio sulla bocca senza che
il suo amico desse fuori. Sai perché tu sei così permaloso e sofistico?
Guardati nello specchio. I tuoi capelli cominciano a ingrigiare. Io ho
diciott'anni, io!
E se ne andava in cucina battendosi la chiappa come un'affermazione del
suo sdegno. Neanche in cucina la si lasciava tranquilla. Se la si vedeva con la
mano sulla spalla della donna di servizio che ella stava consultando su qualche
piatto, si gridava subito:
— Giù la mano, che non sta bene a prendersi certe confidenze con la
donna di casa!
Edoardo viveva di queste minuzie. Cresciuto in un ambiente superiore,
non sapeva adattarsi alle usanze di una ragazza che aveva tutte le volgarità
della sua classe. Portata via giovine dal Terraggio, egli credeva di riuscire a
farne fuori un'amante docile, devota, capace di sentire con la gratitudine
dell'affezione vera.
— Ma tu non hai pensato — gli diceva il suo intimo amico Alfonso
Beltramelli — che in Adalgisa è il fondaccio plebeo di parecchie generazioni.
Non si cambia per avere cambiato d'ambiente. Le trasformazioni, mio caro, sono
così lente che sovente non sono avvertite da una generazione all'altra.
Malgrado le condizioni e le abitudini, c'erano momenti in cui Edoardo
credeva di volerle un gran bene. Se ne accorgeva non appena ella era assente. I
minuti gli sembravano ore. Girava per le stanze, guardava l'orologio e diceva
di tanto in tanto alla donna di andare all'uscio che avevano sonato. Si
ricordava delle ultime scenate e tremava. Ogni indugio gli diventava uno
spasimo. Si dava della bestia, del senza cuore, del brontolone. Era una crudeltà
tormentare una povera ragazza in quel modo. Non era poi mica una di quelle, non
era. Anche lui, al suo posto, se ne sarebbe andato. E per dimenticare di essere
lì sugli aghi, correva dal pasticciere a comperare delle brioches calde che le
piacevano assai col vermutte chinato, e dei marrons glacés con altri pasticcini
che la facevano sorridere al dessert. Rientrava coi pacchetti confuso, sbattuto,
umiliato, facendo dei proponimenti di essere buono, tollerante e di non
sgridarla più mai.
— È venuta la signora? — domandava alla cameriera.
Se non era venuta, interrogava, si suggestionava, si disperava.
— Credete che le sia venuto qualche cosa?
— Stamane, quand'è uscita, stava benissimo.
Inquieto,
assisteva la cameriera a mettere tavola.
— Mancano i bicchieri per lo Chablis, Laura.
— Non lo aveva mica detto, signore.
— Me ne ero scordato. Metteteli.
I ritardi di un'ora lo terrorizzavano. Gli suscitavano rimorsi sopra
rimorsi. Si rimproverava le parole acerbe e le villanie che un gentiluomo non
dice mai a una signorina. Perché contraddirle di portare il cappellino in un
modo piuttosto che nell'altro, se lei era abituata a piantarselo sui capelli
alla birichina?
— Pensa che hai vent'anni più di lei e che alla sua età tu eri uno
scapestrato che ne faceva di quelle che stordivano coloro che ti conoscevano.
La gioventù non si consuma che tra le intemperanze, le follie, le disubbidienze
e le testardaggini. Diversamente, o brontolone, si chiamerebbe vecchiaia!
Entrava, la baciava con gioia senza premerla per paura di gualcirle
l'abito, le stava d'intorno con una interrogazione dopo l'altra e le diceva le
ansie che provava quando non le era vicino.
— Domani, se sei buona, ti voglio regalare un braccialetto di perle che
ho veduto stamane nella bacheca del Baj. Lo voglio, lo voglio!
— Edoardo, non sciupare denari. Tu sai che io ti voglio bene anche senza
gingilli.
— Non far la cattiva! È detto. Io voglio che il tuo braccio abbia delle
perle opaline. È un piacere per me il vederti elegante.
Prima di arrivare al caffè egli ricominciava il suo sistema educativo,
ch'era di riprenderla e impedirle di incrociare le posate, di rimettere gli
stuzzicadenti nel sandalino di porcellana dopo essersene servita, di mangiare
senza il tovagliolo puntato sotto la gola e di far bere il vino di bottiglia
alla cameriera alla loro presenza.
L'ultima sera si erano avvicinate le sedie. Le finestre erano
spalancate. Faceva caldo. Seduti l'uno vicino all'altra, si confondevano il
cognac in bocca. Entrambi, inghiottiti dal benessere, si accarezzavano e si
premevano dolcemente le labbra sulle labbra.
— M'ami?
— T'amo!
Edoardo le cingeva il vitino con una sfuriata di baci che lo eccitavano
a premersela su se stesso. Il tepore lo inebriava. Le scioglieva i capelli
morbidi come la seta con le mani trepide e si diffondeva le trecce come una
delicatura sulla pelle. Adalgisa, coi sensi infiammati, lasciava fare. Snudate
le spalle che sotto la luce assumevano la granulazione morbida del marmo
lavorato, le si gettava sopra con la bocca, stringendosela violentemente tra le
braccia.
— Basta! — diceva Adalgisa.
Scossa brutalmente, gli vedeva la faccia imbruttita dalla passione e si
sentiva elevata come da una molla che la districava dai lacci. E senz'altro si
volgeva allo specchio, si ravviava i capelli e si riabbottonava coi pudori
della vergine oltraggiata.
Lui impazziva. Si alzava, le correva dietro, la prendeva per il braccio
e tentava con la mollezza della vo ce di trascinarsela sulla sedia negli
abbandoni di prima.
— No, no e no!
Allora veniva ripreso dal malessere. Si sentiva infelice. Era una donna
insensibile. Andava alla finestra, accendeva la sigaretta e enumerava
mentalmente le sue disgrazie fino a quando si convinceva che la separazione era
necessaria. Non andavano d'accordo. Il temperamento dell'uno non era fatto per
il temperamento dell'altra. Meglio oggi che domani.
E si voltava e rimaneva con la schiena al davanzale a dirle delle
asinerie.
— Usciamo?
— Per fare delle brutte figure!
Anche stamane lo aveva fatto arrossire. Gli piacevano i fiori, perché
mettono della primavera e della gaiezza sul petto femminile, ma gli spiaceva di
sentire dalla sua donna che quando andava lei in Verziere ne comperava una
corba con gli stessi denari. Così adesso tutta la bottega sapeva che Edoardo
Zanchi era appaiato alla figlia di un'ortolana!
Adalgisa perdette la pazienza. Con la bocca piena di panna montata diede
fuori in un pianto dirotto. Poi si levò in piedi indemoniata. Con la faccia
smarrita, smaniava e diceva che era stufa della vitaccia da schiava. Stufa,
stufa, stufa! Presa dalla furia, gettava le bottiglie da una parte e i piatti
dall'altra, gridando che la era finita, finita, finita! Non era mica una
prostituta, non era. Si toglieva gli anelli e li scaraventava in faccia
all'uomo che la perseguitava e la invecchiava dalla mattina alla sera. Non
voleva crepare tisica in casa sua. Aveva ancora una madre che piangeva notte e
giorno per lei. In casa della mamma non c'erano i tappeti, ma c'era un piatto
di buona ciera e quello che vi si mangiava, si mangiava di gusto.
Stracciandosi le gale del collo in mezzo ai barbagli della luce lunare
che entravano dalla finestra, coi capelli disciolti e con le guance rosse dalla
collera sembrava ancora più bella.
Era un pezzo che aveva in animo di romperla. Se si era fermata, era
stato per compassione. Adesso sapeva con chi aveva da fare.
E nella indignazione continuava a distruggere, irritata di vederselo là,
inchiodato alla finestra, con le braccia imbracciate, assistere al disastro
come al disastro di un altro. Lo spillone che le aveva regalato nel suo giorno
onomastico andava in frantumi. Non voleva più nulla della casa che le ricordava
l'orrore di essere stata considerata una mantenuta. Al diavolo la casa dello
scicche! Preferiva un boccone di pane mangiato in pace con un uomo che la
rispettasse. Vile, vile, vile! Era andato a sollevarla
quand'essa stava benissimo e per ringraziamento la martirizzava e le avvelenava
l'esistenza! Doveva saperlo prima che cosa sono gli uomini della sciccheria!
Puntandosi il cappellino andava innanzi e indietro fiera della sua
risoluzione e dicendogli di guardarsi bene dal parlarle nelle vie. Per lui era
diventata un'estranea.
— Lasciatemi passare.
Edoardo, col dorso all'uscio d'uscita, voleva trattenerla.
Era troppo tardi. Domani, avrebbe potuto andarsene con le cose sue senza
dare scandalo.
— Fatemi largo, o guai a voi!
Col parasole sotto l'ascella lo prese per le punte della redingote, lo
spinse violentemente due o tre volte sullo stipite, gli diede del farabutto con
uno schiaffo e con un urto lo rovesciò a terra come un corpo morto.
— Miserabile!
Aperse l'uscio, lo guardò un'altra volta come se avesse voluto
rimalmenarlo, e con un'occhiata di disprezzo scese le scale a precipizio.
Adalgisa nel cortilone non ritrovava più il suo ambiente. Le invidiose
che la vedevano passare grassottella e altezzosa si parlavano alle orecchie
cogli occhietti illustrati dalla malizia e si separavano compiangendo la povera
Marianna che aveva dovuto riprendersela come gliela avevano rimandata.
Adalgisa, con le sue guance imporporate di salute e i suoi occhioni di un
azzurro lucente, lasciava la maldicenza alle spalle e se ne andava via senza voltarsi
indietro. Avrebbe avuto schifo di leticare con delle sudicione come loro. Il
malassieme del cortilone l'aveva già disgustata. Non le andava più. Senz'essere
divenuta aristocratica, le iniezioni mal riuscite di Edoardo le avevano infuso
qualche cosa. Non sapeva più dare la mano come una volta alla prima
stracciona che gliela offriva. Le pozzanghere e le cacherie la obbligavano, con
la smorfia dello stomaco rivoltato, a tirar su le gonne e a rasentarle in punta
di piedi. Le unghie orlate di immondizia la nauseavano. Se il vento buttava
indietro il fumo e annuvolava la stanza, spalancava la finestra e l'uscio e
andava sul ballatoio a dir male del padrone di casa che non pensava ai camini.
Dopo i pasti le toccava risciacquarsi la bocca e pulirsi i denti con lo
spazzolino. Al sabato non si coricava senza lavarsi i piedi, anche se la mamma
le diceva che poteva buscarsi un raffreddore. Un giorno andò fuori dei gangheri
perché la Marianna si metteva in bocca le lasagne con le dita per assaggiare se
la minestra era cotta!
Marianna, che l'aveva accolta a braccia aperte col bacione affettuoso
senza punto domandarle dove era stata e che cosa aveva fatto in tutto il tempo,
si doleva di vederla inquietarsi per delle minuzie che prima non le facevano né
caldo né freddo e si andava dicendo che gliela avevano cambiata.
Essa si accorgeva che la figlia aveva subito dei cambiamenti, quantunque
al banco le era divenuta una perla che aumentava la clientela maschile di
giorno in giorno. Al banco, veduta con la veste succinta che lasciava all'aria
la sodezza dei polpacci nella calza pagliettata di giallo sul fondo azzurro,
col suo grembiale largo di percallo a fondo chiaro che le accarezzava i fianchi
e le andava su per le eminenze girato dall'arricciatura a colori fino alla sommità
del seno, affascinava. Dal suo ritorno c'erano degli scicconi che comperavano
essi stessi il sedano e il lattughino rosso e sottile che le rivendugliole
chiamano, per la sua mollezza, barba di cappuccino. Al signor Pinellone,
corteggiato per le sue spalle alte e la sua barba bionda e leggera come la
luce, piacevano i finocchi veronesi e il songino novello. Seppelli, quello
dalla caramella nell'occhio, coi guanti sempre in mano, si faceva scegliere
dalle manine pozzettate di Adalgisa dei piedi di lattuga giovine o d'endivia
bianca e pieghevole con dei rapanelli piccini piccini. La scarola bionda e
l'insalata col radicchio a fittone facevano venire l'acquolina in bocca al
Guglielmotti, il negoziante di seta di via Rovello, rimasto con la faccia del
fanciullone a cinquant'anni. Taluni vi andavano semplicemente per fare l'asino.
Si contentavano di un po' di maggiorana o di sesamo per dare dell'aroma a certi
piatti della loro tavola. Nei pomeriggi freschi i signori che pranzano bene vi
si fermavano a chiacchierare ordinando delle mezze bottiglie di Montevecchia
secco o di Capri bianco coi bicchieri per la Marianna e l'Adalgisa. Adalgisa beveva come un uccellino, intingendovi le labbra e sorridendo
con una curva incipiente a chi glielo offriva. Bevendo, il Pinellone faceva
sganasciare la ragazza dalle risa perché discorreva sempre come se non avesse
fatto altro nella vita che l'ortolano. Ora le diceva che andava matto per i
porcini, i funghi a cappelli olivacei; ora le parlava di fagiuoli a fiori
rossi, a fiori gialli, col l'occhio bianco cinto di bruno e ora le descriveva
tutto un orto col frutteto a spalliera per goderne i muri, e coi quadrati con
la bordatura coltivata di fragole. Il più chiassoso dei clienti nuovi era il
Bentoni, il maggiordomo generale della casa col biscione nello stemma, che
faceva la fortuna dell'ortolana che lo serviva. Vi andava alla mattina in
calesse col Giovannino in cravatta bianca a fianco, discendeva stringendo la
mano alla tosa e dando il buongiorno a Marianna, leggeva dal taccuino le sue
ordinazioni e poi, in fretta e fu ria, con le mani nelle tasche profonde che
rimestavano le monete, entrava dal Gianmaria con l'Adalgisa a bere un
bicchierino di grappa della bottiglia che vi man dava lui stesso per berla di
quella spremuta dai graspi e dalla feccia d'uva. Le diceva, con una mezz'oncia
calda, che era una bella ragazza, la guardava intensa mente sorseggiando,
saltava in carrozza, e mentre il cavallo voltava il vicolo, le raccomandava di
tenergli un garofano giallo macchiettato che sarebbe venuto a farsi
inocchiellare alle cinque. Prima di scomparire dal corso si voltava a gettarle
un bacio che qualche volta gli veniva ricambiato.
Il Bentoni era un tutt'assieme simpatico. Non aveva ancora quarant'anni,
era grassotto senza la deformazione del ventre, portava su due spalle giovani
una testa affollata di ricci, e i suoi favoriti biondi gli gettavano sulla
faccia un'aria d'uomo contento. Non conosceva collere che nei casi
straordinarii, quando gli si rovesciavano gli occhi e gli si alteravano i
lineamenti. Il suo costume mattutino era semplice. Indossava una giacca di
velluto di seta finissimo, con un solino a larghi risvolti sul panciotto di
velluto come la giacca, con una cravatta fuoco annodata con le gale lunghe che
svolazzavano, e portava un cappello floscio color nocciuola. Aveva sempre un
lembo del foulard fuori del taschino e i polsini che gli uscivano dalla manica
coi larghi bottoni d'oro dal biscione aggrovigliato al centro che gli davano un
grande scicche.
Era uscito dall'utero del servidorame. Suo padre era stato cocchiere e
sua madre cameriera dei signori dei quali egli era maggiordomo. La cronaca
diceva che il Bentoni era figlio di Massimo, il maggiore dei fratelli padroni.
E la gente di servizio non poteva non essere tra i maldicenti. Perché in casa,
per quante ne facesse, era sempre lui, l'uomo provvidenziale, l'uomo utile,
l'uomo indispensabile. Una volta rimase assente un mese senza che alcuno avesse
mai saputo dove fosse stato e i padroni non fiatarono. La loro preoccupazione era
che gli fosse capitata qualche disgrazia.
Licenziava le persone, ne assumeva delle altre, alterava i servizi,
andava nelle cantine, metteva le mani nelle guardarobe, ordinava dei pranzi
fantastici o dei pranzi da impiegati a mille e due, e nessuno osava mai
discutere i suoi ordini.
Talvolta Massimo, specialmente negli ultimi anni, lo prendeva
sottobraccio e lo conduceva a spasso come un figlio. Morto Massimo, due anni
sono, la sua autorità era piuttosto cresciuta che diminuita. Luciano lo
trattava famigliarmente come l'altro. Era sempre lui, Bentoni, che fissava i
mensili, che li aumentava, che metteva il visto ai conti prima di passarli
all'amministrazione, che riceveva i fattori di campagna e che sopraintendeva
all'interesse generale della casa. Il chiosco sontuoso, edificato sul pietrone
immenso tra l'affollamento dei salici nell'angolo a destra del giardino,
non era uscito dal sogno che dopo che Bentoni ne aveva approvato le spese e i
progetti. Era un chiosco di mogano rossiccio con una fronte di vetrate lungo il
porticato a colonne di bronzo istoriate, dinanzi alla quale correvano parecchi
metri di tappeti erbosi sormontati dal motto del casato fatto di sassolini
candidi e levigati: «honni soit qui mal y pense». Sovente, d'estate, il
maggiordomo vi radunava i suoi amici a deliziarsi il ventre con dei pranzi che
incominciavano con lo Chablis e le ostriche, passavano attraverso le ariguste,
le galantine di pernici, i fagiani e finivano con delle abbondanti innaffiature
di Champagne.
Le maggiori caratteristiche che lo rassomigliavano a Massimo erano il
fondo religioso e l'avversione profonda per il matrimonio. Non era un
chiesaiuolo che sginocchiasse su per i gradini degli altari, ma credeva alla
necessità religiosa. Il popolo doveva essere terrorizzato dai castighi di una
vita oltre tomba se non lo si voleva selvaggio. Ma, come Massimo, dissentiva
completamente dalla tattica clericale. Egli non riusciva a mettersi nel
concetto spettacoloso della gente che assiste all'incendio senza dar mano alle
pompe idrauliche per spegnerlo. Né eletti né elettori era la teoria anarchica
che aspettava fuori dei Consigli e del Parlamento che il mondo si nauseasse
delle Camere legislative e delle pubbliche amministrazioni. Fino a quando i
nemici legifereranno e amministreranno per conto del pubblico, la casa del
Signore si andrà spopolando. Avere fede in Dio e abbandonare l'organizzazione
sociale nelle mani dei partiti che lo combattono, era da insensati e da
spergiuri. Perciò, Bentoni, nei giorni elettorali, diveniva l'uomo più
affaccendato del quarto collegio. Passava di porta in porta a convincere gli
elettori di andare all'urna a votare per i candidati della buona causa. Teneva
un registro particolare delle forze che si contendevano il seggio, prendeva
parte attivissima ai meetings privati, torreggiava nelle riunioni pubbliche con
la voce calda dell'oratore di folla, firmava manifesti fraseologicamente
vibrati e nella giornata solenne metteva a disposizione dei comitati cattolici
tutte le carrozze e tutti i tiri a due e a quattro dei conti Vittone.
Il giorno in cui il quarto collegio elesse un repubblicano, non ne volle
più sapere. Egli si era convinto che il suo partito si era condannato a morte
da se stesso e che tutti i suoi sforzi e gli sforzi dei suoi pochi amici non sarebbero
mai riusciti a prolungargli la vita di un giorno. Non era un transfuga.
Rimaneva cattolico per proprio conto. Ma non avrebbe sciupata una cartuccia di
più per la bandiera di un esercito che l'aveva vigliaccamente abbandonata.
Il matrimonio lo aveva stomacato. Era un legame ch'egli aveva creduto
santo fino al giorno in cui venne a smagarlo la tragedia domestica del padrone.
Tra il conte Massimo e donna Elena, la figlia del marchese Stangoni, il
rappresentante di una delle più illustri famiglie della nobiltà milanese,
nessuno aveva mai sospettato il minimo dissapore. Li aveva sorpresi a
scambiarsi dei baci dietro le colonne marmoree del salone rosso, come se non
avessero avuto una fuga di stanze a loro disposizione, e li aveva veduti sui
sedili chiusi nel fogliame, dietro l'aranciera, guancia contro guancia,
teneramente abbracciati da una vera passione coniugale. La gente era piena di
rispetto per due esseri che si idolatravano e che ribadivano l'indissolubilità
dell'unione matrimoniale con tanta tenerezza. Le
famiglie li citavano come esempio di felicità domestica. E mentre tutti
credevano che si stesse svolgendo l'eterna scena della fedeltà coniugale, donna
Elena delirava per un altro, trovava abbracciamenti per un altro, e si
ubbriacava di baci sulla bocca di un altro.
Si ricordava come se fosse adesso. Era una sera di Natale. Il pranzo era
passato come un trionfo. Il ceppo aveva illuminato la sala e i brindisi
augurali erano succeduti ai brindisi. Bentoni, come capo del personale della
casa Vittone, aveva salutato gli sposi, augurando loro cento anni come quello,
tra le acclamazioni della tavolata. I genitori di Massimo e Luciano avevano
prolungata la serata raccontando i nataloni dei loro avi, le cui preparazioni
incominciavano un mese prima e la cui chiusura avveniva un mese dopo.
A mezzanotte il conte e la contessa salirono nei loro appartamenti
inseguiti dagli ultimi augurii e dalla buona notte di tutti, che echeggiavano
per lo scalone come un'allegria.
Nessuno si era accorto che tra il conte e la contessa era nato da un
anno un odio che non si scioglieva in una tempesta, soltanto per non macchiare
il piscione con uno scandalo aristocratico. I Vittone, nei due secoli della
loro esistenza, non contavano un'adultera. La tradizione di conservare il casato
mondo dai peccati plebei non era mai stata interrotta. C'era voluto una Elena a
contaminarla. Una donna uscita da una donna che aveva fatto parlare il mondo
per le sue avventure e le sue fughe notturne dalle lenzuola maritali.
La sera della scena storica Massimo gli si era appoggiato al braccio,
asciugandosi la fronte madida di sudore freddo. Gli disse che a mezzanotte
bisognava che tutto il personale di servizio fosse lontano dai suoi
appartamenti e che lui solo si trovasse nel salottino attiguo alla stanza da
letto, dal quale avrebbe potuto assistere con gli occhi e le orecchie al
dramma.
— Tu imparerai molte cose stanotte!
Bentoni era al suo posto agitato come se stesse per commettere un
delitto. Origliava con la palpitazione accelerata e guardava nell'occhio
nascosto nella parete con i pensieri che gli bruciavano la testa. Vedeva il
conte che andava in su e in giù a passi concitati e con le mani nelle tasche
dei calzoni, mentre donna Elena, premendo il bottoncino del campanello, stava
lamentandosi che la sua cameriera non si trovasse nello spogliatoio come tutte
le sere.
— È inutile che suoniate — disse con voce imperiosa il conte. — Venite
che vi aiuterò io a spogliarvi questa sera!
Non appena donna Elena fu nella stanza il conte si lanciò sulla contessa
con tale violenza da obbligare Bentoni a chiudersi in bocca il grido con la
mano. La percosse a destra e a sinistra delle guance, le strappò il doppio
filare di perle che le cingeva il collo e le ingiunse di levarsi l'anello che
aveva disonorato.
— Non piangete, baldracca! Dovevo schiacciarvi la prima volta, così,
come si schiaccia la malabiscia che capita sotto i piedi. Voi siete di quelle
donne per cui la riabilitazione è impossibile. Vi ho tenuta delibata da chi sa
chi invece di consegnarvi la prima notte ai miei servi e farvi buttare sulla
strada come cosa sucida. Ho fatto male. Dovevo sapere che certe femmine nascono
come nascono. Voi eravate corrotta nell'utero materno. Tacete, piangevate anche
allora. Anche allora mi domandavate perdono con la faccia inondata di lacrime.
E mentre strisciavate ai miei piedi, vi impromettevate, con la mente, nuovi
bagordi nelle braccia dei vostri drudi! Donna di tutti!
Elena, pallida come una morta, si copriva il volto con le mani. Tentava,
tratto tratto, di irrompere come una moglie che si rivolta contro gli schiaffi
del marito. Ma i suoi adulterii le stavano sulle spalle come pesi di piombo. Essa era vinta. In ginocchio, con le mani giunte, supplicava
il conte di imporle quel qualunque castigo che gli sarebbe piaciuto. Era giusto
che espiasse la colpa dei suoi misfatti.
— Donna da casa tollerata! Dopo che m'avete saccheggiato il cuore e mi
avete portato via come una ladra il mio onore e la mia quiete, venite a
domandarmi il castigo che meritate, per ricominciare domani la vostra orgia di
seduzione! È troppo tardi. Il vostro delitto è di quelli che non si espiano.
Diveniste una santa io vedrei sorgere dietro voi i vostri amanti che hanno distrutto
il mio santuario. Dio solo può perdonarvi. Tacete, vi ripeto. Il vostro pianto
mi irrita.
Fece alcuni passi come se stesse cercando il mezzo di uscire dalla
situazione ingarbugliata.
— Vi lascio la scelta — disse gravemente il conte — tra una morte
violenta e una morte più atroce, lunga, lenta che vi ricordi a ogni minuto che
siete stata la ganza del marchese Talmacchi, tradito per il conte Pio, e Pio
per il suo cavallerizzo! Donna da suburra!
La contessa singhiozzava; il conte Vittone era divenuto calmo.
— Non vi torcerò un capello. Deploro di essermi sporcate le mani. Voi mi
avete obbligato a dimenticare che sono un gentiluomo. D'ora innanzi non sarò
più vostro sposo che per i domestici e per la gente che saremo costretti a
vedere insieme. Nessuno, tranne il Bentoni, deve sapere che tra noi e voi è un
abisso che nessuno può colmare. Voi abiterete le stanze che vi verranno
assegnate, e nelle quali passerete la maggior parte del vostro tempo. Le
lettere che scriverete le darete a Bentoni, il solo testimonio di questa nostra
separazione. Non uscirete più mai che al mio braccio e quando sarà
assolutamente necessario. La vostra sparizione dalla società potrà suscitare
dicerie che voi potrete distruggere adducendo disturbi che vi impediranno di
partecipare al gran mondo. Dopo un po' di
tempo vedrete che si rassegnerà anch'essa alla vostra perdita. Accettate?
La contessa accettava tutto.
Un martirio che durò tre anni. La contessa incominciò la vita di reclusa
leggendo. Divorava un romanzo dopo l'altro senza mai stancarsi. Di notte non
spegneva il lume che tardi, quando la sua vista incominciava a intorbidirsi. Il
più delle volte mandava a dire che i suoi malanni non le permettevano di
scendere a colazione. E il conte se la cavava con qualche parola di
rincrescimento per le persone a tavola e saltava in un altro argomento senza
scolorire. A pranzo non mancava che di rado. Ma era quasi sempre il conte che
rimaneva assente. Il conte, che prima rifiutava gli inviti, ora era sempre in
casa altrui o nei restaurants, come un giovanotto senza famiglia. Diceva a
Bentoni che questo cambiamento gli serviva di distrazione. Se rincasava presto,
si compiaceva di passare una mezz'ora col maggiordomo per convincerlo che era
meglio annegarsi che prendere moglie.
La contessa è morta smagrata, cogli occhi gualciti da una lettura senza
posa e col cervello istupidito dai silenzi prolungati. Negli ultimi mesi
trovava difficile connettere le parole e le accadeva sovente di infarcire le
frasi di vocaboli che non avevano rapporto fra di loro. La sua memoria non le
serviva più da tempo. Sciupava delle mezz'ore per cercare ciò che aveva sotto
mano o deposto in qualche parte un minuto prima. Se si metteva a scrivere
domandava cento volte quanti se n'aveva del mese. Rideva come una scimunita e
dava fuori in pianti chiassosi senza ragione alcuna.
Parenti, amici e domestici credettero seriamente a una malattia. Solo
qualche scettico si meravigliava che la contessa avesse potuto diventare
cronica dall'oggi al domani.
Il conte non fu dolente. Per lui era morta dal giorno in cui i sospetti
lo avevano indotto ad aprirle lo scrigno della corrispondenza privata che la
rivelarono depravata fino al quadro plastico.
Il conte morì molti anni dopo, convinto che il matrimonio inquinava il
sangue nazionale e popolava il paese di figli spurii. Bentoni rimase il
confidente intimo dei suoi pensieri fino all'ultimo. Nelle ore sconsolate, gli
ripeteva che il suo posto sarebbe stato a vita, a condizione che rimanesse
celibe. Di matrimoniati non ne voleva più sapere. Un domestico che parlava di
prendere moglie o una domestica che si proponeva di prendere marito veniva
licenziata sui due piedi. In casa sua non voleva dell'ipocrisia e della
sudiceria. Preferiva l'amore libero che univa e scioglieva, lasciando alla
società il compito dei bastardi, anziché il matrimonio che costringeva il
marito a sentirsi chiamare padre dei figli degli altri.
Bentoni incominciava a lasciarsi impallidire la donna che gli aveva
fatto su Massimo, nei momenti in cui gli ripeteva che non era che un balocco
per la distrazione dell'uomo. Tanto più vedeva Adalgisa, quanto più spasimava
di rivederla. Le altre donne non gli avevano inquietato il cuore più del tempo
ch'erano state con lui. Uscendo dalle loro braccia se ne andava con nessun
altro ricordo fuorché una grande spossatezza. Adalgisa, con la sua indifferenza
e coi suoi trasporti, lo costringeva a mendicare dei minuti anche quando essa
pestava i piedi dalla fretta. I suoi baci gli lasciavano l'arsura dei desiderii
insoddisfatti. Suggeva senza mai esserne sazio. Più di una volta, col suo
taccuino delle ordinazioni, gli prendeva la voglia di metterle la mano alla
gola e adagiarla sul cumulo dei legumi per bere le ebbrezze della sua bocca. In
calesse provava dei veri rapimenti con la coscia che si scaldava alla coscia di
lei e con la faccia ventata dalla rapidità del cavallo.
— Mi vuoi bene? — le domandò una domenica che andavano alle corse di San
Siro.
— Te ne voglio!
Sferzò il cavallo con un grido che infuriò la bestia tra il pêle-mêle
dei veicoli carichi di sportsmen e di sportswomen che si rincorrevano lungo lo
stradone e sollevavano turbini di polvere che indorava nel sole. Era una
risposta che gli era andata alla nuca come una versatura di piacere ardente. In
quel momento avrebbe voluto ribaltare e perire con lei sotto le ruote, per aver
modo di morsicarle le belle labbra che si aprivano come un frutto vivente. I
tiri a quattro che filavano l'uno dietro all'altro, si perdevano nel polverone
in fondo, che saliva come una nuvolaglia e nascondeva il cielo.
— Fila, Rosmunda!
E Rosmunda, snella, slanciata, con il collo teso, con le froge in una
palpitazione eterna, passava tra i ruotabili come una bestia che sfiora lo
stradone.
Sul grande stand Adalgisa rispondeva ai saluti dei giovinotti eleganti
che l'avevano conosciuta con Edoardo Zanchi, mettendo nel sangue di Bentoni l'argento
vivo della gelosia. Ma poi lo ammansava col tepore del suo braccio e tutti e
due, come una coppia felice, protendevano il collo verso i gruppi che
circondavano le bellezze dell'high life, illustrate dai gioielli e illuminate
da una profusione di diamanti. La stella della tribuna massima era la marchesa
Spuma, alta, con il collo alabastrino che usciva netto e carnoso dalla toilette
verdemare, la cui grazia rivelava la mano insuperabile del Worth, il sarto
dell'ex imperatrice dei francesi. Lo stellone di brillanti appeso alla striscia
solferino del collo reale diffondeva una fosforescenza che obbligava a chiudere
gli occhi.
La favorita dell'aristocrazia era Lara, montata dal fantino in maglia
nera, con croce rossa sul petto. Il fantino era Lanterre, il vincitore
invincibile dei primi premi. Lungo, assecchito, con una testa rotonda come un
piccolo globo e il naso schiacciato alla radice, coi buchi larghi delle nari
volti su come due cavità minacciose. Lara era un nobile animale di razza
inglese, arrivata terza alle corse di Epsom e seconda a quelle di Chantilly.
Arcuava la testa altezzosa con dei nitriti repressi dalla mano che
l'accarezzava e raspava il terreno come insofferente del morso che le impediva
di lanciarsi nello spazio. Il suo nome passava di bocca in bocca e i bookmakers
non davano più che due contro uno.
Gli altri cavalli erano sconosciuti, tranne Lord Endel, il morello
chiazzato di bianco alle culatte, che era stato a un pelo di giungere primo,
alla corsa inaugurale. Lo squillo di mettersi in fila era stato dato. Lionello,
col fantino in costume giallo e babbucce nere, continuava a girare su se stesso
con dei caracollamenti per liberarsi del peso che gli stava sulla groppa. Al
segnale di partire i concorrenti voltarono tutti dalla parte opposta, salvo
Lara che si avventò per la pista con tale impeto da indurre i bookmakers a non
tenere più che uno contro uno. Fu in questo scompiglio di teste che si
ritraevano dal punto di partenza che Adalgisa vide Edoardo Zanchi, in tuba e in
frock-coat cinerognolo, sotto il parasole rosso di una signorina tutta scicche
che si tirava su, flemmaticamente, il guanto alla moschettiera giù a calza sul
polso. Con la emozione alla gola si sentì il bisogno di precipitarsi su loro
con gli schiaffi roventi per la faccia sguaiata di tutti e due. Credeva di
averlo dimenticato, e non appena lo rivedeva sentiva le fiamme della collera
per il viso. Lo accusava, mentalmente, di essere vile, di non avere lasciato
raffreddare neppure le ceneri del loro amore. E col sangue sottosopra, pallida,
con le labbra tremanti, s'appese al braccio di Bentoni, come se avesse avuto
paura di cadere in terra.
— Ti senti male?
— Ho avuto una specie di capogiro. È passato. Sto meglio.
Ridato il segnale, il pubblico si protese cogli occhi sui cavalli che
filavano l'uno con la testa sul collo del l'altro, come se nessuno avesse
voluto tentare di guadagnare terreno. Lungo lo steccato era una siepe nera che
seguiva la corsa con l'ansia di chi vede qualcuno che cammina sull'orlo del
precipizio, e di sopra alla ressa sbucava, di tanto in tanto, la figura di
qualche persona che aveva piantata la sua scranna nel fitto della gente. Nel
largo, tra lo steccato e le tribune, erano molti sportsmen in tuba cenerina,
coi cannocchiali puntati sui corridori, che dicevano alle loro signore sedute
gli incidenti della corsa.
Il secondo giro era incominciato. Lara aveva lasciato prendere il suo
posto a Lady Flower, ma nessuno vi dava importanza. Era il gioco del fantino
per suscitare della commozione. Due siepi erano state saltate e Lara aveva
ripreso il posto, lasciandosi alla coda tutti gli altri. Dappertutto si tirò il
fiato. Brava! Brava Lara! Emma, con le sue lotte contro
le ombre, s'impennava con dei gridi di cavalla capricciosa e rimaneva indietro
qualche volta mezzo giro che poi riguadagnava colla velocità della cavalla che
si sente il fuoco alla coda. Nessuno simpatizzava per un quadrupede con tanti
vizii. I bookmakers l'avevano offerta con venticinque volte la puntata senza
destare entusiasmo. Bentoni invece, il quale alle corse aveva la mania di
tenere per gli ignoti, vi arrischiò due biglietti da cento. Al terzo giro, a
cento metri dalla prima siepe già saltata da Lara e da Lionello, tutti erano
convinti che la vittoria sarebbe stata della prima. Alcuni, incalzati da questa
convinzione, si erano avviati, adagio adagio, verso i bookmakers per
riscuotere. Adalgisa s'era immusonita per la testardaggine del Bentoni che non
aveva voluto puntare su Lara. A un tratto l'attenzione fu per un'altra. Emma si
era rimessa in cammino con una velocità fulminea, saltando una barriera dopo
l'altra, passando per la folla lungo lo steccato come una maledizione
nazionale.
Essa giunse alla sbarra della vittoria, stramaledetta da tutti gli
sportisti che avevano tenuto per Lara.
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