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Paolo Valera
La folla

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Giuliano, infuso della bontà paterna, continuava la vita randagia del materassaio ambulante, senza dolersi di avere voltato il dorso alla bottega che lo aveva ridotto un cencio a diciotto anni per quattro lire la settimana e le mance del ferragosto. L'esistenza in un lavorerio, chiuso sotto una vetrata, non gli era mai andata. I suoi polmoni avevano bisogno d'aria come le sue gambe di moto. Con Piccinelli per padrone, le giornate gli parevano lunghe come la fame. Era un orario che non gli lasciava tempo di prendere fiato. Arrivava a casa con le ossa rotte e lo stomaco in terra, senza voglia di mangiare la minestra che fumava sul tavolo ogni volta che rientrava. Quello dell'orario era il chiodo che egli ribadiva a martellate tutte le volte che si trovava al circolo coi compagni.

Va benediceva loro — il vostro pane intellettuale, ma ci vogliono meno ore di bottega se volete che si senta la voglia di prendere in mano un libro.

Ultimamente aveva smesso di parlarne perché la bottega, veduta dal suo posto di operaio libero, gli sembrava peggiore di quando vi si trovava. Ce la aveva nella memoria come un locale malsano, con una luce scialba che accecava in dieci anni e dell'aria che sentiva di chiuso anche se si era raffreddati. Ci avrebbe dovuto essere una legge che obbligasse i padroni a rendere le stanze di lavoro più attraenti. Gli pareva impossibile che dei giovanotti grandi e grossi stessero laddentro tutto il giorno a nutrirsi di polvere di capecchio e di stoppa per meno di due lire. Non pochi tappezzieri si guastavano i polmoni e morivano lentamente, sputacchiando nero come gli spazzacamini. Adesso lui non c'era più e gl'importava fino a un certo punto di quei luoghi dove s'era abbrutito per tanti anni. Ma non gli piaceva affatto l'abitudine di scappellottare la garzoneria. Ai suoi tempi i giovani si mandavano i garzoni dall'uno all'altro con lo scapaccione e con la pedata. Un modaccio che lo indisponeva e gli metteva qualche volta un lacrimone negli occhi. Il garzone che andava in giro con lui da sei anni non aveva ricevuto che uno sberlotto che si era meritato, e anche di questo lui, Giuliano, si doleva amaramente, perché nessuno doveva correggere colla brutalità delle mani.

La semplice compera del graticcio, delle bacche, dello scardasso, dei grembiali, della bisaccia cogli aghi da basto, col refe e con un po' di fiocchi bianchi e colorati per i materassi e i cuscini gli aveva fatto salire la settimana fino a venti lire nette, dedotte le sei che dava al garzone. Perché lui non voleva tirarsi dietro un morto di fame. Chi lavora deve mangiare. E una lira al giorno non era mica troppo per un bulo che voltava via mezza libbra di pane in quattro boccate.

Col suo adagio che con la pazienza e la paglia maturano le nespole, si era fatto una clientela che abbracciava una zona di qualche miglio quadrato. Le famiglie che serviva gli aumentavano il lavoro di anno in anno e trasmettevano di vicina in vicina e di porta in porta il suo nome di buon materassaio onesto. Perché Giuliano faceva il lavoro con coscienza, senza guardare in faccia alla ricca o alla povera. Scardassava la lana fino a quando poteva mettere nelle fodere delle matasse candide come la bambagia e la batteva con le bacchette che fremevano e si alzavano col cic ciac lungo, portando in alto filate di bioccoli che cadevano netti di polvere e leggeri come la piuma. La cucitura di sopraggitto, che univa il traliccio o le due fodere, pareva fatta col filo di ferro. Non si sfaceva più che con la forbice o con il coltello. La signora Giumelli, di San Vittore Grande, diceva alle amiche che il suo materassaio trapuntava i materassi e i cuscini con garbo d'artista. Il fiocchetto rimaneva nel solco come un fiore di neve spruzzato di sangue. Ma la parte più importante del suo lavoro era di renderli soffici senza sciupare la lana. Portava di sopra materassi e cuscini che rimanevano morbidi per tutto l'anno e anche di più per la donna che lesinava o aveva poco da spendere. Facendo il suo dovere si congratulava di rendere dei veri servigi sociali. Una famiglia che riposa bene, diceva lui, si alza di buon umore e attende alle proprie faccende con giubilo. E lui era riuscito a dare materassi che non ritenevano l'impronta dei corpi che dopo mesi e mesi. Un'altra virtù che influiva a tenergli incatenate le famiglie era che nessuna donna aveva mai potuto rimproverargli una manata di lana. Era una cosa che non gli passava neppur per la mente. Il padre gli aveva insegnato di buon'ora che la farina del diavolo finiva per andare in crusca e che il più furbo era il galantuomo. Il galantuomo non corre i pericoli del ladro e ha del lavoro fin sopra i capelli da un capo all'altro dell'anno.

Non era ancora uscito dai bisogni assoluti, perché il padre gli aveva lasciato una famiglia grossa. Ma tra sé e sé si contentava di avere fatto di tutto per impedire che i suoi di casa andassero a bubbolare di freddo e a mendicare sul lastrico il boccone della vita. Sua madre, che ne aveva cinquantotto, non era mai stufa di ringraziare Domeniddio di averle dato un maschio che sapeva tirare innanzi una barca sdruscita con sei ragazze. Candida, la maggiore, un bambolone a tredici anni e mezzo grosso come una donna, era la sola che portava a casa due lire la settimana, guadagnate come piccinina alla fabbrica della Sala, la guantaia che serviva le prime case signorili di Milano, inclusa quella dei Vittone. Nelle domeniche il fratello cercava di sapere se le piaceva fare la guantaia, ma non riusciva che a cavarle dei dubbi.

Era una ragazza che non aveva volontà propria.

— Ti piace?

Pareva che i suoi occhi si ravvivassero dal piacere.

— Ti spiace?

Le sue labbra facevano una smorfia senza uscire dal sorriso di buona fanciulla che non perdeva mai. Qualche volta veniva a casa allegra a raccontare alle sorelle tutto ciò che aveva fatto nella giornata. Diceva che, mentre le ragazze della scuola facevano colazione di fuori sul portone in faccia al giardino pubblico, essa si era provata a fare dei punti in un guanto sotto la macchina, senza che la lavoratrice se ne fosse accorta. E ne rideva come di un trionfo. Alla mattina con le altre piccinine preparava la scuola per l'ora delle operaie. Intanto che una andava per la scopa e per l'inaffiatoio e l'altra copriva le macchine, Candida raccoglieva i pezzettini di pelle e la rasatura delle forbici i che si accumulavano sotto i buchi della piattaforma dell'ago e metteva sul tavolino delle macchine manate di guanti da cucire. Durante la giornata scuoteva le massette di seta di tutti i colori e coll'arcolaio ne preparava i rocchetti, ammattendo spesso a riprendere il filo perduto nell'arruffamento della seta. Giuliano, fumacchiando, ascoltava e si lasciava trascinare dai suoi pensieri di riforma sociale nel regno dei sogni. Vedeva nel lontano orizzonte i figli nelle mani del Comune, una scuola professionale per tutte le ragazze e una vita d'operaie sane e allegre in tutti gli stabilimenti. Poi si slacciava di un grande sospiro e ricadeva nel mondo vecchio a ripensare all'avvenire di Candida. Capiva anche lui che non era un mestiere per una ragazza che mangiava tanto pane. Le guantaie erano ragazze mingherline, colla faccia patita e cogli occhi che portano attorno la tristezza di un'occupazione troppo lunga. La 33 della prima scala del blocco C le tipicava. Tutto il cortilone l'aveva veduta venir su un pezzo di ragazzotta che fioriva per la strada e tutto il cortilone aveva assistito alla sua sfioritura lenta, di anno in anno, fino a che era divenuta un corpo malfatto e sfiancato che doveva mettersi in bocca dei crostini di pane per sedare la tosse canaglia che l'uccideva e disturbava tutta la scuola. Essa gli diceva l'altro giorno, tra un colpo e l'altro di tosse che rivelava il catarro nello stomaco, che avrebbe avuto bisogno di lavarsi i polmoni, imbrattati della polvere della pelle dei guanti di fabbrica, con un po' d'aria di mare. Ma il mare era lontano e la povera ragazza doveva consumare gli ultimi tocchi di polmoni a «gippare» i guanti che la mantenevano con la mamma. Da Candida passava all'Altaverde, la penultima delle sorelle che non contava che dieci anni. Era esile, affusolata, con una capigliatura ricca, del colore dell'ambra, che la ravvolgeva tutta come in un mantello, quando non era legata col nastro dalla nuca alla punta. La guardava e si diceva che non l'avrebbe mandata a intisichire in mezzo ai guanti. E cercava, tra una boccata di fumo e l'altra, un mestiere meno assassino. Quello di pulitora era peggio di quello della guantaia. Le pulitore tenevano le mani tutto il giorno nella bacinella degli acidi e in pochi anni i loro denti perdevano lo smalto e si cariavano nella gengiva e i loro capelli andavano a manciate nella buca della spazzatura. Ne conosceva di quelle che a vent'anni parevano ditte della vecchiaia.

Nei lavoreri degli orefici c'era poi una responsabilità troppo grande. Le ragazze uscivano dalla fosforescenza dei diamanti e dagli splendori dell'oro giallo illuminato dalle pietre e dalle perle preziose incastrate, e entravano nella stanza coi buchi nelle finestre tappati dalla carta e rimanevano in mezzo allo squallore diffuso dall'uscio al soffitto. Una donna abituata in questi mestieri, che fanno nascere i desiderii del lusso, doveva avere una giornata superiore a quella della piegatrice di fogli di stamperia. Gli pareva che l'onestà dovesse essere protetta da un salario adatto all'ambiente.

I fiori erano la sua passione. Non poteva passare dinanzi un giardino senza lasciarvi dietro gli occhi. Ma i fiori artificiali gli mettevano dei brividi. Tutti quei colori che giocondavano la vista, nascondevano il veleno sottile che passa dai pori nel sangue e manda a delirare sullo sdraio dell'ospedale. Al banco della fiorista si aspiravano i fluidi letali che distruggono i denti come l'acido nitrico delle pulitrici e impregnano i polmoni come la polvere omicida delle guantaie. Era un mestiere così crudele ch'egli poteva scegliere una di quelle coloritrici di fiori in mezzo a un piazzale di donne. Non c'era che da guardare agli occhi. La cianina irrita gli occhi e ne arrossisce gli orli. No, no, bastava Candida nell'inferno sociale ove si muore senza pietà per accumulare una fortuna per il padrone e produrre il lusso per gli ingrati. Non voleva che Altaverde morisse stinta e appassita come tutte le altre. Lui aveva delle buone braccia per tenere lontano il lupo dall'uscio. E finché c'era lui, alle sue sorelle non sarebbe mancato il pane. Consolato dalla sua energia, se la prendeva tra le gambe e le accarezzava paternamente la ridondanza dei capelli, correndo dietro al consiglio di Annunciata che gli aveva suggerito di farne una sarta, un'arte in cui non si deperiva e non si perdeva così facilmente l'anima per salvare il corpo. Pur troppo, bisognava pensare anche a questo. Annunciata era una eccezione. Essa poteva andare dappertutto senza piegare né dinanzi al bisogno, né dinanzi all'uomo. Ma non tutte, gli diceva una sera ch'era andata di sopra con un po' di castagne arrosto a trovarli, erano come lei. Ne aveva viste delle lavandaie andare a male e delle stiratrici che non tenevano i ferri che per buttare della polvere negli occhi ai gonzi! Il mestiere della sarta lo si imparava in cinque o sei anni e, quando lo si sapeva bene, si poteva metter su scuola con poche centinaia di lire. Era detto, era stabilito che Altaverde sarebbe divenuta sarta.

Nelle domeniche e nelle giornatacce, Giuliano si dimenticava sulla seggiola vicino alla finestra o al focolare, a leggere il libro che gli avevano prestato o che aveva trovato sulle carriuole sotto i tendoni dei librivendoli di Sant'Ambrogio. C'erano momenti in cui leggeva disperatamente, come se avesse voluto rifarsi della giovinezza saltata via di pianta senza un libro. Spesso si trovava in fondo al volume con le orecchie rosse e le guance accese, come se fosse giunto trafelato da un lungo viaggio a piedi. Era il soggetto che lo aveva commosso, che lo aveva fatto palpitare, che lo aveva uncinato e obbligato, a poco a poco, a partecipare alla storia che gli si svolgeva sotto gli occhi come spettatore. Certi personaggi, che subivano gli strazii della vita senza nome, gli facevano salire le lacrime dalle viscere e lo trattenevano , col libro in mano, a pensare alle sue riforme, che allargava con la esperienza che andava facendo. Sovente, con la fantasia che gli si svegliava a mano a mano che il libro lo inghiottiva, si trovava all'ultima pagina come trasognato o intontito, senza sentire la madre che gli diceva di non lasciare venir fredda la minestra. I volumi difficili, come quelli del Guerrazzi, lo rendevano malinconico, perché gli impedivano di travolgersi nelle passioni e gli facevano capire quanto egli era lontano dall'intelligenza del ragazzo della gente agiata. Avrebbe voluto che gli scrittori si fossero sempre ricordati che c'era al mondo il popolo che ne sapeva meno di loro e che più di loro aveva bisogno di istruirsi e di ammansare le violenze negli esempi degli altri. I libri religiosi, che qualche anno prima gli davano delle estasi, gli erano divenuti insipidi. Gli lasciavano un bianco nella testa e un vuoto nel cuore che lo facevano temere per la sua religione. In dati momenti gli pareva che stava per perdere la fede che aveva in Dio. Non era possibile. Perché Dio era la consolazione degli afflitti e la speranza dei poveri. Senza Dio la società si sarebbe sfasciata e gli uomini si divorerebbero l'un l'altro. E tuttavia il libro religioso, ch'egli rileggeva per abitudine, gli dislogava le mascelle dagli sbadigli e lo lasciava istupidito come un mangiatore d'oppio. I romanzi invece gli facevano desiderare una pioggia torrenziale per avere tutta la giornata da mettersi in un angolo della sua stanza affumicata, sulla seggiola di lisca, affondato nei drammi che lo scaldavano dai piedi alla nuca e gli lasciavano nella testa delle figure eterne. Le pene dei tribolati dalla fortuna divenivano le sue pene e lo incitavano a dire parole maiuscole contro i persecutori. La storia commovente di una povera ragazza di campagna, andata in fondo a un pozzo asciutto a nascondere la vergogna di avere partorito il figlio dei suoi baci indemoniati, e ad aspettare, col bimbo, la morte senza mandare un lamento, lo aveva fatto passare attraverso un terrore che gli aveva cosparso più di una volta la fronte di sudore. Gli doleva che ci fossero stati dodici uomini capaci di mandare in galera una fanciulla che si era lasciata bruciare dalle parole ardenti d'amore.

Alle riunioni tranquille dei suoi compagni del circolo degli studii sociali non poteva andare che di raro, perché le famiglie lo volevano sempre di buon mattino a lavorare i materassi ancora tepidi. Ma non vi mancava mai se capitavano in sabato. Perché trovava che erano istruttive. In mezzo a loro si sentiva bene, si trovava come in casa propria, tra gente che la pensava, su per giù, come lui, e che non lo faceva arrossire se scappucciava parlando. Tra gli oratori che andavano sovente sulla piattaforma della sala c'era un lavorante piccino, vestito da sgarbato, col nodo della cravatta verso la spalla, col bavero in piedi e coi capelli che parevano una rivoluzione. La sua voce era fioca come di una persona che ha poco fiato da buttar via. Il povero cristo era tormentato da un'angina cronica che si era buscata in fabbrica a lavorare i fiammiferi. In fabbrica guadagnava appena abbastanza per stare in piedi con la moglie e tre figli. Era un mestiere che poteva imparare un ragazzo in poche ore e che ormai non apparteneva più che alle donne, le quali avevano sostituiti gli uomini per meno di loro. Descriveva la condizione di tante poverette con una semplicità evangelica. Facevano male a prendere il posto dei loro amici, dove la mercede dei sessi non era uguale. Lo sapeva. Ma le sgraziate non avevano diritto di scelta. Bisognava pur mangiare a questo mondo, anche a costo di togliere il boccone dalla bocca degli altri pitocchi che avrebbero finito per morire d'inedia. Non si andava in fabbrica per pochi centesimi al giorno se non si era proprio frustati dal bisogno. E, dicendolo, faceva fare al braccio un taglio che traduceva un po' della sua disperazione. Lui, del resto, non era a biasimare né quelle che prendevano, né quelli che lasciavano. Il suo compito era più semplice. Lui non diceva che quattro parole alla buona, tra amici, per cercare di far nascere nell'operaio il sentimento della rigenerazione che non gli sembrava ancora germogliato. Ed era il sentimento che l'uno doveva amare l'altro. Senza un po' di solidarietà, gli interessi degli operai sarebbero intisichiti nei libricciuoli in cui li aveva letti. Ci voleva fratellanza, ci voleva. Con la fratellanza, i lavoratori si raccoglievano intorno alla loro bandiera e diventavano una forza. Le donne nelle fabbriche di zolfanelli sono sbandate, alla mercé del salario della fame e del fosforo che le istremenzisce, che sguernisce loro le gengive a vent'anni e le imbruttisce anche prima. Gli piangeva il cuore di vedere tanta gioventù femminile sciuparsi per delle inezie negli opificii, senza una mano che desse loro aiuto. E diceva le parole tergendosi la lacrima che gli andava giù per la guancia come se stesse parlando delle sue figliuole.

— Sì, unitevi, uniamoci. Non c'è che questa lega che aiuti i poveri del lavoro a riconquistare un po' del perduto benessere, per vivere onoratamente come deve vivere la gente che lavora tanto, e tanto onestamente.

E a poco a poco diveniva afono e continuava il discorso coi gesti e con le lacrime.

 




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