Annunciata, divenuta intima di Enrichetta, la mamma di
Giuliano, per amore delle ragazze che aveva cominciato ad amare come sue, non
sapeva lasciar passare una giornata senza fare una scappata di sopra con un po'
di frutta e un po' di baci. Se le premeva al seno e alla bocca come se avesse
voluto inondarle delle sue ondate materne. E con le braccia per la vita delle
ragazze e le labbra sulle loro labbra, si sentiva andare per il corpo una
dolcezza che la inghiottiva. Con le manucce delle ragazze sui fianchi, i
trasporti materni le inumidivano gli occhioni e la ricacciavano, col pensiero,
tra i suoi figli perduti tra i figli degli altri senza poterli distinguere. Era
il rimorso che le risorgeva e la rendeva inconsolabile. E sfogava la sua
ambascia in tante tenerezze celando il viso nel visino paffuto di Ginevra, la
piccina che rideva e le accarezzava le guance con la grazia di una titillatura.
Non sapeva darsi pace di avere spontaneamente inviate all'androne comune le
viscere delle sue viscere senza voltarsi indietro. Trovava solo qualche scusa
pensando al dolore. Forse era stato il dolore atroce che l'aveva resa
insensibile e le aveva fatto dimenticare di essere madre. E nelle notti
disperate, quando sognava delle sue ragazze, si diceva che ci doveva essere una
legge che punisse i delitti della sgravidanza, perché almeno nella espiazione
della pena la madre senza cuore potesse trovare un po' di balsamo per il suo
tormento.
L'intimità tra lei e la casa di Giuliano Altieri intensificava tutti i
giorni. Se non la si vedeva, si diveniva inquieti come di una della famiglia.
— Candida, va giù a vedere se Annunciata è uscita.
Annunciata evitava di andare a trovarli di sera, specialmente se c'era
in casa Giuliano, perché era un giovanotto che le metteva soggezione. Se c'era
in casa e lei andava di sopra, lui rimaneva lì ad ascoltarla per deferenza e
aggiungeva, qualche volta, il sorriso della cortesia. Ma non prendeva parte
alla loro conversazione che con qualche parola che gettava, tra i loro
discorsi, sbadatamente. Come donna, Annunciata gli piaceva; ma le dicerie che correvano
sul suo conto gliela rendevano ributtante. Lui lasciava fare ai suoi di casa
perché amava il quieto vivere. Ma quando Annunciata saliva da loro con delle
grembialate di legna e un litro di vino con le castagne arrosto, gli veniva
voglia di prenderla per un braccio e metterla alla porta. Non era in casa sua
che si mangiava il frutto della prostituzione. Tutti sapevano delle sue
relazioni con Giorgio, il padrone del Casone. Lo si vedeva venire avanti e
indietro a tutte le ore, e coloro che andavano a letto tardi lo incontravano
che discendeva in punta di piedi le scale, col cappello sugli occhi per paura
di essere riconosciuto. Era uno scandalo che andava di blocco in blocco a
ingrossare il pettegolezzo del ballatoio. Si sapeva che Annunciata era audace e
che sfidava il sottovoce con una noncuranza che faceva stupire la gente. Di
notte veniva a casa a tutte le ore, smontando dalla vettura senza vergogna e
dicendo addio, dal buio dell'andito, ad alta voce, che chiunque la poteva
udire, all'uomo che la salutava. Ma non ci veniva sempre, a casa. C'era Alfredo
che raccontava, anche a chi non lo voleva sapere, che alle tre del mattino di
una notte che fioccava, e si sprofondava nella neve fino al ginocchio, egli
aveva trovato il suo uscio spalancato e le sue stanze vuote. Egli era andato a
cercarla per il letto col cuore tremante senza trovarvi neppure il caldo del
suo corpo. Poteva essere una calunnia, perché si sapeva che il violinista le
moriva dietro e la pedinava nelle sue peregrinazioni notturne, senza che
l'Annunciata si degnasse mai di considerarlo vivo. Anzi, se c'era qualcuno che
le faceva schifo, era lui. La gente giovane che andava intorno col cappello in
mano non era il suo ideale. Essa voleva che le persone si guadagnassero la vita
con del lavoro utile. Il musicaiuolo della strada le sembrava assolutamente
inutile. Chi voleva della musica andava in chiesa o a teatro. E Giuliano non le
dava tutti i torti. Solo egli dissentiva sulla sua vita privata. Una donna, per
quanto libera, non poteva impunemente insultare i costumi che un popolo si
trascinava dietro di generazione in gene razione. E l'Annunciata li aveva messi
tutti sotto i piedi come della roba vecchia. In lei l'amor libero non era stato
che un mezzo per sostituire l'amorazzo alla passione vera e per soffocare il
grido materno, stato rispettato perfino dalle belve. Poi si riammansava e
ritornava a ragionare sulla diceria che correva per il Casone. Non era
possibile che una donna con tanta esuberanza d'affetti potesse dimenticare i
suoi parti come lo struzzo dimentica di covare le sue uova. Forse aveva dei
nemici o delle nemiche che le volevano male. Perché sulla bontà del suo cuore
non c'era dubbio. Bastava vederla entrare per convincersene. Si precipitava
dovunque era Attuccia, se la prendeva tra le braccia e se la mangiava con dei
baciozzi che entusiasmavano anche coloro che di affetti di famiglia non
s'intendevano. Se andava a spasso, pregava Enrichetta di darle Altaverde o
Bianca, perché non le piaceva uscir sola. E fuori, con la ragazza, passava tra
gli uomini come una guerriera che non si occupa degli uomini della strada.
Enrichetta sapeva che Giuliano non vedeva Annunciata che a malincuore e che
perciò le raccomandava di non accettare nulla da lei senza restituire. Perché
lui voleva essere povero, ma non amava che si malignasse sul suo conto. Un
giorno che aveva trovato in casa un cartoccio di dolci per le ragazze, pregò la
madre di invitarla a pranzo per cancellare l'obbligazione. Tre o quattro lire
più o meno non lo avrebbero minato; ma ci teneva a togliersi il peso dallo
stomaco. L'Annunciata si sentiva commossa, ma non voleva accettare. Perché lei
quello che faceva era per pura soddisfazione di cuore. Le piacevano le ragazze
e, se loro non avevano qualcosa in contrario, avrebbe continuato a voler loro
bene.
Il pranzo avvenne lo stesso. Enrichetta aveva messo sul tavolo la
tovaglia del giorno di Natale che teneva via nel cassettone da quando aveva il
marito. Giuliano e Annunciata erano faccia a faccia e le ragazze occupavano il
resto del tavolo, lasciando alla mamma il posto vicino al fuoco per essere più
alla mano con la pentola, nella quale bolliva la minestra, e con la stoviglia
dove coceva, adagio adagio, un pezzo di stufato alla lombarda, stato preparato
da Giuliano. Egli aveva una vera passione per lo stufato, specialmente se vi
aveva messo il suo zampino.
Egli diceva all'Annunciata, tagliando il pane, che ci sarebbe voluto un
po' di scuola per la cucina delle nostre donne, che cocevano i piatti tutti a
un modo. Era una delle ragioni per cui gli uomini preferivano, spesso, un
piatto all'osteria. Lo stufato, a metterlo in tavola come un boccone da far
rivivere i morti, era uno studio. Lui non l'aveva mica fatto come si doveva,
perché gliene era mancato il tempo. Ma non poteva essere cattivo. Aveva fatto
rosolare la cipolla fino all'indoratura nella grascia fresca, stiacciata con la
gobba del cucchiaio, e il manzo lo aveva infarcito di bullette di garofano, di
spicchi d'aglio e di lardelli. Poi lo aveva lasciato marinare in un mezzo bicchiere
di vino di Piemonte, con del pepe, dei chiovi di garofano, del sale, della noce
moscata, dell'aglio pesto e del prezzemolo trito. E prima di uscire aveva
raccomandato alla mamma di versargli sopra, a mezza cottura, qualche altro
bicchiere di vino rosso del Gianmaria per dargli del gusto, e di mantenergli un
fuoco coperto di cenere, con una bollitura che non doveva essere più di
un'agonia. Prima della minestra che borbottava, si incominciò con una fetta di
salame in mano, perché erano tutti d'accordo che non valeva la pena di untare i
piatti. Annunciata faceva lo stesso in casa sua. Tanto più che lavava già
troppo in settimana per procurarsi la noia di lavare le cose di cucina in
domenica. Adesso, veramente, gliele lavava la vecchierella del 74 della scala
C, una povera donna che tirava innanzi rendendo qualche servizio alle vicine.
La minestra era eccellente. Era di riso e fagioloni con le verze che
mollificavano lo stomaco e rinfrescavano il ventre. Senza minestra i ragazzi
ingialliscono come se avessero l'itterizia. Anche sua madre, buon'anima,
pensava che la minestra era la biada dell'uomo. E guai se la si mangiava senza
pane. Aveva il coraggio di darle un'orecchiata. Giuliano non negava la bontà
della minestra, ma lui aveva letto in un libro che era più nutriente la carne.
C'era un popolo, del quale non ricordava il paese, che non conosceva la
minestra e che era divenuto, per questo fatto, il più forte del mondo. I
cinesi, che si nutrivano di riso, erano soldati di straccio. La carne rinforza,
il riso indebolisce. Lui non era bevitore, perché un bicchiere di vino gli dava
subito alla testa. Ma gli piaceva vedere gli altri a bere. Annunciata beveva.
Era il suo mestiere che lo esigeva. Senza qualche bicchiere di vino non
avrebbe potuto resistere alla fatica, con le braccia nell'acqua tutto il giorno
e le ginocchia all'umido tutta la settimana. Adesso non lavorava più sola,
perché la biancheria che le mandavano dava da lavorare a cinque o sei donne.
Ma, se voleva che le cose andassero bene, non poteva voltar via un minuto. Le
sue avventizie erano buone donne che obbligavano la padrona a essere sempre
presente. Lei sapeva che, via la gatta, ballano i ratti. Sol ch'essa girasse la
testa dall'altra parte, invece di insaponare la biancheria e spazzolarla, la inzuppavano,
la sbattevano sulla pietra per fare del fracasso e la torcevano senza lavarla.
Al sabato bisognava pagarle, le «poste» si lamentavano e qualche volta
mandavano la lavandaia a quel paese.
Lo stufato aveva sollevato il bisbiglio della contentezza e Annunciata
si lasciava convincere da Giuliano di andare in seconda, perché lei non
si ricordava di averne mangiato di così appetitoso neppure all'osteria
dell'Olcello, l'anno scorso, al pranzo della sua amica che aveva preso marito.
Stracciava il pane a bocconi, lo immergeva nel succo del tondo premendovelo e
voltandovelo con la forchetta e se lo metteva in bocca con voluttà da
pacchiona. Mangiava forte perché era forte. A ventott'anni non sapeva ancora
che cosa fosse l'impedimento di stomaco. Mentre Giorgio, con tutti i suoi
denari, era sempre nelle mani del medico per farsi mandare giù quello che non
poteva digerire. Lei aveva finito per credere che il male dei signori era nella
mancanza di moto e nell'abbondanza. Avevano di tutto, provavano di
tutto, e non facevano due passi a piedi. Al loro posto sarebbe già crepata. Se
ne poteva vedere la differenza del sistema di vita guardando a loro. Erano a
tavola in nove e neanche Enrichetta, che aveva fatto sette figli sani come il
corallo, aveva mai patito la noia di un'indigestione. Giuliano assentiva. I
signori si curano troppo e con le porcherie che trangugiano s'indeboliscono la
macchina digestiva, che finisce per trovare pesante anche la frittura di
cervella imbrattata nel tuorlo d'uovo. I più ricchi dei suoi clienti erano in
quelle condizioni. Ce n'era uno che moriva via lentamente aspettando la voglia
di mangiare dalle polverine che ingollava ogni giorno.
Era il salsamentario di porta Magenta, Osnati, il quale, un tempo,
pareva un bonzone di salute. Ritiratosi dal negozio per godersi i frutti dei
suoi sudori, è diventato magro come un uscio. Ora, che ha tutti gli agi e che
si alza dal letto dopo il caffè e il giornale come i signori, è infelice perché
non può più mangiare come una volta. Chi è abituato alla vita attiva
intristisce nella poltroncina circondata di benessere.
I poveri invece soffrono del contrario. Non ne hanno mai abbastanza. In
tutto il casamento che conteneva, a dir poco, mille e cinquecento anime, non
c'erano forse che poche vecchie che avessero lo stomaco sdruscito.
— Il medico di Santa Corona — diceva Giuliano — spende poco per la
nostra digestione. Candida, metti sul fuoco un po' di legna, che tira un vento
birbone per la cappa. Senti che fracasso. Quando sbattono i vetri in questo
modo, c'è per aria un temporale.
Enrichetta non credeva. Tutte le volte che venivano giù buffate dal
camino si annunciava una disgrazia. Giuliano versava da bere e la pregava di
tacere, che non era serata da cattivi augurii. In casa tutti stavano bene e
Annunciata stava benissimo.
— Voialtri siete gente che crede in niente e io non vi ascolto. Il vento
non mi ha mai tradito. Due ore prima che il mio povero marito morisse, ho
sentito una trombonata per la cappa del camino che mi spense il fuoco. Quando
lo Zaccaria, sotto la nostra stanza, voltava gli occhi dall'altra parte, ci fu
per il camino il diavolo. Il vento andava su e giù e urlava come se fosse stato
indemoniato. Zaccaria era morto.
Annunciata vuotò il bicchiere come per darsi coraggio. L'esistenza degli
spiriti l'aveva sempre preoccupata. C'erano notti in cui si tirava la testa
sotto le coltri, perché le pareva di sentire o di vedere degli spettri che
andavano per la stanza o che giocavano con la biancheria appesa alla corda. Se
non avesse avuto ripugnanza per il legame a vita, si sarebbe maritata tante
volte dalla paura. Il fatto che stava per raccontare era vero, come era vero
che c'era la Madonna di Caravaggio che faceva tanti miracoli.
Era capitato a lei, che non sapeva cosa fosse la bugia. Alla vigilia di Natale
ella aveva l'abitudine di regalare qualche lira alle sue donne, perché le
piaceva che, in certe giornate che lavoravano sotto di lei, stessero allegre.
Si stava bevendo intorno al focolare un po' di vino come in quel
momento, con una fetta di panettone che le aveva portato la mattina il
prestinaio. Si chiacchierava del mestiere e si diceva che si sarebbe potuti
star meglio se non ci fossero state le lavanderie a vapore che lavoravano per
niente. Nessuna di loro supponeva che la cosa potesse durare, perché le
macchine sfilacciavano la biancheria e riducevano la tela sottile come la
carta. C'era l'oste dabbasso che le aveva fatto vedere delle tovaglie nuove di
cinque o sei settimane divenute delle ragnatele.
— Tuttavia — diceva Giuliano dondolando la testa — le macchine, creda,
avranno la biancheria. I vecchi ci raccontano che il vapore era odiato dai
vetturali e dai paesani che lo vedevano passare per la campagna come il
diavolo. Ma la gente non viaggia più in carrozza. Tra pochi anni lei vedrà che
il bucato, come è fatto oggi dalla lavandaia che va al fosso, non sarà più che
un ricordo.
— Può darsi. Io non morrò di fame lo stesso. Chi ha voglia di lavorare
trova sempre modo di mangiare.
Dopo una pausa ricominciò la storia degli spiriti. A mezzanotte diede
loro il loro dovuto con le buone feste e un bicchierino di rosolio che si
trovava sul tavolo tale e quale glielo aveva regalato il liquorista. Se n'erano
andate tutte. A pensarci le ritornavano i brividi. Se n'erano andate tutte...
Giuliano le versava da bere e le diceva che non bisognava credere a tutte le
fandonie, perché alcune volte queste storie erano il frutto dell'immaginazione.
Annunciata lo pregava di tacere perché su certi fatti non le piaceva
scherzare. Quello che narrava era vero come era vero che c'era la beata
Vergine. Se n'erano andate tutte e stava pensando di andarsene a letto senza
muoversi mai dalla scranna. Col freddo, ci s'impigrisce dinanzi al fuoco. Non
erano passati che due o tre minuti. Oh Dio! Le si doveva perdonare se non poteva
dire certe cose tutte in un fiato. Non erano forse passati due o tre minuti che
sentì un tremendo pugno cadere sull'armadio dei piatti che la fece saltare in
aria. Se ne ricordava come di una cosa avvenuta ieri sera. Scappò verso l'uscio
spaventata. Nel cortilone c'era ancora il viavai degli inquilini che si davano
le buone feste.
Riavutasi, guardò indietro. La lampada era ancora sul tavolo che buttava
in terra un asciugamano di luce bianca verso l'armadio. Tese l'orecchio con una
paura del diavolo. Credeva che qualcheduno si fosse nascosto sotto il letto.
Nessuno! A poco a poco si avvicinò all'armadio, pensando che il colpo non fosse
che nella sua testa o fosse l'effetto di qualche cosa caduta nella stanza di
sopra. Aperse l'armadio con un randello in mano per precauzione. Nessuno! Non
c'era che il disastro. Le tazzine erano precipitate sui piatti e tutti assieme
si erano rovesciati sulla zuppiera, sulle ampolline e sulle chicchere andate in
frantumi. Chi era stato? In casa non c'era persona. Saltò sulla sedia per
vedere se qualche peso fosse caduto sulla testa dell'armadio. Nulla. Chi era
stato? I piatti non potevano rompersi da soli. C'era stata una mano che aveva
fatto sussultare l'armadio? La mano di chi, se la casa era vuota? Di sua madre
che l'avvertiva di qualche sventura? Non lo sapeva. Forse era lo spirito del
suo bimbo che aveva strisciato sull'armadio per salutarla.
All'indomani, proprio nel giorno di Natale, l'infermiera dell'ospizio di
maternità andava a portarle la notizia che il suo Andreino di tre anni era
morto del male del gruppo.
— Crediate o non crediate, questo è vero come è vero che c'è la Madonna santissima. Era lo spirito del mio angioletto che strepitava in alto per dire addio
alla mamma prima di volare in cielo.
Ci fu un attimo di sosta. Il vento ruggiva per la gola del camino e il
fumo imperversava a buffate per la stanza. Tutti erano terrorizzati. Le ragazze
si rannicchiavano l'una nella spalla dell'altra, Enrichetta, violacea, si
faceva piccina sotto lo scialle a quadrettoni colorati, Giuliano
smetteva di ascoltare con quel suo sorriso negativo e Annunciata si asciugava
gli occhioni e singhiozzava piena d'ambascia. Le ripassavano per la mente i
suoi delitti materni e si struggeva. Andreino, vivo, sarebbe stata la sua
gioia. Il Signore non ha voluto vederla felice. Con lui non sarebbe più sola e
avrebbe la consolazione di vederselo alto come un ometto di dodici anni, pronto
a difendere la sua mammuccia se ce ne fosse stato bisogno. E dicendo queste
parole, nascondeva il viso irrorato in quello di Attuccia per non farsi vedere
a piangere come una disperata.
Bisognò aprire la finestra e l'uscio per non morire soffocati. Le rocche
dei camini, vedute dalla sedia, attraverso il largo della finestra, pareva
piegassero sotto la violenza del vento che fischiava, e i cenci appesi alle
funi, lungo i davanzali delle finestre, si sbattevano gli uni sugli altri e si
contorcevano seguendo la furia del'aria che passava a volumi. Il cielo si
sopraccaricava di nubi e, tramezzo a esse, tralucevano lampi che annunciavano
il temporale con dei boati spaventevoli.
Giuliano, trasecolato, non sapeva staccare gli occhi da quel torso
vigoroso di giovane piegato sulla bimba, dal quale usciva come un profumo di
carne viva.
— Beva, Annunciata.
Annunciata, cogli occhi letificati dalla tenerezza, prese il bicchiere e
lo vuotò di un fiato. Questo sfogo le faceva bene perché le diminuiva il peso
del rimorso. Non sapeva perdonarsi la crudeltà inconsapevole di avere deposto i
figli appena fatti senza un pensiero al mondo per il loro avvenire. Qualche
volta avrebbe volto consegnarsi alla giustizia per farsi punire.
— La mia scusa è nei miei anni. Non avevo alcun discernimento tra il
bene e il male. Credetelo, Giuliano. Il mondo mi crede più cattiva di quello
che sono. Darei il mio sangue per disfare il malfatto. I miei figli sono tutti
perduti. I primi due furono gettati nella ruota senza alcun segno. Erano
maschi, erano femmine? Non ve lo saprei dire. Mi scaricavo e li facevo portar
via. In allora avevo in orrore i bimbi che mi avevano obbligata per tanti mesi
a curvare la fronte dinanzi la gente sfacciata che mi guardava il ventre
grosso. Prima ancora che nascessero non avevo che un pensiero. Disfarmene,
disfarmene a ogni costo. La donna che li mise nella ruota doveva essere più
spietata di me. Non si curò di guardare né se erano vivi, né se erano morti. Li
adagiò su dei cenci, li ravvolse in un giornale, girò la ruota e andò a bere le
due lire che le avevo date. Sono stata più di una volta a cercare di loro. Ho
tentato di leggere negli occhi di tanti piccini, ho baciato dei visucci
che pareva mi assomigliassero, mi sono tirata sul seno parecchi di loro con dei
trasporti, ho fatto di tutto, di tutto per far parlare la voce del sangue e non
sono riuscita che a calmare il tumulto del cuore, col dubbio che mi invadeva la
persona. Quali erano i miei due o le mie due, se non sapevo esattamente neppure
l'anno della loro nascita e se i senza segni di quegli anni erano la
maggioranza?
Enrichetta chiamava Candida e Altaverde che giocavano sul pianerottolo
con le bimbe in mezzo al vento che passava sibilando.
— Venite in casa che fa freddo!
Annunciata accarezzava la lunga capigliatura di Altaverde coi sospiri di
una donna che soffre e si fermava a baciare la nuca della ragazza, che la
lasciava fare.
— Se sarai buona, ti terrò a cresima.
Essa non aveva nessuno al mondo e disperava che il Signore volesse
concederle la grazia di avere un altro bimbo.
— Nevvero che me la lascerete tenere a cresima?
La madre interrogava cogli occhi gli occhi del figlio e assentiva con la
testa.
— Sarebbe una fortuna — disse Giuliano — che Altaverde fosse tenuta a
cresima da lei: ringraziala.
Annunciata la ribaciò con effusione. Voleva vestirla come una madonna.
Con una bella veste candida, coi nastri lunghi di seta puntati alla spalla, con
dei gigli tra i capelli, con un velo di neve giù lungo per la schiena, con un
«ricordami» d'oro al collo, con dei guanti bianchi come il latte, con un
sottanino dalla balzana insaldata, con la camicia a grandi fiorami, con le
calze lunghe fino al ginocchio e con gli stivaletti dal fiocchetto dinanzi che
le dovevano stare a meraviglia.
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