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Paolo Valera
La folla

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Il corridoio dell'abitazione degli Altieri era occupato da altre sette famiglie, uscio contro uscio, l'una più pitocca dell'altra. Quella del barbiere aveva dei momenti terribili. Il padre, che non sapeva lavorare di lunedì, aveva finito per essere a spasso tutto l'anno, salvo le giornate in cui lo si chiamava a sostituire qualche ammalato o a lavorare in una domenica straordinaria in una delle tante botteghe all'estremità dei sobborghi. Ultimamente non lo si voleva neppur più ove si sbarbava la pelle dura per cinque centesimi, perché la sua mano tremava e radeva spruzzando le guance di sangue. Sua moglie, di patimento in patimento, non era ormai che una carcassa che mangiava irregolarmente e trovava a stento qualche servizio di cucina e qualche soldo. Il figlio era la sua tribolazione. O era in prigione, come quello della 74 del blocco B, o lo si cercava. Più di una volta si rimproverava di aver partorito un ladro. Rubava dappertutto, anche in casa sua, dove non c'erano più che quattro chiodi e un pagliericcio fetente sui cavalletti di legno. Quando non era in prigione e lo correggeva per il suo bene, le si rivoltava come una iena molestata durante il pasto e la picchiava senza pietà per le sue ossa in disordine. La moglie dello straccivendolo in faccia usciva con lo zoccolo in mano per rompere la testa a quel porcone che trattava la madre a schiaffi. Gli diceva che Iddio lo avrebbe punito a maltrattare i genitori in quel modo. Ma lui le rispondeva tirando una correggia con la bocca e minacciandola col piede in alto.

— Questo è per voi, se mi seccate!

La figlia non era un modello di sommissione. Aveva tredici anni e accusava la povera donna di vivere alle sue spalle. Le sue tre lire alla settimana che guadagnava nella fabbrica di tessitura erano quelle che tenevano in piedi la casa, e, senza di lei, sarebbero tutti sulla strada a soffiarsi sulle dita, e alla sera, andrebbero a letto senza cena.

E se ne andava dove voleva, sbattendo l'uscio con violenza e dicendo che un giorno o l'altro li avrebbe piantati, perché ne aveva piena la cuffia di mantenere dei lazzaroni. La madre, divenuta il materasso dei figli, taceva come istupidita. Di sera, sola, senza pane, sedeva sul focolare spento per delle ore, e così, al buio, andava a sdraiarsi sul saccone lurido in terra da parecchi anni.

Di fronte al barbiere era lo straccivendolo, dal cui uscio scappava una puzza che dava le vertigini. Vivacchiava raccogliendo tutti i rifiuti. Si alzava quando il Casone era ancora addormentato, e usciva col suo sacco oleoso e il suo chiodo a uncino per non ritornare che a sera fatta. Raccoglieva brandelli d'abiti buttati giù dalle finestre, carta straccia e sporca scopata fuori con le immondizie, ossami scarnati e dimenticati dai cani, mozziconi di sigari, bottoni perduti, strisce di stoffa scolorata, retini di testa unti e bisunti, pezzi di cimosa disfatta, pezze di stoffa spelacchiata, croste di pane secco, ciabatte scoppiate, cappelli disorlati, sfondati, gualciti, incrostati di trasudazioni, bottiglie e piatti rotti, impagliature di fiaschi e manate di capelli di donna ch'egli vendeva al parrucchiere sul corso.

Gli angoli della sua stanza erano ammucchiati di tutte le porcherie ch'egli raccattava per la strada e che sua figlia, la Tencia, cerniva e separava per la vendita. D'estate, col caldo, si era come in mezzo all'infezione. D'inverno, con la finestra e l'uscio chiusi, si sentivano i fetori tepidi della cloaca.

La masserizia consisteva in un pagliericcio sui cavalletti di legno, in tre o quattro seggiole che perdevano le budella, in un fusto d'ombrello coi bacchettoni di legno che slargavano del cotone mezzo marcito dall'acqua piovana, in un tavolo zoppo e reso concavo dalle raspature fatte con il coltello, in due laveggi sfaldellati, in una lucernetta a olio e in una vecchia cogoma di latta per il fondo di caffè che la moglie faceva bollire e ribollire senza mai trovarlo cattivo. La miseria non era per loro ragione di discordia. Accettavano le cose senza lamentarsi, mangiavano quello che avevano e pagavano l'affitto puntualmente per la previdenza che avevano di mettere da parte trenta centesimi al giorno.

Il naufragio era rappresentato dall'Agata Maddaloni, la donna più feconda del cortilone. In otto anni aveva avuto undici figli, compreso un settimino e un doppio parto di gemelli. Era tarchiata, con dei fianchi spettacolosi e delle braccia che sollevavano ancora il vespaio in un cervello di facchino. Lavorava in giornata nella cucina del Gianmaria a pulire piatti e a tenere le posate sempre d'argento e il rame sempre d'oro come voleva il padrone. I suoi parti la infastidivano solo perché giurava tutti gli anni che non voleva più figli. Si sgravava a mezzanotte, dopo che aveva sgobbato tutto il giorno, e alla mattina, alle sei, era in piedi come gli altri giorni, dandosi del coraggio con un grappino che le portava la vicina dopo il suo uscio. Diceva che erano delle smorfiose le donne che stavano in letto a consumare le lenzuola per far sapere al vicinato che avevano avuto dei bimbi. Se fosse toccato loro mantenere tanti marmocchi non avrebbero potuto stare col culone in letto tanto tempo. La Maddaloni era forte, con una testa piena di capelli neri spettinati e un faccione carnoso che mostrava delle mandibole enormi. Se i figli la facevano andare in bestia, non ci metteva su né sale, né pepe. Tirava loro su le sottane o sbottonava i calzoni e faceva loro venir le culatte rosse. Amava il marito a suo modo. A volte veniva a casa con un piatto di carne avanzaticcia e un boccale di vino che le aveva dato di nascosto il garzone di cantina e sedeva a tavola col suo uomo, dando ai figli dei pezzi di pane con le fibrille del loro piatto. E a volte, al sabato, quando egli veniva a casa coi soli spiccioli della settimana, gli assestava dei pugni sodi sulla faccia o gli rompeva la scranna sulla testa con una sola mano. Gli diceva ch'era una canagliata andare a zonzo a sbevazzare con una nidiata di ragazzi in casa che aspettavano di mettere in castello. Se gli piaceva la bella vita di andare per gli acquavitai, doveva stare solo e non andare a romperle le scatole. Ch'essa di uomini ne aveva fin che ne voleva. Il brutto venne quando il Maddaloni le andò a casa ciucco come un animale, licenziato dal padrone. La moglie gli andò incontro con dei ceffoni che echeggiavano e riecheggiavano lungo le altre abitazioni del budello. A ogni strappata di giacca gliene portava via una parte e tutte le volte che egli tentava di parlare gli faceva rientrare le parole con sberlotti che gli insanguinavano la bocca. La piccineria, spaventata, le andava intorno piangendo e chiamandola. Ma quando era infuriata, Agata non sentiva più niente. Si sbarazzava dei fanciulli, rovesciando gli uni addosso agli altri, e continuava a menare man rovesci sul faccione del marito. I vicini, impauriti dalle grida, andavano all'uscio dicendole di aver pazienza, che di padroni ce n'erano degli altri in una città grande come questa. Le loro parole la irritavano e le facevano alzare il braccio che li metteva in fuga. Il suo uomo era il suo uomo, e quando il suo uomo commetteva delle birbanterie la moglie aveva il diritto di rompergli i connotati. E finiva invece per rompergli la testa con un colpo di sgabello.

A poco a poco discesero sull'ultimo gradino della fame senza soccorso. Il Gianmaria, stufo di aver in casa una riottosa che tirava nella schiena i piatti alla gente di cucina, la mandò a spasso con le belle maniere, dandole a intendere che era una buona donna, ma che non faceva più per la sua osteria. Con undici figli tutti vivi il quadro divenne straziante. In una settimana furono obbligati a vendere il superfluo e il necessario. Non avevano potuto tenersi in casa neppure la lampaduccia a olio che non valeva due soldi. Alle volte i vicini davano alle fanciulle e ai ragazzi qualche fetta di polenta o una tazzina di minestra per compassione, e la Enrichetta mandava loro, dalla Ginevra o dalla Bianca, una rotella di mistura quasi tutte le mattine. Il delegato della carità pubblica, che aveva dovuto fare il callo ai quadri piangevoli, metteva loro sul tavolo un paio di lire, ripetendo che ce le metteva della sua saccoccia. Dovevano pensare a trovarsi del lavoro, perché di poveri ce n'erano degli altri. Il marito aveva bussato a tutti gli usci. Ma era così stracciato che faceva paura. Lo si vedeva e lo si mandava via con dei no! secchi secchi. Disperato e scalcagnato andava alla sera in piazza Castello a prendere la scopa dello spazzino a ottanta centesimi per notte. La moglie, raccomandata dall'Enrichetta, faceva due o tre giornate dall'Annunciata, e anche queste per bontà sua, perché essa aveva le sue donne fisse.

C'erano momenti in cui la madre di tanti figli non sapeva più dove dare la testa. E nei momenti lugubri Agata pensava a una catastrofe che chiamasse gente intorno alla sua famiglia, che non mangiava più se non a sbalzi delle fette di polenta o del pane nero che comperava dinanzi la caserma dei soldati. Pensava a un braciere di carbone. Ma il carbone costava del denaro. Una sera in cui il padre non era rientrato e i ragazzi piangevano l'uno addosso all'altro, un pensiero diabolico la istigava a buttarne uno dalla ringhiera per far sapere con una tragedia, che i suoi figli morivano di fame. Mezza pazza cercava tra loro quello che avrebbe dovuto sacrificare. Il più piccino, il maggiore, quella dai capelli biondi o quella dalle trecce nere? E il senso materno le saliva alla gola e le riempiva gli occhi e la obbligava a tirarseli intorno per dir loro di aver pazienza, che sarebbe andata a prendere il pane. Da vendere non c'era più nulla. Non dormivano più che su un mucchio di cenci e non si coprivano più che con le loro vesti stracciate. Si ravviò i capelli con delle spalmate di saliva, e così, come stava, con le zoccole ai piedi, andò sotto gli alberi di Sant'Ambrogio. Tornò a casa con tre libbre di pane e un po' di ritagli della tafferia del salumaio. La masturbazione esercitata dalla madre aveva impedito ai figli di coricarsi senza cena.

Il quarto uscio era occupato da una famiglia di decaduti. Il padre era stato furiere nell'esercito e si era ammogliato a quarant'anni, con una pensione di venticinque lire al mese e dei baffi chiari, che cominciavano a ingrigiare alle punte. Ritornato alla vita borghese, sposò una vecchia conoscenza che aveva dimenticato seguendo il reggimento in Sicilia. Un giorno si incontrarono sul marciapiede milanese e riallacciarono l'amicizia. Lui era a spasso, pieno della speranza che il primo impiego ministeriale vacante sarebbe stato suo. Lei era figlia della portinaia di casa Belgioioso e faceva la ricamatrice, guadagnando parecchie lire al giorno, perché poche ragazze potevano tener dietro al suo ago, dopo che le macchine avevano distrutto l'amore per i lavori a mano. Le sue cifre sui fazzoletti di batista dell'aristocrazia erano dei capolavori. Con delle sigle leggerissime che sentivano dell'altezzosità della classe per la quale erano fatte, sotto la corona di conte o di marchese, a colori intonati al blasone, il fazzoletto diventava il ricamo di una artista. C'era stato un tempo in cui si voleva che la Silvia mandasse i suoi lavori all'esposizione. Ma essa, cresciuta in una portine ria che pareva un ampio salotto, coi larghi cristalli che scintillavano nelle cornici di noce chiara, aveva aspirato l'aria dell'ambiente. Le andava più al cuore la gentilezza di un sorriso della nobiltà milanese, che l'applauso fragoroso della folla delle esposizioni, che non le avrebbe fatto scomparire le punzecchiature ai polpastrelli delle dita.

Coi capelli neri e bipartiti sulla fronte, col nasino regolare, con la bocca che non faceva sforzi per non sconciarsi, con la faccia di un pallore virginale, con il collo rotondo e biancheggiante fin sotto i capelli che folleggiavano, pareva la bella testa di una preraffaellita. Vestiva sempre di un colore severo, con le vesti che le andavano giù a piombo sopra le sottane floscie, e si teneva il busto chiuso fino alla fossetta della gola. Col corpo ben fatto, faceva dire alla gente che la sua sarta dipingeva. Portava alle dita due anelli semplici, d'oro massiccio, cosparsi alla fronte di brillantucci che facevano assieme un fuoco luminoso. Alla magistrale aveva imparato a parlare con qualche eleganza e a infarcire il linguaggio di qualche parola francese.

Credasapeva dire — che le iniziali disegnate in questo modo sarebbero très belles.

Suo padre, che era il guardaportone, e sua madre, che era la portinaia, non avevano bisogno dei suoi guadagni. Il padre grosso e grasso non aveva vizii, al l'infuori di bere una mezza bottiglia di barolino al Ghiaccio, quando i signori non erano a Milano, e la madre, con tutte le vesti che le portavano dabbasso le cameriere, non aveva bisogno di spendere un centesimo per la sua persona. Così Silvia metteva alla Cassa di Risparmio tutto ciò che producevano i suoi aghi preziosi, tranne i pochi denari che dedicava per il mese di campagna o per qualche settimana al mare.

Nessuno poteva dire nulla sul suo conto, perché nessuno sapeva dove passasse le sue ore fuori di portineria e perché nessuno l'aveva potuta intrattenere a fare dei pettegolezzi. Se le cameriere incominciavano il sottovoce, si ritirava con aria di annoiata sulla sedia di lavoro. Il martedì e il giovedì, dalle due alle sei, erano i giorni in cui faceva pensar male a tutta la servitù dei piani superiori. Andavano giù a cercarla l'una dopo l'altra e la madre non sapeva rispondere altro alle sguaiate se non che non poteva star molto a arrivare. E quando arrivava le maligne notavano che era tutta agitata, che aveva la faccia accesa, che aveva negli occhi la lussuria di chi ha goduto dell'abbraccio dell'uomo. Erano i momenti più felici della sua vita di operaia. Si sentiva più lieta, baciava la mamma a più riprese, rispondeva a tutti con grazia e le rideva nel pensiero un avvenire bugiardo che le mise due rughettine sulla fronte. Un giovine della nobiltà milanese, che l'aveva colta come un fiore appena sbocciato, la lasciava avvizzire nella portineria come erano avvizzite le prime rose del primo abbraccio.

A ventisette anni, con un romanzetto volgare che le aveva dato il disgusto della vita, la sua bellezza si era come indurita. Le dita di grande signora abituata al piano le erano diventate magroline e la mano, tutto assieme, pareva scarna. La pelle della faccia, pur restando fine come quella di una madonna colorita, aveva perduto della freschezza, e alla mattina era obbligata a strapparsi i capelli che le davano un'aria da zitellona.

Fu in questo periodo del tramonto che si incontrò col Vaselloni, un furiere che la perseguitava quando essa aveva in orrore la montura dei sottufficiali. Le parve di avere incontrato il suo giovine povero. Si commosse, si lasciò corteggiare e indurre a divenire sua moglie, malgrado i consigli dei genitori che le seguitavano a dire che i soldati, fuori di caserma, sono dei buoni a nulla che fanno la sventura delle donne che cadono nelle loro braccia.

Andò all'altare con settemila lire in contanti, oltre a un mucchio di biancheria, a una quantità di abiti e a una farraggine di regali che incominciavano coi gioielli e andavano via attraverso i pizzi, i merletti, i guanti, le gale, i fazzoletti di batista, le calze di seta e le camicie ricamate con una maestria che tendeva a uguagliare la sua. Lo sposo non le aveva regalato che il suo individuo nudo, perché anche gli abiti che indossava per la cerimonia erano stati pagati dalla Silvia. Ma le faceva il sommo regalo di portarla via dalla portineria che non poteva più soffrire. Era stufa di sentirsi chiamare figlia della portinaia. I suoi sentimenti aristocratici l'avevano fatta piangere su questa volgarità che le persone si compiacevano di ripetere con tanto piacere.

Il marito, con una adattabilità meravigliosa, si trovò in casa sua in poche ore. Alla mattina aveva l'abitudine di bere un grappino con l'erba ruta della bottiglia in casa e di uscire a fare una passeggiata col sigaro in bocca, fino dall'acquavitaio Ramassotti, in Santa Margherita, per offrirsi un cicchetto e fare quattro chiacchiere con gli amici. Ritornava a casa per l'ora della colazione che trovava in tavola, coloriva un po' di vita di caserma per darsi dell'importanza, e andava a spasso fino all'ora del pranzo. Senza mestiere, col solo bagaglio di una bella calligrafia e un'istruzione amministrativa che si fermava alla moltiplica o alla divisione, continuava a vivere dietro la chimera dell'impiego. Gli avevano detto che gli ex ufficiali e sottufficiali avevano la preferenza nei pubblici impieghi; così lui e la moglie vivevano tranquilli che un giorno o l'altro sarebbe loro capitato in casa il plico della nomina ministeriale. Il solo dubbio era sulla destinazione. Forse sarebbe toccato loro di andare in qualche parte d'Italia antipatica. Ma o prima o dopo sarebbero riusciti, con le sue protezioni, a mettere piede in Roma, la città dei Cesari, ove gli impiegati fanno carriera perché sono sempre sotto gli occhi dei ministri.

Aspettarono parecchi anni. I genitori di Silvia erano morti lasciandole quel poco che avevano. La famiglia era cresciuta. Silvia aveva avuto tre figli che le avevano fatto perdere in gran parte la clientela ricca che le mandava i fazzoletti da ricamare, e le sue mani, che incominciavano a tremare, stavano per farle perdere il resto. Il padre di Arturo, di Annibale e di Bice, in parecchi anni, non aveva saputo snidare che delle occupazioni momentanee di due o tre mesi, per delle mesate che non bastavano a pagare i suoi vizi personali. Nel '70, quand'egli diceva a tutti che se avesse avuto vent'anni di meno sarebbe andato in Francia a difendere la causa dell'ordine contro i petrolieri e le petroliere che davano il fuoco alla più grandiosa capitale del mondo, dovettero far sammichele e portare le loro carabattole nel cortilone, perché la malattia di petto di Silvia l'aveva tenuta su e giù dal letto per del tempo, senza mettere l'ago nei fazzoletti che di malavoglia e di tanto in tanto. Silvia non aveva mai rimpianto il malfatto. Al marito non aveva mai fatto un rimprovero. Lo lasciava fare come voleva, ascoltava pazientemente e con interesse le sue storie, che il tale gli aveva promesso di interessarsi del suo caso, scrivendone direttamente al ministro, e aspettava con lui, di anno in anno, con la stessa fede, la lettera di nomina col bollo ministeriale.

Silvia condensava il suo amore senza trasalimenti e senza trasporti nei figli. Non erano belli e non era diffusa sulla loro faccia la gagliardia militare del padre, ma erano buoni, docili, contenti come la madre di tutto ciò che si dava loro. Arturo era stato il più mal trattato dalla natura. Aveva l'aspetto di un uccello di rapina, con un naso rosso come quello di un beone, una bocca smisuratamente larga e una voce che segava i nervi. Il padre era qualche volta obbligato a dirgli di tacere se non lo si voleva costringere a uscire prima di fare la sua pipata nella radica che gli avevano regalato i suoi commilitoni. Annibale a dieci anni era gracile, aveva degli occhietti che parevano infossati e una fronte bassa bassa, come se appena nato gli avessero messo sulla calotta cranica un pietrone per impedirne lo sviluppo. Bice a nove anni aveva la faccia di dodici e un corpo che pareva un barilotto di carne. Non era in lei promessa alcuna di diventare una donna seducente. Aveva gli occhi che guardavano l'uno a destra e l'altro a sinistra, dei capelli rossicci pesanti e ruvidi e pareva che lo stomaco le avesse inghiottito il collo, tanto la testa era vicina alle spalle.

La ragazza aveva fatto le due classi elementari e i ragazzi erano stati in terza. Ma né i maschi né la femmina avevano portata via la voglia di leggere. La madre diceva loro spesso:

Leggete, ragazzi, che vi farà bene quando sarete grandi.

Ma i libri rimanevano chiusi e polverosi sul granito sporgente del camino.

Non li lasciò andare a bottega che proprio quando la casa non poteva più tirare innanzi. Ammalata, col marito che non aveva coraggio di voltarsi su le maniche, lasciò andare Bice con sul braccio lo scatolone della modista Bertelli della Galleria Vittorio Emanuele, Arturo a lavorare da un liquorista all'ingrosso e Annibale a correre per le vie coi pacchi da portare a domicilio della ditta di moda Altazzi. Tutti e tre raggranellavano cinque lire la settimana.

Il fitto di centoventi lire per la stanza a due finestre, veniva pagato con grande fatica e le buone abitudini di vivere bene erano state perdute a una a una. Era difficile che al loro desco domenicale si vedessero un po' di carne e un bicchiere di vino.

La stanza che veniva dopo la loro era occupata da una curiosa famiglia venuta da Cremona, la quale stava discendendo, a oncia a oncia, nel sottosuolo delle famiglie che mancano di tutto. Non erano dei decaduti come Achille Vaselloni, ma a Cremona avevano vissuto agiatamente. Il padre era un cuor d'oro e un simpaticone anche adesso che aveva dei baffotti brizzolati e la maggioranza dei capelli bianchi. Nella città del Torrazzo era conosciuto come l'erba bettonica. Bastava domandare di Alessandrino, il pancione, perché tutti vi mandassero in piazza, sotto i portici a destra, ove erano i suoi banchi allineati, tra una colonna e l'altra, dinanzi al Bottegone. Lo si chiamava il Bazar all'aria aperta. Erano filate di vetrine. C'erano vetrine di pettini, di spazzolini per i denti, di specchi tascabili, di rasoi per radersi la barba e portarsi via netti i calli, di spazzole di pelo nero per le scarpe e di setole bianche e colorate per gli abiti, di stringhe lunghe e rotonde per i busti femminili, di forcelle per i capelli da signora, di bijoutteria di similoro piena di cristalli fosforescenti, di allaccia guanti, di corni per sdrucciolare il piede nelle calzature eleganti, di profumeria, di ditali di metallo bianco e dorato, di aghi di tutte le gradazioni, di occhiali per i miopi e per i presbiti, di cavaturaccioli col manico d'avorio e di ferro bianco, di elastici a striscia larga e piccina e di altre cianfrusaglie che completano il negozio del venditore a prezzi varii.

Due volte la settimana lasciava sotto i portici la moglie e la figliuola e lui, con l'asino e il figliuolo, andava nei dintorni dell'alto e del basso Cremonese, carico di mercanzie, a servire i fittabili e i mercantelli di campagna, che lo aspettavano invariabilmente una volta al mese.

Usciva dal portone con l'alba e si metteva sulla strada di Pizzighettone sull'Adda o di Ostiano sull'Oglio o di Motta Baluffi sul Po, col suo asino che trottava via sollecitamente senza che lo si toccasse. Se Carluccio lo aizzava col legno, si impuntava sulle gambe e ragliava fino a quando andava il padrone a accarezzargli le nari che palpitavano di collera e a dirgli parole dolci come a un bimbo.

Brutto cagnaccio! Ti romperò le spalle io, se toccherai ancora questo mio povero Tonino, che è così buono, non è vero che sei buono?

E lo riavviava con un bacio sul muso. Tonino, contento, riprendeva il viaggio con maggior lena, dondolando il collo a destra e a sinistra per far sentire col dlin, dlan della campanuccia che il «masciader» era di passaggio.

D'inverno Alessandrino s'imbacuccava in un grande tabarro di panno nero che gli batteva sulle calcagna e gli teneva calde le orecchie col bavero di pelle di lontra, e d'estate gettava sulla cassa lunga il giacchettone di velluto smuntato col carniere gonfio di carta e cordicella per fare i pacchi della vendita, e seguiva, a piedi, dalla parte opposta alla polvere, il carrettone col coperchio a schiena alta, sommerso nel gran sole, sotto il cappellone di paglia a cono che gli ombreggiava i piedi, portando sull'orecchio, come un pivello, la paglia del virginia che fumava.

Le sue fermate erano ai grandi cascinali dei fittabili e nei paesucoli ove veniva annunciato dalle strida della ragazzaglia, che lo vedeva spuntare dal polverone bianco sollevato dai piedi del quadrupede e dalle ruote del veicolo. Egli appariva tra la gente di campagna, con la sua bella faccia bianca e rossa di salute, come un amico aspettato. Dopo un buon raccolto non c'era donna che non avesse qualche cosa da comperare dal «masciader» e che non saldasse il conto se aveva qualche arretrato. Vendeva loro un mucchio di roba. Vendeva delle matasse di cotone e di lana per fare le calze, dei fusi col cappelletto a colori vivaci, dei fazzoletti di shirting, dei cashmirs fiammeggianti per la testa e il seno delle donne, delle braccia di cotone e di percallo e di lana per le vesti, dei veli neri e bianchi lunghi, che mandavano in chiesa le contadine come tante madonne, dei grembiali azzurri o a bollicine chiassose sul fondo chiaro, che illeggiadrivano le ragazze di domenica, degli anelli d'argento col Cristo spirante sul cerchio a crocifisso, dei foulards da collo, delle borse di tabacco per gli uomini e dei mezzi guanti di pizzo nero per le mani femminili e per le grandi domeniche in cui ognuna si metteva indosso la roba più bella del cassettone.

Vendeva chiacchierando come un mercante che via senza contrattare, non badando che a tener da conto la clientela. La vecchia, che stiracchiava sul prezzo, la lasciava senza risposta. Lui si contentava di vivere, ma non poteva dar via la merce sotto il costo con una famiglia da mantenere. A chi non faceva comodo di pagar subito, metteva gli oggetti sulle braccia dicendo che non faceva bisogno di parlarne. Non si conoscevano da tempo per niente. Le giornate diventavano bige anche col sole rutilante, se il raccolto era andato a male. Se la tempesta aveva rovesciato il frumento che biondeggiava sulle spighe o distrutto in una nottata il grano che manteneva il pane tutto l'anno, la gente non aveva voglia di comperare o comperava a credito, lesinando i centesimi. In tempi grami, Alessandrino rifaceva la strada di sera, dicendo uh! al ronzino, che andava via stracco col muso tra le gambe, come se fosse stato consapevole della brutta giornata che aveva fatto il padrone, e rimestava i pensieri che aveva sentito tra i paesani, i quali si lamentavano che Iddio li avesse puniti in un modo che pareva una vendetta divina. Arare, seminare, potare per dei mesi, guardando continuamente in cielo e pregando notte e giorno il Signore di essere buono e di permettere loro di mietere il frutto bagnato dal loro sudore, e poi, con la falce della messe in mano, sentire la grandine infierire sui covoni, sulle pannocchie alte e sui grappoli che maturavano e vedersi sfrondare i gelsi che dovevano mantenere i bachi fino al bosco, era una crudeltà che non capiva neppure Alessandrino, che adorava il Signore Iddio in ginocchio, nel luogo sacro, con la fronte umiliata al suolo e le mani unite.

La coltura a irrigazione, nell'alto e nel basso Cremonese, andava allargando la disorganizzazione della grande comunanza patriarcale composta di famiglie, e gli effetti se ne sentivano in tutte le manifestazioni della vita contadinesca. Irrigando i prati per l'allevamento del bestiame, il proprietario di terre inaugurava l'espulsione lenta e inavvertita del contadino, che rivoltava lo stesso fondo di generazione in generazione. Con la sciagurata innovazione che distruggeva la campagna a coltura intensiva, c'erano gli uragani e le siccità che devastavano i campi e indebitavano migliaia di famiglie abituate alla prosperità senza quattrini anche nelle stagioni perverse. Alessandrino, il pancione, ritornava dai suoi giri come un cane frustato a più riprese dalla crudeltà del padrone. Passava dai cascinali senza che una donna gli prendesse cinque centesimi di refe o un mazzetto di aghi da calze. Le donne gli facevano segno da lontano di tirar dritto che non avevano bisogno di niente. I bigatti, che non avevano voluto andare al bosco, aggiungevano disperazione alla disperazione. Dopo averli fatti nascere con tante precauzioni, averli veduti ingrossare dalla prima alla seconda e alla terza dormita, avere faticato giorno e notte in un lavoro febbrile, spogliando alberi, cambiando letti, mantenendo la temperatura raccomandata dal padrone, piantando boschi per rendere facile alle bestioline la salita, cadevano morti ai piedi delle ascensioni come se un alito pestifero avesse attraversato le bigattiere. Erano dolori che Alessandrino capiva, perché anche lui pativa della stessa malannata del contadino. Se il paesano impoveriva, il girovago andava alla malora. Era una verità così lampante che non ammetteva discussione. Con una buona vendemmia e un raccolto abbondante lui rincasava contento come una pasqua. Invece, da un pezzo, ritornava a Cremona col temporale nella testa. L'ultimo viaggio fu quando gli cadde l'asino sullo stradone di Vescovato, più morto che vivo, mentre gli rimanevano ancora dieci chilometri da fare per vedere il Torrazzo. Ne rimase impressionatissimo. La gente, che una volta gli andava incontro coi denari in mano, ora lo fuggiva per non sentirsi domandare i quattrini. Gli era toccato di vedere delle cape di casa, che negli anni passati si sarebbero bruciata la mano piuttosto che imbrogliarlo, divenire irreperibili non appena arrivava e domandava di loro per chiudere la partita. I suoi crediti gli erano diventati dei debiti. Andava attorno, si straccava, scolorava la mercanzia con la polvere che raccoglieva lungo gli stradoni, ammazzava l'asino e rifaceva il cammino bestemmiando di non volerne più sapere della campagna che non era più campagna.

Cremona diventava peggio. Le nuove generazioni avevano vergogna di comperare ai quattro venti, come avevano fatto per tanti secoli i loro genitori. I nuovi venuti preferivano la bottega, a costo di pagare il doppio di quello che si pagava al suo banco. E se si andava da lui era per farlo impazzire. Un temperino a due lame, che una volta pagavano due lire con dei grazie, ora lo trovavano caro a ottanta centesimi. Le famiglie cospicue, che mandavano di solito a prendere il lucido, si erano stancate, perché le serve dicevano che il suo lucido imbrattava le scarpe. E dava loro del Girard bello e buono, come quello di tutti gli anni, che riceveva direttamente da Parigi. Gli zolfanelli che mandava a grosse a tutti i tabaccai, e a scatole alle case signorili, erano diventati, per i suoi avventori, zolfini che parevano stati nell'acqua. Dicevano che ce ne voleva un cavagno per accendere il fuoco. E tuttavia erano della stessa ditta Medici, che inviava fiammiferi a mezzo mondo. Il bazar del tutto a una lira, il quale occupava otto botteghe illuminate a gas, aveva finito per rovinarlo. Chi andava da lui sceglieva e sbatteva nella vetrina ogni cosa non appena ne sentiva il prezzo. Gli si rispondeva che ce n'erano dei più belli per una lira al grande bazar!

Questo modo di bloccargli la via all'esistenza alterò il suo carattere di bonario e gli mise in capo l'idea che a Cremona, dove era nato e ove aveva fatto tanto bene, lo si odiava. Guardava attorno, e gli pareva di vedere i nemici che aspettassero la sua caduta. Passeggiava, e sentiva che le pietre gli scottavano i piedi. Lo salutavano, e scorgeva nel saluto la gioia di vederlo avviato alla casa dei pitocchi. Andava a quintinare per farsi passare il crepacuore e per dimenticare che a Cremona c'era tanta gente perversa, e leggeva su tutte le facce la delizia della gente che indovinava che aveva poco da bere. Alla sera, a cena, batteva i pugni sul tavolo e giurava che un giorno o l'altro avrebbe venduto tutto e dato un addio alla città che gli aveva voltato le spalle. Non aveva che cinquantadue anni ed era un uomo industrioso che aveva sempre saputo come tenere in piedi la famiglia. A Milano c'era posto per tutti coloro che avevano voglia di lavorare. E un bel giorno mise tutto all'asta, pagò a tutti fin l'ultimo centesimo, perché non voleva che si dicesse che Alessandrino, il pancione, era un malpaga, e con la moglie e i due figli prese il treno per la capitale lombarda, ove vanno a finire tutti i battuti degli altri siti.

Gli rincresceva di avere venduto l'Antonino, proprio quando l'aveva guarito dai pedicelli che gli avevano tormentato i piedi e lo avevano fatto cadere sullo stradone durante l'ultimo viaggio. Ma non poteva tirarsi a Milano una bocca inutile che bisognava nutrire. Lo aveva però venduto a condizione che potesse ricomperarlo se gli affari gli fossero andati bene.

Messo su casa con un po' di mobiglia che si era portato nella stanza del cortilone per spendere poco, trovò che la lotta per la vita non era meno aspra a Milano che a Cremona. Intorno, alla ricerca di un posto, trovava mucchi di disoccupati. Bussava e si sentiva rispondere di non seccare, che avevano del personale da vendere, o gli sbattevano sul naso dei no che gli ricacciavano in gola la preghiera. Si esibiva come fattorino e gli dicevano che cercavano dei fabbri o dei falegnami. I suoi capelli erano un ostacolo insuperabile. I padroni li vedevano volentieri come il fumo negli occhi. Voltavano via la faccia con disgusto e con alzate di spalle, come se un poveruomo maturo non avesse avuto diritto all'esistenza come un giovine. Qualche volta gli si faceva capire che i vecchi avrebbero dovuto scomparire. Vanno adagio, si alzano con dei malanni, ne hanno sempre una, e si straccano prima del tempo. In un grande studio notarile lo si sarebbe preso per sei lire la settimana se avesse conosciuto le vie della città come una guida. Dopo due mesi di ciabattamento riuscì ad allogarsi in una liquoreria che lo mandava in giro col carretto a portare a domicilio le ordinazioni per venticinque lire il mese, a patto che pagasse i vetri che avrebbe rotto. Le donne costano meno e trovano più facilmente. Ma la moglie di Alessandrino dovette correre delle giornate per entrare in una cucina come donna di grosso. Qui le si domandava il benservito, non la si voleva cogli zoccoli, altrove si esigeva che sapesse dare una mano alla stiratrice per passare i ferri sulla biancheria alla buona e per dare punti alla biancheria scucita o che si sfaceva. Marianna, l'ortolana, che si vedeva tutte le mattine questa povera donna dinanzi come un punto interrogativo, se ne commosse e la raccomandò tanto all'avvocato Tarquini, che al lunedì susseguente entrò al suo servizio per otto lire il mese e una tazzina di minestra al giorno. L'avvocato Tarquini era un democraticone che affiggeva il suo amore per il popolo anche sui muri. Diceva di vivere per i grandi ideali che dovevano redimere il genere umano e di sognare un governo di galantuomini. In casa però era taccagno. Era una lima e una lesina che faceva scappare tutte le serve. In ogni contarello vedeva la mano ladra che lo truffava di qualche centesimo sulla spesa. Dava un occhio a tutto ciò che si lasciava sulla tavola e rivedeva gli avanzi allo stesso posto con l'occhio sospettoso di chi non ha dimenticato le fette rimaste nel piatto. Dalla sua mensa non cadeva un osso da piluccare per la donna di servizio. Non gettava via mai nulla né di suo, né dei suoi. Un fazzoletto fatto in quattro poteva servire un giorno o l'altro per fasciare una ferita. Un paio di calzoni consumati e lucidi li faceva appendere nella guardaroba per tassellare la redingote quando si sarebbe stracciata. Le scarpe rotte le faceva mettere in solaio per poi venderle in blocco al calzolaio. Due dita di vino lasciate nel bicchiere da chi aveva bevuto abbastanza le rimetteva nella bottiglia per il pranzo del domani. La moglie di Alessandrino, il pancione, che non aveva mai servito e che in casa sua, a Cremona, non si lasciava andar via nessuno senza vuotare il boccale, passava di meraviglia in meraviglia e diceva a se stessa che i milanesi non erano tanto generosi come si diceva. Il marito l'avvertiva di pazientare perché gli edifici nuovi non si facevano su in un minuto. Loro erano degli estranei capitati in una città senza conoscenze, e dovevano fare il tirocinio come in tutti i mestieri. Il ragazzo intanto guadagnava più che a Cremona, dove guadagnava niente. Con cinque lire di capitale portava a casa una e cinquanta al giorno. Comperava tanti giornali e non smetteva di strillare fino a quando li aveva venduti tutti. Il posto per la ragazza sarebbe venuto fuori. Non si poteva fare tutto in una volta. Era un pezzo di giovanotta, forte come una quercia, che imparava le cose in pochi minuti, che sapeva leggere, scrivere, ricamare, cucire, rammendare, stirare e fare dei conti come una ragioniera.

Di anno in anno, ne passarono cinque, senza contare molte giornate di sole. Il padre, di dispiacere in dispiacere, aveva dovuto lasciare il posto per il letto dell'Ospedale maggiore, ove era andato a cercare il rifacimento dello stomaco sgretolato che non digeriva più neppure il pane bianco. A casa passava delle settimane senza toccare cibo, nella speranza, di mattina in mattina, di alzarsi con una gran voglia di mangiare. La moglie cercava di aiutarlo con l'olio di ricino che pulisce e vuota bene. Ma anche purgato e ripurgato l'appetito non gli si aguzzava. Si sentiva sempre la lingua grossa di uno strato di limaccio bianco e qualche volta, se apriva la bocca, dava l'idea di un buco di latrina di straccioni scoperchiata sotto il naso. Gli usciva un alito che lasciava credere che avesse lo stomaco purulento. L'inappetenza prolungata lo intristiva e lo rendeva misantropo. Evitava di parlare, fuggiva la gente come se avesse avuto paura di morsicarla e faceva tacere la moglie con un gesto di seccato quando gli diceva che il sacco vuoto non sta in piedi. Spesso credeva di avere la cassa dell'apparecchio digestivo piena di fumo. Si sentiva delle lunghe oppressioni che lo soffocavano e che lo facevano correre sulla ringhiera a tirare il fiato. Provava delle vertigini che lo obbligavano a prendersi nelle mani la testa per paura che gli andasse via. I digiuni prolungati lo scarnavano. La sua faccia diventava lunga, la sua fronte fuggente moltiplicava le rughe trasversali che davano il disegno d'una scalinata veduta da lontano in un quadro, e sotto i suoi occhi le vescichette vuote avevano invaso dell'altro spazio. Alcune settimane dopo, l'apparecchio riprendeva la sua funzione e Alessandrino, che aveva veduto scomparire, adagio adagio, il pancione, ringiovaniva, riprendeva il buon umore, inghiottiva fettone di polenta in un boccone e divorava baslotti di minestroni che tenevano il cucchiaio in piedi. Mangiava sempre con ingordigia, masticando male o ingoiando i bocconi intieri. Erano gli ultimi raggi di un sole languido che riscaldavano la sua esistenza angustiata. Pensava che non era nato per la vita cittadina. Abituato al moto, a respirare a pieni polmoni in piena campagna, a mangiare il cibo sano dei piccoli centri, a bere il nostranello che trepidava nel bicchiere, la vitaccia degli alveari umani gli diventava una prigione. Proprio quando incominciava a uscire dalla monotonia rabbiosa che lo rendeva insopportabile, la diabete ricominciava a limargli lo stomaco e a smagrarlo con dei digiuni interminabili. Allora era una pena. Vedeva voltare sulla tagliola il culo di polenta fumante e tirava degli sbadigli da slogarsi le mascelle. La minestra, anche se gli si diceva che gli avrebbe fatto bene, gli ripugnava. Il medico di Santa Corona, abituato a trovare sulla ringhiera di questi infelici che avevano in isfacelo le vie digerenti, non perdeva tempo a battere le loro costole con le nocche delle dita. Ordinava loro qualche pozione con del bismuto, convinto che per tutta quella gente non c'era più niente da fare. Diceva che andavano da lui quando era troppo tardi o quando, a volerli aiutare, bisognava ordinar loro di cambiare aria e di nutrirsi con dei brodi succulenti e della polpa di pollo e del vino buono e di seguire un regime di vita assolutamente regolare. Ci volevano dei ricostituenti e non delle medicine, se non volevano infiacchirsi l'organismo.

Alessandrino, che non voleva rassegnarsi a morire e che sognava ancora di ricostruire la sua famiglia col benessere, andò due volte all'ospedale. Ma tanto la prima che la seconda ritornò a casa più debole. Le lavature di stomaco lo lasciavano come dissanguato e non gli ridavano che un appetito da convalescente che non distingue più il sapore dei cibi. Mangiava e gli pareva di avere perduto il senso del gusto.

Ora era in letto macerato dalle astinenze, senza forza di alzare il braccio per tenere in mano una scodella. Incadaveriva a vista d'occhi e lo si vedeva con dei brividi. La testa gli si era come rimpicciolita e schiacciata alle pareti e i pochi capelli bianchi e lunghi, sparpagliati sul cuscino sporco, gli davano un'aria spettrale. La faccia non era più che un teschio coperto di pelle assecchita e stiracchiata fino alla punta del naso, un'ingrossatura dei pomelli crepati e escoriati e una moltitudine di pieghettine alle estremità della bocca rientrata come un «o» minuscolo. Intorno al collo non si vedeva più che l'intelaiatura dello scheletro. Le spalle avevano dei solchi nei quali si poteva sprofondare il pugno e la fossetta della gola era adimata con le ridondanze di pelle dell'uomo in fin di vita. Le braccia, che tirava fuori per rinfrescarle nei momenti in cui l'oppressione allo stomaco gli toglieva il respiro, parevano randelli articolati con delle sporgenze al gomito e al polso. Sulle mani senza vita risaltava la rete delle vene come se fossero state spellate e scarnate dal chirurgo. La magrezza del corpo era tutta disegnata sotto la coperta di cotone smunta. C'era più nulla del volume d'una volta. Non c'erano che i resti di un corpo stato consumato fino all'ultima oncia di carne.

La domenica in cui Enrichetta aveva avvertito il fumo che le soffiate di vento sbattevano nella stanza con collera, egli era morente. Rantolava dalla mattina e non apriva gli occhi che quando le sofferenze lo obbligavano a tentare di sollevarsi dal lenzuolo con degli «Oh Signore, fatemi morire!».

Il pranzo era finito e Giuliano era uscito con Candida, Altaverde e Annunciata a fare una passeggiata fino al dazio e la moglie di Alessandrino correva ancora per il prete, perché aveva paura che le volasse via da un momento all'altro senza i conforti della religione.

La povera donna in tutto il giorno non aveva fatto che piangere con dei singhiozzi che volevano romperle il petto. Senza il marito, che l'aveva amata per quarant'anni senza mai farle un torto, dividendo con lei la nocciuola se non ne aveva che una, rincorandola se le cose andavano di traverso, si sentiva mancare la terra sotto i piedi. La sua esistenza aveva compiuta la sua parabola con quella del marito e non aveva voglia di sopravvivergli. E così piangeva perdutamente, soffocando il dolore nel fazzoletto che si teneva alla bocca.

Don Paolo, grassotto, con un faccione d'uomo contento, era un prete patriotta che aveva patito sotto gli austriaci la noia di essere malvisto per le sue aspirazioni di volere un'Italia senza stranieri. Con i pezzi dello Stivale messi assieme, i suoi ideali si erano acquietati nella soddisfazione e faceva pancia senza occuparsi d'altre questioni politiche. Per lui il mondo non aveva più bisogno che di tenere da conto l'anima. D'indole buona, voleva bene alla sua parrocchia e ai suoi parrocchiani, i quali non mancavano mai di ricorrere a lui quando avevano dei dispiaceri di famiglia. Lo si poteva mandare a chiamare a tutte le ore, di giorno e di notte, quando era a pranzo e quando era in letto, senza irritarlo mai. Sabato aveva dovuto farsi in quattro. Gli era toccato di correre al Casone del Terraggio tre volte. A dare un'occhiata a una sua penitente, a portare il santissimo sacramento alla locandiera Peppina, ch'era andata all'altro mondo senza dire addio al marito in galera, a confessare Alessandrino, che stava male e che il medico aveva spedito dicendo che la scienza non poteva fare più nulla per lui.

Gli andò al letto in sottana, come un amico, facendogli coraggio e dicendogli che il sommo Iddio non abbandonava gli afflitti. Alessandrino girava gli occhi senza comprendere. Aveva già incominciato a perdere la conoscenza.

Raccontami i tuoi peccati; ricordati che sei sul punto di rendere l'anima a Dio.

Ma non ci fu verso. Sulla sua faccia passavano delle contrazioni come se stesse facendo uno sforzo per aprire la bocca. Allora don Paolo, senza disperarsi, lo considerò confessato.

— Abbia misericordia di te l'onnipotente Iddio, ti perdoni i tuoi peccati e ti guidi alla vita eterna. Con la autorità di Cristo ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo.

Verso le due il malato era più di che di qua. La madre avrebbe voluto che i figli fossero presenti. Ma Gustavino da parecchi mesi non si faceva più vivo. Milano ne aveva fatto un egoista. Egli non aveva più voluto lavorare per gli altri, come chiamava i suoi genitori. Diceva che il suo mestiere di giornalaio era matto. Dopo una giornata di cinque lire, attraversava una settimana intera per dei soldi. Non ne aveva dunque che per sé. Egli dormiva sulla locanda e non pensava ormai che a se stesso. Agostina, la figlia, era in campagna coi suoi signori e non c'era neanche modo di farle sapere che suo padre poteva morire da un momento all'altro. Essa scriveva tutti i mesi poche parole, inchiudendo le quindici lire della mesata e dicendo loro di star bene. La povera donna, intanto che pensava allo strazio di lasciarlo morire senza vedere i figliuoli, gli cambiava la camicia e gli distendeva sotto il mento il lenzuolo pulito per la comunione.

L'infermo sembrava inconscio. Aveva sovente degli scotimenti come se il suo spirito imperversasse nel suo corpo per trovarne l'uscita. La fronte gli si imperlava di sudore e la respirazione si andava facendo grossa e faticosa, senza che la moglie potesse alleviargli i patimenti. Impotente, la povera donna si lasciava cadere sulle ginocchia, sprofondando la faccia nella coperta e mettendo la mano sinistra sulla destra ghiacciata del marito, pregando, coi singhiozzi che rompevano il cuore, di non lasciarla in terra sola.

— Oh, Signore, fate la carità a una povera donna! Don Paolo entrò seguito dai fedeli e da parecchie donne del cortilone che non mancavano mai di dire una prece per il prossimo in agonia. C'era tra loro la Giovanna, quella che non poteva guardare i morti in faccia, la Luigia, che aveva scelto i numeri del lotto dinanzi il Tognazzo disteso sul letto, Margherita, la inquilina del 27, col suo scialletto che non le arrivava né da una parte né dall'altra; e la Pina, la moglie del calzolaio, con gli occhi che portavano i segni della brutalità del marito. Genuflesse, brontolavano le orazioni con le mani alla faccia chinata verso il suolo.

Pacedisse il sacerdote — a questa casa!

Si avvicinò al letto del moribondo, gli aprì l'occhio coll'indice e il pollice, come per vedere se fosse ancor vivo, prese il calice che gli porgeva il chierico e alzò l'ostia sacra.

— Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo!

Si volse verso l'ammalato col viatico in mano, dicendo tre volte:

Signore, non sono degno di ricevervi.

E con le ultime parole mise l'ostia immacolata sulla lingua del morente.

Alessandrino, perduto nell'incoscienza, già più nell'altro mondo che in questo, rimaneva con la lingua sul labbro inferiore, come se si fosse addormentato in quel momento. Il prete si fece dare un po' d'acqua e gliene versò sopra una goccia per aiutarlo a trangugiare il Signore, senza farlo toccare i denti. L'ostia, che si era appiccicata alla lingua, si sciolse in una poltiglia bianchiccia e a poco a poco scomparve.

Tutti lo credevano morto. Don Paolo stava per prendere l'asperges per dargli la benedizione, quando Alessandrino, con delle convulsioni che durarono un attimo, emise dei gemiti cavernosi che gelarono il sangue nelle vene degli astanti.

Non era morto, ma la fine non era lontana. Don Paolo ritornò poco dopo con la calotta a tre angoli e con la stola a dargli l'estrema unzione. Respirava con dei rantoli che impaurivano.

— L'aiuto nostro nel nome del Signore. La gente che era con lui rispose:

— Che ha fatto il cielo e la terra.

— Il Signore sia con voi.

— E nell'anima tua — risposero i fedeli.

Il prete riprese:

Reca, o Signore Gesù Cristo, in questa casa, l'eterna felicità, la divina prosperità, la serena letizia, la carità fruttuosa, la sempiterna salute; si allontani da questa casa il demone della colpa e la ricreino gli angeli della pace e nessuna discordia la disturbi. Signore, mostra a noi la grandezza del tuo nome, della tua bontà, della tua misericordia; liberaci da ogni colpa, da ogni timore e dona a noi la salute.

Le donne assentivano a tutto ciò che diceva il prete, ricominciando febbrilmente le preci e battendosi ripetutamente il petto, e il sacerdote guardava il soffitto, come per cercare l'inspirazione divina.

Il moribondo rovesciava gli occhi e con le mani increspava la coperta del letto come in un ultimo sforzo per non uscire dal mondo.

Don Paolo gli diede l'estrema unzione, ungendogli gli occhi, le orecchie, le nari, la bocca, le mani, i piedi e le reni.

— Per questa unzione santa e per sua piissima misericordia ti perdoni il Signore le colpe che hai commesse per mezzo degli occhi, delle orecchie, delle nari, della bocca, delle mani, dei piedi e delle reni.

Alessandrino pareva spento.

Siami, o Signore, la torre della mia fortezza contro il nemico dell'anima.

Nessun segno di vita.

Dammi, o Signore, la retribuzione secondo le mie opere. Fa il bene, o Signore, a quelli che ho danneggiati. Perdona, o Signore, quelli che mi hanno fatto del male.

Il polso pareva alle ultime oscillazioni. Egli era stato benedetto, le donne avevano biascicato molte orazioni, e il prete, come rapito dall'estasi mistica, diceva:

Esci, anima cristiana, da questo mondo in nome del Padre che ti creò, del Figlio che per te soffrì e dello Spirito Santo che ti ha santificata: in nome degli angeli e dei santi. Sia oggi la pace la tua dimora, e la tua casa sia la santa Sionne.

Il sacerdote gli prese la mano nelle mani, premendogliela dolcemente:

Dio di clemenza che cancelli le colpe, purificami di ogni pensiero e d'ogni parola, di ogni azione cattiva che nella vita mia abbia commesso. Se ho mancato ai miei doveri, se non ho obbedito la tua legge, se ho mancato di riverenza al fanciullo, se ho tradito la donna, se ho usato soperchierie, se ho negato la giustizia, se ho odiato e se ho tolto la roba altrui e calpestati i diritti degli altri, o Signore, perdonami, considera la mia fragilità, perdonami.

Il sacerdote, ispirato dalla eloquenza che gli usciva dal cuore, vedeva il cielo che si spalancava per ricevere l'anima del peccatore pentito.

Vanne, vanne, anima cristiana, da questo mondo, vanne pentita e speranzosa: ti aspettano Maria, gli angeli e i santi.

I singhiozzi salivano con le parole calde del prete e coi singulti della povera donna nell'angolo, che perdeva il suo bene.

Va, dopo avere sparse le lagrime nella notte cupa e tenebrosa, va alla sommità del monte, ovluce, calore, giocondità; ove Iddio stesso è la felicità. Entra nella eternità beata, per la quale, o anima cristiana, fosti creata.

Il morente tirò alcune fiatate aspre come una sega in moto, spalancando le labbra e ritraendo ingordamente la lingua fin sotto il velopendolo e rimanendo così senza vita. In un attimo egli era diventato orribile. Gli occhi gli si erano asciugati in modo, che non esisteva più nelle occhiaie che della materia nera, sulla quale pareva si fossero già posati i mosconi.

Le orecchie erano delle cartilagini gialle, i cui orli paonazzi piegavano su se stessi e la pelle screpolata del naso gli si era contratta, tenendogli aperta la bocca come un abisso spaventevole.

Il prete gli raccolse le mani e gli mise il crocifisso sul letto. La moglie piangeva come una disperata.

 




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