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Paolo Valera
La folla

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La famiglia che riassumeva tutto ciò che vi era di tragico e di deforme nel Casone era quella dell'indoratore Pietro Cristaboni, un satiro che arrivava all'orlo del tavolo se si rizzava sulla punta dei piedi. Rachitico nell'utero, era venuto al mondo un mostriciattolo, con delle protuberanze davanti e di dietro che gli si andarono sviluppando cogli anni, inghiottendogli il collo fino al di sopra della carotide, caratteristica dei denutriti della miseria. Con la testa enorme e mobile, con gli occhi bigi in fondo alle orbite sotto tettoie pelose, col naso orribilmente schiacciato alla radice, con le mascelle voluminose e le labbra turgide e scarlatte faceva scappare le donne dal ventre grosso. Era di una forza straordinaria. Con delle braccia lunghe e sproporzionate al corpo sapeva levare pesi enormi e contorcere, nei momenti bestiali, dei bastoni di ferro. Le dita si attaccavano alle carni delle sue vittime come tentacoli che stritolavano. A ventidue anni, con dei baffetti nerissimi, le cui punte attorcigliava con orgoglio, correva dietro a un'orlatrice di scarpe che rivaleggiava con lui in bruttezza. Era bassotta, con la fronte dalla pelle gualcita, con le palpebre scervellate e rossastre, e con una configurazione facciale scimmiesca. Era la cagna del cortilone. Chiunque poteva darle un pizzicotto o palpeggiarla dove voleva. Alla sera, col boccone in bocca della cena, andava sul bastione a giocare coi giovanotti delle fabbriche, che la sdraiavano sull'erba o la schiacciavano contro gli alberi, non suscitando in lei che le risate convulsive. Era così ripulsiva che nessuno, neppure la madre che la tirava grande a schiaffi e a pedate, sentiva il bisogno di proteggere la sua verginità dagli assalti maschili. L'indignazione era tutta per gli sporcaccioni che non avevano schifo di mettere le mani in un corpo marcioso come quello di Vittoria.

Pietro sentiva per lei una passione brutale di abbatterla in terra e saziarsi sul suo corpo. Più ella si ostinava a voltar via gli occhi e più lui le teneva dietro nelle ore libere con la tenacità del questurino. In sull'imbrunire l'aspettava sulla porta e la seguiva fingendo di andare pei fatti suoi, aspettandola dovunque poteva spiarla, sull'angolo della via o dietro un albero. Assisteva ai palpeggiamenti e alle colluttazioni con gli uomini, coi bramiti sordi della concupiscenza, coprendola di nomi ingiuriosi, chiamandola la troietta di tutti e giurando di impadronirsene non appena gli sarebbe venuta alla portata delle mani. Poi se la vedeva ripassare ancora imbrattata degli altri come una superbiona che gli avrebbe sputato in viso alla prima parola. Con la faccia terrea e le mani agitate la vedeva andar via vestita alla diavola, con delle vesti svanite che le cascavano giù dai fianchi che non aveva, a piedi nudi, col seno incipiente, ridendo a tutti, tranne che a Pietro, che odiava perché era orribile e che malediva perché la perseguitava da sei mesi.

Piuttosto che divenire sua mogliediceva alle amiche che la canzonavanopreferirei saltare nel tombone di San Marco!

Pietro lo sapeva e sapeva anche che si metteva in ridicolo l'idea del suo matrimonio. Ma lui non ascoltava nessuno e continuava a pedinarla, determinato a carpirsela come una preda, a farsela sua per diritto di conquista, a contenderla agli altri col suo pugno di ferro che spaccava i tavoli e frantumava le scranne. Non mancava che una goccia di vino per far traboccare la sua violenza. Quando era bevuto, non rimaneva di lui che l'animale feroce che sconquassa e che passa sul corpo di non importa chi. Una volta vuotò un'osteria con una semplice chiave. La menava alla cieca, senza badare se sdocchiava o se la sprofondava nella testa o se smascellava qualcuno. Rimasto solo, con la gente fuori che gridava aiuto, egli si mise a sfogarsi contro i vetri, scaraventando i bicchieri nelle finestre e adoperando un doppio litro per rompere i litri, passando dappertutto con la bava alla bocca e con gli occhi stralunati e iniettati di sangue, come una bufera che lascia dietro di sé il disastro della sua furia.

Il momento era venuto. Era una sera di maggio con l'aria tepida e col cielo che pareva un'immensa cupola chiara riflettente l'azzurro annacquato sulla popolazione della strada. Si distingueva una persona dalle altre assai meglio che di giorno. Pietro si era fatto sbarbare, aveva bevuto mezzo litro di trani e sfoggiava una cravatta di lana rossa che gli buttava una fiammata sulle guance livide. Vittoria era sul bastione, in mezzo a una frotta di giovani operai che passavano dalla luce nelle ombre del fogliame degli alberi, che la cingevano alla vita e le davano dei ganascini che la facevano trepidare con dei gridi che andavano nelle orecchie di Pietro come tanti spilli. Le stelle si illuminavano una dopo l'altra, popolando la distesa di gruppi che parevano centri di faville. Vittoria scompariva nella chiazza larga di un ippocastano affollato e fiorito e Pietro se la immaginava allungata sull'erba sotto il peso di un uomo che se la sgingottava tra le braccia. Gli calò sulle pupille una foscaggine che gli intetrò la scena svolgentesi sotto il largo fogliame che sussurrava alitato dall'arietta che rinfrescava la temperatura e, incalzato dalla gelosia, andò difilato, di corsa, verso il capannello, che si sciolse a gambe levate, e si gettò sulla donna come un cane rabbioso, morsicandola dappertutto e tappandole la bocca per impedirle di urlare come una scalmanata.

La fanciulla sorpresa rimase vinta. Si alzò come una smemorata, col corpo indolenzito dalle strette del gobbo, che le si era attorcigliato alla vita come un serpente. Il malefiziato in piedi, coi capelli sottosopra, cogli occhi che lampeggiavano di lussuria, si rifece il gruppo della cravatta rossa, si calcò il cappello sulla testa, le passò il braccio sotto il braccio e si avviarono verso casa senza scambiarsi una parola. Sull'angolo, Pietro, entrò dall'acquavitaio a bere un grappino, lasciando la ragazza sul marciapiede come una sbalordita che non aveva più volontà propria. Alla porta si separarono.

— A domani.

— A domani.

Non mancò mai agli appuntamenti. Col succedersi delle settimane i desideri di Pietro diventavano per Vittoria degli ordini imperativi. Non rideva più con alcuno, non guardava più in faccia ai giovinastri che conosceva e filava diritto per paura di sentirsi alla gola le mani che l'avrebbero strangolata come una gallina. La sera in cui le disse: «Domani andremo coi testimoni a prendere il consenso» la ragazza si limitò a rispondere che non aveva scarpe e che la settimana doveva darla alla mamma perché l'aveva mantenuta.

Il vicinato, vedendoli passare, faceva delle risatine di compassione o masticava parolacce contro una coppia che faceva partorire qualche mese prima le gravide che incontrava. Alcune donne non riuscivano a convincersi che ci fosse una legge divina che permettesse a un mostro come il gobbo e a una infelice come Vittoria di unirsi in matrimonio per produrre dei bimbi deformi come il padre o scrofolosi come la madre o orribili come i genitori. Ma la cosa era un fatto compiuto. Domenica scorsa don Paolo aveva annunciato ai devoti, tra le altre pubblicazioni, che Pietro Cristaboni, indoratore, di anni 26, e Vittoria Angelucci, orlatrice, di 18, intendevano contrarre tra di loro matrimonio. Bastò l'annuncio per sollevare il sussurro. Le donne e le ragazze che li conoscevano si facevano il segno della croce come per scongiurare una disgrazia. Ma don Paolo continuò l'annuncio, aggiungendo che chi sapesse correre tra questi contraenti qualche legittimo canonico impedimento, si ricordasse l'obbligo di denunciarli, ricordandosi pure che denunciando il falso incorreva in colpa mortale e nella pena della scomunica.

Il chiacchierio della folla femminile fu sul canonico impedimento. Non c'era bisogno di denunciarlo. Chiunque sapeva che erano due sgorbi umani che facevano vomitare a guardarli. Pietro poi era un gobbo pericoloso che si sarebbe dovuto incatenare in un manicomio. Era stato veduto dai vicini della sua ringhiera sbattere la madre violentemente sulla parete e tutti sapevano che era lui che l'aveva fatta crepare a botte e a spaventi. Una volta il bilanciere Antonio gliela strappò di mano tutta sanguinolenta. E per compenso, Antonio, s'ebbe una sgabellata sulla testa che lo lasciò in terra tramortito.

La loro casa di sposi non valeva venti soldi. L'avevano incominciata con dei cavalletti e un pagliericcio, un tavolo di tre lire con le due scranne e qualche stoviglia per la cucina, e non l'avevano migliorata lungo gli anni che con degli stracci. Anche se si era abituati ai cenci, chi dava una capatina nella loro stanza si sentiva umiliato di sapere che vi erano degli esseri che vivevano in tanta melma. Pareva un'abitazione di cani pitocchi. C'era della carta straccia e unta sul focolare, negli angoli e sotto il tavolo. Il letto era sempre sfatto e le lenzuola stracciate non si distinguevano dal colore della coperta. Le pareti erano piene di ditate del colore del caffè sporco. Dal soffitto a travicelli penzolavano le ragnatele che infittivano e si allungavano giù, di anno in anno, senza che la moglie sentisse il bisogno di romperle con un colpo di scopa. L'ammattonato era molle di cacherie, di sputacchi neri del masticatore di mozziconi raccolti per la strada, dei piedi che vi entravano infangati, e di tutta la miseria che cadeva dalle loro teste, dai loro corpi, dal loro tavolo e dal loro focolare. Il primo frutto della loro unione fu un piccino che fece meravigliare il vicinato. Era grassottello, con degli occhioni cilestri, dei capelli biondi, con la carne della faccia biancastra imporporata di un roseo piccante, con delle manine bianche come il latte. Il secondo fu una bimba vispa, con degli occhi fulvi come i capelli, con un nasino che si slargava alla base, e delle guance che in certe giornatone di sole fiorivano di salute. Alcune vicine si conciliavano coi genitori, che consideravano orribili, per avere l'opportunità di dare a quei monelli dei buffetti sul naso o delle mezz'once sul faccino.

Tre anni dopo ne nasceva un altro più leggiadro dei primi due senza destare alcuna meraviglia sulle ringhiere e sulle scale popolate di inquilini. Nel Casone si era abituati a dire che i ragazzi più belli uscivano dalle coppie più mostruose. Ma questa opinione per i figli dei Cristaboni non durò molto. La gente incominciava a vedere che era di loro come di quelle mele che hanno la pelle fresca e sana. I primi due invece di svilupparsi e crescere, si immiserivano, il primo rimanendo come era nato, il secondo ingrassando come se fosse stato affetto d'idropisia, senza allungarsi mai fuori. I bimbi degli altri camminavano e si rincorrevano già per i cortili con le manate di palta per snegrarsi la faccia e gridare a perdita di fiato. I bimbi dei due Cristaboni non sapevano stare in piedi e le gambe di entrambi si andavano arcuando come se le loro ossa fossero troppo pastose per non piegarsi sotto il peso del corpicino. Invecchiavano sculacciando per il pattume della casa e della scala, emettendo dei gridi sgarbati e mangiando quel diavolo che capitava loro tra le manucce. La madre, che doveva orlare anche nelle ore in cui avrebbe avuto diritto al riposo, lasciava che le cose andassero per la loro china senza tante preoccupazioni. Mentre si sgravava di altri due, Richetto e Gigi perdevano la fioritura, divenivano flosci e erano tormentati dalla dentizione che cresceva orribilmente. I denti uscivano dalle gengive aguzzi, addossati e irregolari. Sotto il mento avevano sovente dei gonfiori che l'olio d'amandorla non sapeva più distruggere. Ci voleva spesso la lancetta del chirurgo dell'ambulanza, la quale lasciava sempre della carne spellata e rossastra, con delle escrescenze lungo i tagli che commovevano le vicine fin nell'imo delle viscere. Il padre si era riversato tutto in Franceschino, un monello rachitico in fasce che lacerava i capezzoli della madre che gli dava il latte. A cinque anni era un demonio che percoteva i fratelli e le sorelle e alle volte tentava di rovesciarli nel fuoco. Giocando sulla ringhiera, portò fuori un occhio al figlio della 82 con un'unghiata. Più invecchiava e più si sviluppava in lui il genitore con la sua testa massiccia, coi suoi orecchioni fioriti di esantemi, coi suoi occhi illuminati dalla delinquenza, con l'ossatura della faccia voluminosa, con le esuberanze sullo stomaco e sulla schiena, con le mani che parevano artigli. Brutale come lui, rompeva le scodelle e buttava il coltello e la forchetta in faccia della madre, se lo seccava. Antonietta teneva più dalla madre. Con una faccia patita, con le palpebre arrovesciate, scrofolosa, esile, senza fianchi, coi piedi pesanti e piatti e con la spalla sinistra che le si deformava senza addolorarla. L'altra, l'ultima, aveva la testa piena di croste, la faccia piena di croste, con un'apertura ombilicale a sei anni, un piede contorto e uno stomaco che buttava su quasi tutto quello che mangiava.

Pietro, in mezzo a questo spettacolo tragico, rimaneva l'uomo di prima. Indifferente, crapulone, bestiale. Se aveva della grappa in corpo più del solito, prendeva la sua donna per le spalle e la calcava sulla parete, come se avesse voluto schiacciarvela, dandole calci nel ventre ogni qualvolta gridava per farlo sapere ai vicini.

 




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