Pareva proprio Natale. Fino dalle prime ore il sole
rovesciava la luce calda sui tetti e il vicinato era già tutto in piedi, cogli
usci spalancati, con l'allegria che andava di ringhiera in ringhiera, cogli
augurii che passavano di uscio in uscio, coi nomi degli intingoli che cuocevano
e disperdevano un odore che faceva mettere il dito in bocca a chi doveva
mangiarli. Da una parte e dall'altra c'erano vicini che uscivano con la
chicchera a far vedere a tutti che prendevano il caffè come i signori, versandoselo
sul piattino e bevendoselo con delle soffiate per raffreddarlo. Antonio,
l'epilettico, cui il cerusico Pinta aveva completamente guarito con le
scottature all'orlo delle orecchie e con i salassi che lo avevano dissanguato,
era sul gradino della casa, in manica di camicia, fregandosi le mani e dicendo
alla mamma di dargli la giacca, che voleva scendere a scaldarsi lo stomaco con
un bicchierino d'erba ruta. Il vecchio tintore del quarto piano, con le
sue mani screpolate da mezzo secolo, col cappello pieno di pugni e il gessino
in bocca, saliva con la corba piena di provvigioni, assicurando i vicini che
incontrava che voleva fare una spanciata di risotto con lo zafferano e la
cervellata che gli aveva regalato il salsamentario e con del buon vino da
cinquanta al litro. Giuditta, del terzo piano, blocco B, andava giù a portare
una fetta di panettone al povero Siliprandi, il quale si ostinava a credersi
inquilino del Casone, sdraiandosi tutte le notti nel cavo disotto la scala. Il
povero uomo le aveva dato l'anno scorso un ambo di quindici lire. Era seduto
come un pitocco, che faceva compassione. Gli amici che lo avevano conosciuto in
tempi migliori, lo compiangevano e gli regalavano un soldo, quando lo avevano.
Egli era in terra, ancora gelato della notte, col suo giubbone che perdeva i
fianchi, tutto pezzato e unto alle maniche, coi suoi calzoni sginocchiati, che
gli lasciavano scoperta parte della gamba, e con le sue scarpe sfondate che
riassumevano il padrone.
— Prendete, Siliprandi, che vi farà bene.
Non aveva voglia di mangiare. Era stracco, intirizzito, sporco fino ai
capelli. Per lui i giorni si assomigliavano. La notte prima aveva dormito come
le altre notti allo stesso posto. Lo mise in saccoccia senza pronunciare una
parola.
Gigia, la stiratrice dei sottufficiali, tutta in ghingheri, col pizzo
floscio e azzurrato giù dalle maniche del vestito marrone illustrato da miriadi
di piselli, con la farfalla d'oro dall'ali ingemmate sul nastro del collo,
andava agli usci delle amiche a dare le buone feste e a offrire un bicchierino
di alchermes che le aveva regalato un amico di casa.
— Bevilo, Carolina, che è buono. L'ho bevuto anch'io. Venite su,
Marianna, che ve ne darò un bicchierino. Avete fretta? Venite su, vi dico! Non
vi lasciate più vedere! So che non avete tempo da perdere, ma poi le amiche
sono le amiche. E Adalgisa? L'ho vista ieri l'altro in carrozza che pareva una
contessa.
— Portate qui una scranna.
Marianna si era ingrassata. Andava su dalle scale ansimando.
Era un'ortolana che aveva assunto un non so che di signorile. Indossava
un abito di bristol blu, con dei ricami ai lati della bottoniera del seno e,
sulle maniche, del pizzo lungo e incannettato alla Maria Stuarda. Le mani
grassottelle erano sempre un po' ruvide, perché continuava a tuffarle nell'acqua,
ma bianche come se le strofinasse col cold-cream e le tenesse inguantate
tutta notte. Gli anelloni alle orecchie le davano un'aria di popolana
arricchita e le facevano risaltare la candidezza del collo vigoroso. Due dei
tre anelli alle dita non li metteva che nelle giornate solenni, perché le erano
stati regalati dalla sua Adalgisa.
— Sì, la devo vedere oggi. Sta bene, grazie. Se pranzo con lei, oggi?
Può darsi. Ieri è stata qui a invitarmi. Ma a me rincresce sempre di andare in
mezzo ai signori. Si sa, loro parlano in un altro modo. Bentoni vuole
assolutamente che io passi le feste con loro. Adalgisa verrà a prendermi in
carrozza.
— A che ora? Mi piacerebbe vederla. Ci viene tanto di rado adesso nel
Casone! Si sa, non è più adatto per una persona come vostra figlia. Vi ho detto
che l'ho veduta l'altro ieri in carrozza che pareva una contessa. Indossava un
vestito scicche di panno cannella, con un giacchettino blu con bavero e
risvolti di lontra alle maniche. Il suo cappello alla Rembrandt, circondato da
una superba piuma di struzzo, le buttava sulla faccia una fierezza bruna che
innamorava. Sapete la novità, Marianna? Giorgio, il padrone di casa, sposa,
indovinate? Potreste cercare mille anni senza indovinare. Sposa un vaso comune.
Sposa Annunciata, proprio, com'è vero che sono viva. Voi potete credere o non
credere. Ma lui la sposerà senza il vostro consenso. Me lo ha detto Alfredo, il
violinista, che l'ha saputo da Giuliano, il materassaio, sapete, quello che sta
di sopra. Ma bisogna dir niente perché mi ha raccomandato il silenzio. Anche a
me pare impossibile che un padrone di casa, per quanto brutto come Giorgio,
possa sposarsi una lavandaia del fosso, che si è data a tutti coloro che
l'hanno voluta e che ha fatto tanti figli che nessuno sa più contare. È bella?
Come cento mila altre. È una trave di carne. Poverette noi, se diventasse la
nostra padrona di casa questa superbiona, che guarda d'alto in basso le altre,
come se fossero tante serve. Per me, già, me ne andrei all'indomani. Figuratevi
se vorrei vedermi in casa una donna come lei a domandarmi l'affitto! Rispetto
troppo me stessa.
A Marianna importava poco. Gli uomini sono matti. Nella sua vita ne
aveva viste parecchie di queste combinazioni. Fanno bene, hanno dei denari e
sfogano i loro capricci. Lei, uomo, farebbe lo stesso. Annunciata non le
piaceva affatto. Le era cordialmente antipatica. Ma capiva che ci fossero dei
libertini capaci di godere a voltolarsi in mezzo a tanta carne.
— Vengo! Vengo! Non si può stare tranquilla neppure nel dì delle feste.
Addio, se passate di là vi offrirò il rum del Gianmaria, che è buonissimo.
Eccomi, seccate! Una volta, alla festa, ci si lasciava in pace. Ora non c'è più
quiete neanche nelle feste di Natale. Il mondo va tutto all'incontrano.
La si chiamava per una manata di prezzemolo.
— Potevate prendervela, buona donna. Non ci conosciamo da oggi. Anche a
me piace essere onesta. Ma non si è disoneste quando si prende e lo si dice
alla prossima volta. Il prezzemolo poi non lo faccio mai pagare alle mie
avventore.
Martino, con la gola della camicia a punte inamidate, col surtout color
bottiglia, dalla cui tasca sul deretano pendeva la cocca del fazzoletto, con la
tuba bassotta dal pelo arrovesciato e lucido dalle pioggie, aveva l'abitudine
ogni anno di pagare il cicchetto di Natale agli amici che lavoravano nello
stesso spazio. Il suo cicchettaio era il Battistino sul ponte, l'omone che
buttava fuori gli ubbriachi a due a due.
— Buone feste, Paolino.
— Buone feste, Martino.
— Buone feste, Luraschi.
Con la stretta di mano si erano comunicata la notizia che stavano tutti
bene. Luraschi, il falegname, vestito di fustagno nuovo, sotto il cappellone
nero fresco ancora dell'anno scorso, era già stato in Duomo a sentire le tre
messe con la moglie e i figli e aveva già bevuto il rum caldo con loro in Santa
Margherita. Paolino, il chiavaiuolo, era in piedi dalle cinque, e aveva già
fatto il giro di parecchie botteghe. Lorenzo, il barbiere, diceva loro che un
bicchierino di grappa non faceva male. Lui, magari, ne aveva già vuotati
parecchi, perché era forte e ci s'era accostumato sino da quando era stato
tirolese coi tedeschi. Certo che bisognava stare attenti a farsi dare di quella
della bottiglia senza etichetta, che i liquoristi tengono dietro le altre per
gli avventori che sanno cosa bevono.
Egli diceva tutto questo nettandosi e rivoltandosi i baffi, con aria
marziale, col pettine lungo e chiaro piantato nei capelli folti al disopra
della spartizione a destra, con la salvietta frangiata sul braccio, aspettando
che Martino precedesse gli invitati.
Se nascesse un'altra volta non farebbe certamente il barbiere, un
mestiere birbone che lo obbligava a stare in gamba quando tutti gli altri,
compresi i prestinai, facevano baldoria! Un pubblico come il suo non lo si
trovava a farlo apposta. Un pubblico che lo lasciava lì magari tutta settimana
ad acchiappare le mosche e a guardare il soffitto, e che poi, in domenica,
nell'ora in cui si ama di andare fuori delle porte a fare una partita alle
bocce, andava in massa a farsi radere la barba per due miserabili soldi.
Se non fosse stato che bisognava mangiare per stare in piedi, avrebbe
strappato giù i piattelli più di una volta e dato un chiodo alla bottega. Il
chiavaiuolo lo pacificava assicurandolo che tutti i mestieri avevano qualche
guaio. Il suo, che non s'imparava che cogli anni, era dei più prepotenti. Un
signore o una signora, che perdeva la chiave di casa o della porta o la rompeva
nella toppa, non ammetteva l'indugio di un minuto. Bisognava smettere qualsiasi
lavoro, prendere i ferri del mestiere, tirar giù la serratura e in poche ore
ricomparire con la chiave o con le chiavi nuove. I mestieri sono mestieri, e
chi lavora diventa servitore del pubblico, che fa i comodi suoi. Non c'era da
dire. Faceva così anche lui. Se aveva bisogno di avere la faccia pulita in
domenica, non andava mica a trovare il parrucchiere in giovedì.
— Alla vostra salute.
— Tanti augurii.
— Buone feste.
— Speriamo di vederci l'anno venturo allo stesso posto.
— Speriamo.
Nella bottega del Battista era una nuvolaglia violacea che nascondeva
quasi interamente la vetrata delle bottiglie di liquori. La gente vi entrava
sgomitando e beveva urtata dall'andirivieni senza perdere terreno. Nell'angolo
erano le facce rosse e gli occhi alcolizzati degli individui che cantavano a
perdita di fiato:
Ciao, ciao, ciao
Morettina bella, ciao
prima di partire
un bacio ti voglio dare
un bacio alla mamma
due al papà
e cento alla Morettina
di baci ne voglio fare.
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