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Paolo Valera
La folla

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Pareva proprio Natale. Fino dalle prime ore il sole rovesciava la luce calda sui tetti e il vicinato era già tutto in piedi, cogli usci spalancati, con l'allegria che andava di ringhiera in ringhiera, cogli augurii che passavano di uscio in uscio, coi nomi degli intingoli che cuocevano e disperdevano un odore che faceva mettere il dito in bocca a chi doveva mangiarli. Da una parte e dall'altra c'erano vicini che uscivano con la chicchera a far vedere a tutti che prendevano il caffè come i signori, versandoselo sul piattino e bevendoselo con delle soffiate per raffreddarlo. Antonio, l'epilettico, cui il cerusico Pinta aveva completamente guarito con le scottature all'orlo delle orecchie e con i salassi che lo avevano dissanguato, era sul gradino della casa, in manica di camicia, fregandosi le mani e dicendo alla mamma di dargli la giacca, che voleva scendere a scaldarsi lo stomaco con un bicchierino d'erba ruta. Il vecchio tintore del quarto piano, con le sue mani screpolate da mezzo secolo, col cappello pieno di pugni e il gessino in bocca, saliva con la corba piena di provvigioni, assicurando i vicini che incontrava che voleva fare una spanciata di risotto con lo zafferano e la cervellata che gli aveva regalato il salsamentario e con del buon vino da cinquanta al litro. Giuditta, del terzo piano, blocco B, andava giù a portare una fetta di panettone al povero Siliprandi, il quale si ostinava a credersi inquilino del Casone, sdraiandosi tutte le notti nel cavo disotto la scala. Il povero uomo le aveva dato l'anno scorso un ambo di quindici lire. Era seduto come un pitocco, che faceva compassione. Gli amici che lo avevano conosciuto in tempi migliori, lo compiangevano e gli regalavano un soldo, quando lo avevano. Egli era in terra, ancora gelato della notte, col suo giubbone che perdeva i fianchi, tutto pezzato e unto alle maniche, coi suoi calzoni sginocchiati, che gli lasciavano scoperta parte della gamba, e con le sue scarpe sfondate che riassumevano il padrone.

Prendete, Siliprandi, che vi farà bene.

Non aveva voglia di mangiare. Era stracco, intirizzito, sporco fino ai capelli. Per lui i giorni si assomigliavano. La notte prima aveva dormito come le altre notti allo stesso posto. Lo mise in saccoccia senza pronunciare una parola.

Gigia, la stiratrice dei sottufficiali, tutta in ghingheri, col pizzo floscio e azzurrato giù dalle maniche del vestito marrone illustrato da miriadi di piselli, con la farfalla d'oro dall'ali ingemmate sul nastro del collo, andava agli usci delle amiche a dare le buone feste e a offrire un bicchierino di alchermes che le aveva regalato un amico di casa.

Bevilo, Carolina, che è buono. L'ho bevuto anch'io. Venite su, Marianna, che ve ne darò un bicchierino. Avete fretta? Venite su, vi dico! Non vi lasciate più vedere! So che non avete tempo da perdere, ma poi le amiche sono le amiche. E Adalgisa? L'ho vista ieri l'altro in carrozza che pareva una contessa.

Portate qui una scranna.

Marianna si era ingrassata. Andava su dalle scale ansimando.

Era un'ortolana che aveva assunto un non so che di signorile. Indossava un abito di bristol blu, con dei ricami ai lati della bottoniera del seno e, sulle maniche, del pizzo lungo e incannettato alla Maria Stuarda. Le mani grassottelle erano sempre un po' ruvide, perché continuava a tuffarle nell'acqua, ma bianche come se le strofinasse col cold-cream e le tenesse inguantate tutta notte. Gli anelloni alle orecchie le davano un'aria di popolana arricchita e le facevano risaltare la candidezza del collo vigoroso. Due dei tre anelli alle dita non li metteva che nelle giornate solenni, perché le erano stati regalati dalla sua Adalgisa.

— Sì, la devo vedere oggi. Sta bene, grazie. Se pranzo con lei, oggi? Può darsi. Ieri è stata qui a invitarmi. Ma a me rincresce sempre di andare in mezzo ai signori. Si sa, loro parlano in un altro modo. Bentoni vuole assolutamente che io passi le feste con loro. Adalgisa verrà a prendermi in carrozza.

— A che ora? Mi piacerebbe vederla. Ci viene tanto di rado adesso nel Casone! Si sa, non è più adatto per una persona come vostra figlia. Vi ho detto che l'ho veduta l'altro ieri in carrozza che pareva una contessa. Indossava un vestito scicche di panno cannella, con un giacchettino blu con bavero e risvolti di lontra alle maniche. Il suo cappello alla Rembrandt, circondato da una superba piuma di struzzo, le buttava sulla faccia una fierezza bruna che innamorava. Sapete la novità, Marianna? Giorgio, il padrone di casa, sposa, indovinate? Potreste cercare mille anni senza indovinare. Sposa un vaso comune. Sposa Annunciata, proprio, com'è vero che sono viva. Voi potete credere o non credere. Ma lui la sposerà senza il vostro consenso. Me lo ha detto Alfredo, il violinista, che l'ha saputo da Giuliano, il materassaio, sapete, quello che sta di sopra. Ma bisogna dir niente perché mi ha raccomandato il silenzio. Anche a me pare impossibile che un padrone di casa, per quanto brutto come Giorgio, possa sposarsi una lavandaia del fosso, che si è data a tutti coloro che l'hanno voluta e che ha fatto tanti figli che nessuno sa più contare. È bella? Come cento mila altre. È una trave di carne. Poverette noi, se diventasse la nostra padrona di casa questa superbiona, che guarda d'alto in basso le altre, come se fossero tante serve. Per me, già, me ne andrei all'indomani. Figuratevi se vorrei vedermi in casa una donna come lei a domandarmi l'affitto! Rispetto troppo me stessa.

A Marianna importava poco. Gli uomini sono matti. Nella sua vita ne aveva viste parecchie di queste combinazioni. Fanno bene, hanno dei denari e sfogano i loro capricci. Lei, uomo, farebbe lo stesso. Annunciata non le piaceva affatto. Le era cordialmente antipatica. Ma capiva che ci fossero dei libertini capaci di godere a voltolarsi in mezzo a tanta carne.

— Vengo! Vengo! Non si può stare tranquilla neppure nel delle feste. Addio, se passate di vi offrirò il rum del Gianmaria, che è buonissimo. Eccomi, seccate! Una volta, alla festa, ci si lasciava in pace. Ora non c'è più quiete neanche nelle feste di Natale. Il mondo va tutto all'incontrano.

La si chiamava per una manata di prezzemolo.

— Potevate prendervela, buona donna. Non ci conosciamo da oggi. Anche a me piace essere onesta. Ma non si è disoneste quando si prende e lo si dice alla prossima volta. Il prezzemolo poi non lo faccio mai pagare alle mie avventore.

Martino, con la gola della camicia a punte inamidate, col surtout color bottiglia, dalla cui tasca sul deretano pendeva la cocca del fazzoletto, con la tuba bassotta dal pelo arrovesciato e lucido dalle pioggie, aveva l'abitudine ogni anno di pagare il cicchetto di Natale agli amici che lavoravano nello stesso spazio. Il suo cicchettaio era il Battistino sul ponte, l'omone che buttava fuori gli ubbriachi a due a due.

Buone feste, Paolino.

Buone feste, Martino.

Buone feste, Luraschi.

Con la stretta di mano si erano comunicata la notizia che stavano tutti bene. Luraschi, il falegname, vestito di fustagno nuovo, sotto il cappellone nero fresco ancora dell'anno scorso, era già stato in Duomo a sentire le tre messe con la moglie e i figli e aveva già bevuto il rum caldo con loro in Santa Margherita. Paolino, il chiavaiuolo, era in piedi dalle cinque, e aveva già fatto il giro di parecchie botteghe. Lorenzo, il barbiere, diceva loro che un bicchierino di grappa non faceva male. Lui, magari, ne aveva già vuotati parecchi, perché era forte e ci s'era accostumato sino da quando era stato tirolese coi tedeschi. Certo che bisognava stare attenti a farsi dare di quella della bottiglia senza etichetta, che i liquoristi tengono dietro le altre per gli avventori che sanno cosa bevono.

Egli diceva tutto questo nettandosi e rivoltandosi i baffi, con aria marziale, col pettine lungo e chiaro piantato nei capelli folti al disopra della spartizione a destra, con la salvietta frangiata sul braccio, aspettando che Martino precedesse gli invitati.

Se nascesse un'altra volta non farebbe certamente il barbiere, un mestiere birbone che lo obbligava a stare in gamba quando tutti gli altri, compresi i prestinai, facevano baldoria! Un pubblico come il suo non lo si trovava a farlo apposta. Un pubblico che lo lasciava magari tutta settimana ad acchiappare le mosche e a guardare il soffitto, e che poi, in domenica, nell'ora in cui si ama di andare fuori delle porte a fare una partita alle bocce, andava in massa a farsi radere la barba per due miserabili soldi.

Se non fosse stato che bisognava mangiare per stare in piedi, avrebbe strappato giù i piattelli più di una volta e dato un chiodo alla bottega. Il chiavaiuolo lo pacificava assicurandolo che tutti i mestieri avevano qualche guaio. Il suo, che non s'imparava che cogli anni, era dei più prepotenti. Un signore o una signora, che perdeva la chiave di casa o della porta o la rompeva nella toppa, non ammetteva l'indugio di un minuto. Bisognava smettere qualsiasi lavoro, prendere i ferri del mestiere, tirar giù la serratura e in poche ore ricomparire con la chiave o con le chiavi nuove. I mestieri sono mestieri, e chi lavora diventa servitore del pubblico, che fa i comodi suoi. Non c'era da dire. Faceva così anche lui. Se aveva bisogno di avere la faccia pulita in domenica, non andava mica a trovare il parrucchiere in giovedì.

— Alla vostra salute.

— Tanti augurii.

Buone feste.

Speriamo di vederci l'anno venturo allo stesso posto.

Speriamo.

Nella bottega del Battista era una nuvolaglia violacea che nascondeva quasi interamente la vetrata delle bottiglie di liquori. La gente vi entrava sgomitando e beveva urtata dall'andirivieni senza perdere terreno. Nell'angolo erano le facce rosse e gli occhi alcolizzati degli individui che cantavano a perdita di fiato:

 

Ciao, ciao, ciao

Morettina bella, ciao

prima di partire

un bacio ti voglio dare

un bacio alla mamma

due al papà

e cento alla Morettina

di baci ne voglio fare.

 




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