Nel mezzo erano i pipatori con la destra sul braccio
sinistro, che annebbiavano l'ambiente e parevano inchiodati al suolo. Con un
cicchetto stavano lì delle ore, obbligando i nuovi venuti a passare davanti o
dietro di loro, come se fossero stati i padroni del sito. Lungo il banco, tra
coloro che vuotavano il bicchierino e se ne andavano, c'erano quelli pieni fino
alla fossetta della gola, che si tenevano ritti con la mano al rialzo
lastricato di zinco, sul quale, con l'altra, picchiavano, di tanto in tanto, il
soldo per un altro bicchiere di raccagna. Ai tavolini c'erano anche delle donne
che bevevano coi loro uomini del rum caldo o dell'acqua di capilèr bollente.
Giovanni era già disfatto. La zoccolata che la figlia gli aveva menato alla
testa non lo aveva corretto. Egli era imbriaco come la giustizia. E cercava
nelle saccocce della moneta che non trovava per berne un'altra mezza zaina che
Battista non voleva dargli. Bere lecito e onesto era permesso a tutti. Ma non
di ubbriacarsi in casa sua. La gente sparlava anche troppo, senza andare a
cercarsi degli altri grattacapi.
— Ci vorrebbero qui quei signori che dicono che noi abbiamo il pelo
sullo stomaco, lasciando sciupare ai padri di famiglia fin l'ultimo centesimo.
È mezz'ora che gli si nega da bere, e lui, che prenderebbe fuoco se gli si
lasciasse cadere uno zolfanello acceso sul naso, insiste per volerne ancora!
Giovanni, andate a casa a dormire!
Alcuni, mezzo brilli, volevano prendere la difesa dell'ubbriaco. Libertà
per tutti. Ciascheduno doveva avere la libertà di spendere i proprii denari
come si sentiva. Si era in un luogo pubblico e il padrone non aveva altro da
fare che da servire la gente che pagava.
— Un'altra zaina con sei bicchierini!
Se lo avesse fatto a loro avrebbe trovato carne per i suoi denti. Non si
era mai visto un padrone che insultava gli avventori che andavano a dargli del
denaro. Era troppo grasso, quello sì. Loro ci venivano perché la grappa era
buona. Di questa non si poteva dire niente. Ma era un tocco di vergogna che un
povero uomo venisse trattato coi piedi. Se non gli andava di vendere le
acquaviti, poteva chiudere negozio. Nessuno glielo impediva. Ma fino a tanto
che teneva aperto, si doveva essere liberi di berne anche un litro.
— Giovanni, venite qui che ve la pago io. Un cicchetto di grappa, ehi!
Giovanni non poteva reggersi sulle gambe. Si piegava come se avesse
avuto sulle spalle una testa di bronzo che lo tirasse a terra. Non capiva più
quello che gli si diceva. Stralunava gli occhi e tentava di balbettare parole
che nessuno intendeva, con dei gesti lunghi e indolenti. Gli avventori
biasimavano, sottovoce, i buli che volevano farlo bere ancora. Ci voleva un po'
di giustizia, ci voleva. Era un uomo che aveva già della bestia e loro volevano
imbestialirlo del tutto.
— Fategliene ingoiare fin che potete — diceva Margherita, la 28, mentre
si mangiava la ciliegia chele aveva pagata la Luigia — e poi incendiatelo. Farete un'opera pia, per quelle povere donne!
— Uscite, o vi mando fuori! — gridò spazientito Battistino. — Non voglio
che si dica che io proteggo l'ubbriachezza.
E, uscito dal banco, lo prendeva per il collo del paltò peloso e a urti
lo metteva alla porta, tra la gente che non sapeva se prendere parte
all'indignazione del padrone o mettersi con Giovanni che cadeva in istrada come
un sacco di farina.
Alcuni avrebbero voluto prendere le difese dell'ubbriaco per dire che
non era il modo di trattare la gente che alzava il gomito in una giornata come
quella. Ma la maggioranza era con Martino che dava addosso all'eterno
ubbriacone della scala C, che disonorava il Casone e maltrattava la famiglia
con delle scene scandalose. Quando Paolino gli parlava del progresso fatto in
quarant'anni, non aveva che da dare un'occhiata a Giovanni divenuto un bevitore
cronico. Beveva allora, beveva adesso e beverà fino alla morte.
Lorenzo, ordinando i suoi quattro bicchierini, perché accettava e
restituiva, non era cieco. Un po' di progresso c'era stato. Una volta per i
suoi avventori bastavano sei salviette e piccole come asciugamani. Ora ce ne
volevano una ventina, larghe e lunghe due volte quelle di prima e qualcheduno
brontolava se gliela si metteva al collo con delle macchie. C'era il macellaio
e l'oste che la volevano di bucato. Se avesse avuto tanti di quegli avventori
che pagano la barba un soldo di più avrebbe potuto chiudere bottega. Un soldo
di più e la salvietta pulita che costa un soldo vuol dire che il parrucchiere
prende meno che dagli altri avventori che si contentano della salvietta comune.
Sicuro che egli non era stupido da buttarle nella cesta della biancheria
sporca. Ciò che non era buono per l'aristocrazia poteva esserlo per la
democrazia. Ma se tutti avessero fatto come quei due, un povero diavolo sarebbe
andato in malora in poco tempo.
Il cortilone si era andato popolando di donne che portavano lo scaldino
di terra sotto il grembiale. Dove il sole era largo si erano agglomerate quelle
che si scambiavano il servigio della pettinatura. Erano sedute sulle scranne
gregge, in sottane colorate con la balzana a sbrendoli che non giungeva loro ai
polpacci, in corpetti di percallo a fiorami e ravvolti negli scialli di lana a
maglia, coi capelli sciolti per il collo o giù per le spalle come mantelli del
parrucchiere. Le sedute avevano nel grembiale il pettine, il pettinino, le
stringhe per attorcigliare le trecce, le forcelle per tenerle appese e la
bottigliuccia per ungerle. Le pettinatrici, in piedi, dietro le teste,
passavano il pettine coi dentoni lunghi nel mezzo delle capigliature fitte e le
sgarbugliavano come lo stalliere la criniera del cavallo, spruzzandosi, ogni
volta, il palmo della sinistra di saliva per ammorbidirle.
— Guarda lì in alto che devo avere qualche trottapiano che mi dà
fastidio. Più in alto, un po' ancora; lì, brava. L'hai preso? Erano due?
Grassi? Mettili sotto i piedi, i maledetti che mi volevano mangiare viva!
Lucia ne aveva troppi. Orsola era stufa di ammazzarne. Pareva che le
crescessero sotto le dita.
— Al tuo posto mi laverei la testa col sapone di Como. Il sapone ti
sgrassa la pelle e li lascia morire di fame.
— Giovanna, passami lo scaldino tra le gambe che mi sento gelata.
Le pettinatrici che avevano per le mani delle teste con pochi capelli se
la sbrigavano in pochi minuti, anche quando sostavano con le trecce in mano per
strappare i capelli bianchi.
— Lasciali stare, Mariuccia, che ormai la è bella e finita. Se sono
piaciuta, sono piaciuta.
Prendevano i capelli, li frullavano nelle mani untate d'olio, li
lisciavano col pettine fitto parecchie volte, li spartivano col pettine lungo,
attorcigliavano quelli che scendevano per le pareti del cranio, facevano
passare i codini lucidi sulle orecchie e poi giravano le parti lunghe alla
sommità della nuca come un'alzata di capelli.
La Teresa, che aveva ancora della carne indosso e dei fianchi che
facevano arrossire, si sentiva male quando doveva farsi pettinare. Aveva tanti
capelli che stava delle settimane senza distrigarli. Andava alla pompa e se li
faceva slegare dall'acqua.
— No, non mettermi dell'olio di ricino. Mi nausea l'olio sui capelli.
Le bimbe si appendevano alle gonne delle pettinatrici e domandavano con
lo schiamazzo i pidocchi che volevano ammazzare loro, unghia sopra unghia.
— Andate via, sporcaccionone!
Il marito della Pina entrava dal portone cogli occhi spaventati, con il
grembiale arrotolato sullo stomaco, con le mani in saccoccia, col sigaro
nell'angolo della bocca, sfogliato e salivato fino alla punta, fermandosi come
per prendere l'equilibrio, riprendendo il cammino con dei passi precipitati,
come se il corpo tendesse a rotolarsi sul suolo, e andando spesso ai muri ove
tentava di accendere il sigaro cogli zolfanelli che rimanevano spenti. Le
ragazze, che andavano dal fornaio col padellotto dell'oca o dell'anitra, si
tiravano in disparte per paura che non vomitasse loro addosso, e i birichini
della porta gli tenevano dietro, perseguitandolo col «gajnna!» che lo
costringeva a volgersi indietro coi pugni tesi e la bocca piena di bestemmie.
Dinanzi al quadrato delle donne con il collo nudo e con le ridondanze
del seno tremolanti sotto i leggeri indumenti, rimaneva sospeso cogli occhi del
bue che vede avvicinarsi il cencio rosso. Qualche secondo dopo schiattava in
una risata plebea, piegandosi sulle gambe con le mani sulle cosce e mostrando
loro la lingua con un peteggiamento da maiale. Le pettinatrici e le pettinande
si alzavano in piedi scarmigliate e si rovesciavano sul malcreato coi pugni e
con le zoccole e lo percuotevano dappertutto sul faccione che trasudava di
liquori.
Era un'indecenza che ci fossero al mondo dei malcreati come lui.
Il calzolaio si lasciava battere, continuando a ridere e a fare
boccacce, dicendo parole sbracate che provocavano maggiormente la furia delle
indemoniate. La moglie, che aveva veduto l'assalto dalla ringhiera, discese le
scale a balzelloni, saltò in mezzo alla mischia femminile voltando su le
maniche e sfidando le vigliaccone a fare altrettanto. Cento donne contro un
uomo che non poteva stare in piedi! Vergogna! Se avevano del coraggio potevano
farsi innanzi, che la Pina era pronta a mandar loro i denti in gola. Lei sola
bastava per tutte. Teresa risospinse le compagne col largo delle braccia,
ingiungendo loro di lasciarla sola con la sbaiaffona che credeva di essere
Sansone. Non aveva paura la Teresa. Non era la prima volta che rompeva gli
occhi a delle facce di peto come la sua. Arrovesciandosi le maniche per il
gomito, mostrava a tutti la muscolatura delle braccia pelose come quelle di un
uomo e diceva che era pronta a mangiarle via un orecchio.
— Con un pugno, sacradio, ti finisco!
Ne voleva venti delle donne come lei da mettersi sotto i piedi.
Dare della vigliaccona a loro per quel suo straccio di marito catarroso che non
avrebbero voluto neppure arrostito con le cipolle!
— Avanti!
Il primo ceffone che cadde sulla faccia della Pina le fece prorompere
dal naso un'inaffiata di sangue ch'essa si asciugò via lestamente col
grembiale, attaccando la Teresa con una mano ai capelli e menandole con l'altra
un pugno enorme alla tempia sinistra da lasciarla per un secondo intontita. Gli
spettatori e le spettatrici, che si erano assiepati intorno alle barruffone,
incominciarono a stringersi nelle spalle. La Pina si era impadronita di una manata di capelli che impediva a Teresa di vedere la pioggia degli schiaffi e dei
pugni che le insanguinavano la faccia, quantunque non smettesse di tentare alla
cieca di agguantare la rivale per il collo. Martino, Luraschi, Paolino e
Lorenzo, che si trovavano pigiati nella folla, si sentivano a disagio dinanzi a
questo sbracciamento di femmine che s'insanguinavano. Col raccapriccio dipinto
sulla faccia dicevano che non stava bene che le donne si accapigliassero in
quel modo nella giornata di Natale. Giovanna, con le mani sui fianchi che
traducevano la sua forza, borbottava e faceva capir loro che avrebbero fatto
meglio a mettere il naso negli affari propri. Che ne sapevano loro del perché e
del come? La Pina, che le aveva insultate tutte, si buscava quello che si
meritava. Era giusto che le si desse una lezione. Un'altra volta imparerebbe a
avere la lingua meno lunga. Il proverbio parlava chiaro. La lingua senza ossa,
fa rompere le ossa. Teresa era riuscita a piantare le unghie nella veste della
Pina e, in un attimo, dalla veste gliele passò nelle carni, agguantandola per
le mammelle e buttandosi coi denti sul padiglione dell'orecchio destro. La Pina era finita. Divenne bianca come una morta e cadde in terra svenuta con un grido che
chiamò fuori il resto del vicinato sulle ringhiere.
— Hanno ammazzata la Pina!
— Un po' d'aceto per l'amor di Dio!
— E un po' d'acqua — disse l'Antonietta, che si era accosciata e tirata
la testa della svenuta nel cavo del grembiale. — Non è niente.
E, dicendolo, le puliva il naso ingroppato di sangue e le umettava le
labbra e le tempie per farle aprire gli occhi.
Teresa, colle vesti stracciate, col seno che le usciva da tutte le parti,
si ravviava i capelli, si tirava su le sottane che le erano scappate sotto i
fianchi e con una grembialata si nettava il viso graffiato e spruzzato di
sangue, soddisfatta di avere data una lezione alla Pina che prendeva sempre le
parti del marito anche quando il suo uomo aveva torto marcio.
Pochi minuti dopo, il cortilone aveva completamente dimenticato la
zuffa. Le pettinatrici avevano ripreso il lavoro di fare le trecce e i rialzi
con delle risate che sbronciavano fino gli imbronciati. Giuditta andava in giro
con la zaina dell'amore nella quale ciascuno intingeva le labbra e perdeva il
livore nato in un momento di furia.
— Alla Pina, prima!
E la si offriva alla Pina, la quale si era riavuta e aveva stretta la
mano all'avversaria. Perché anch'essa, una volta che si era sfogata, non
nutriva rancori. Non aveva fatto che il suo dovere. Come moglie doveva
difendere il marito, anche se era un beone con le mani bucate come il suo.
Carico di lucilina era un altro uomo. Diventava un porcone col fiato che
bruciava chi gli stava vicino. Fuori, aveva il brutto vezzo di provocare la
gente che non gli faceva niente e in casa menava le mani e diceva parole da
svergognare una donnaccia della strada. Era toccata a lei questa croce da
portare e la portava con rassegnazione per amore dei figli.
— A te, Pina.
— A te, Teresa.
Gli spettatori si sparpagliavano lentamente e si lasciavano alle spalle
il Guercio, un tipo che sognava continuamente di mandare in rovina il lotto con
una quintina secca e che nelle settimane ladre si adagiava nelle vincite
immaginarie con una fantasia romanzesca. Nessuno l'aveva mai visto con le
donne. Ma le adocchiava con l'occhio del porco morto e lasciava cadere nelle
loro orecchie, quando poteva, parole libidinose, che gli procuravano dei
manrovesci che lo sbalordivano. Da vent'anni non vendeva altro che l'estrazione
del lotto al sabato e degli ambi e dei terni negli altri giorni alle donnucce
che passavano le notti senza sogni e non ricevevano la grazia di tre numeri,
neppure quando pregavano fervorosamente. Al sabato, vecchio come era, correva
per le vie trafelato, scrivendo i numeri sulle strisce di carta, assordando la
gente con l'estrazione, e accentando e prolungando l'ultimo «o» con la voce
profonda, conosciuta dalla sua clientela che sbucava dalle porte con i due
centesimi in mano per non fargli perdere tempo.
Nessuno aveva mai messo la testa nel suo abbaino che portava il numero
194, blocco C, perché puzzava come una latrina e annunciava l'ambiente a
parecchi metri di distanza, come quello del 38 che niuno puliva per paura di
trovarsi a tu per tu col diavolo. Era una tana di pochi passi, nella quale non
si poteva stare che seduti o accosciati, con un cassone imputridito sul suolo
immelmato e un saccone nauseabondo su tre tavole distese sui cavalletti. Nel
Casone passava per un avarone che aveva il morto in fondo alla calza nascosta
nel pagliericcio, per lasciarsi credere un pitoccacelo che basisce sul
lastricato. Indossava tutto ciò che lo straccivendolo aveva di invendibile. Un surtout
stravecchio del colore del vino vomitato, che si scuciva e crepava da tutte le
parti, un panciotto scolorato e a pezze su una camicia negra e sfilacciata, e
un paio di calzoni che sbattevano sul selciato le estremità incatramate di
palta indurita.
Il giorno di Natale aveva l'abitudine di passarlo in casa della Peppina,
la locandiera che dava a tutti gli avventori un piattone di risotto infiorato
di salsiccia, con mezzo litro di vino di quel buono, coll'aggiunta, qualche
volta, di una fetta di panettone. Ma quest'anno la locanda aveva cambiato
padrona e lui pencolava se doveva consumarlo addossato alla muraglia del blocco
con un pezzo di stufato in un lago di bagna, bevendosi del buon vino da
quaranta, o andare dal bois, sull'angolo della Madonnina del Ponte
Vetero, dove c'erano sempre i maccheroni al salto e le minestre nelle quali
stava in piedi il cucchiaio. Intanto che il suo pensiero ondeggiava, la vicina
del terzo piano del blocco che rasentava, gli versava in testa,
inavvertitamente, il pitale e chiudeva la finestra per non sentire le parole
sguaiate che le tirava su col pugno teso l'animale che voleva romperle i
connotati.
— Vieni giù da basso, o brutta carogna, che ti spacco il didietro con un
calcio!
Gina stava per uscire. Era sull'uscio che faceva le ultime confidenze,
con la punta viperina della invidiosa incorreggibile, alla Carolina e alla
Ginevra, le camiciaie del 97, del piano superiore, blocco A, le quali
ammiravano la giacca verdone che le elegantizzava il busto col taglio aderente,
col collo risvoltato, con la doppia guarnizione sul davanti, tra i bottoni di
seta e la guipure bianca. Andava a pranzo da sua sorella che aveva sposato un
impiegato postale che stava bene. A dire la verità, non vi andava volentieri,
perché le piaceva passare le feste natalizie in casa con gli amici che fanno
stare allegre. Ma ormai l'idea vecchia di stare ciascheduno a casa sua non
esisteva più che tra i signori che amavano ancora scaldarsi nelle ampie nicchie
dei camini illuminati dall'enorme ceppo. Una volta, in una giornata di Natale,
si poteva andare a torno nudi. Non c'era una persona per la strada e le
botteghe rimanevano tutte chiuse, ad eccezione di quelle dei fornai che
schiudevano un'anta sola per poche ore della mattina. Lei non aveva i capelli
grigi. Ma da otto o dieci anni, il Natale non era più il Natale dei nostri
vecchi.
Si, è vero, il cappello di felpa rossa, con la calotta alta e le tese
larghe, si adattava alla sua fisionomia pienotta. Gli aveva fatto cambiare la
guarnizione perché l'altra era gualcita e smunta. Le faceva gola una capote
rosa che vedeva da tanto tempo e che le doveva stare a pennello. Il suo era un
capriccio. E in giornata sono poche quelle che possono appagarselo. S'intende, lei
non era mica di quelle che si lasciano comperare le cose dagli uomini, come
certe sue conoscenze. Non sapeva se si era spiegata. E tossiva con gli
occhietti rivolti verso il fondo della ringhiera, ove abitava la 49. Anche
Ginevra aveva sul gozzo una mantellina nocciuola chiara, alla bersagliera, che
vedeva da un pezzo in una vetrina del Bocconi e che alla vigilia non aveva
fatto tempo a comperare perché i padroni l'avevano tenuta alla macchina fino a
ora tarda per finire delle camicie di batista col plastron a grandi sbuffi.
Parlava con una del mestiere e non aveva bisogno di spiegare che cosa erano gli
sbuffi. Carolina, con la sua camicetta di flanella stampata, col davanti a
pieghettine e il suo giro di velluto oliva scuro intorno al collo, non era
riuscita a togliersi quella volgarità della faccia che le impediva d'avere
degli amanti, come si diceva. Con loro avrebbe potuto pagarsi un corsetto
bolero, come quello che aveva veduto indosso domenica all'Annunciata, la
lavandaia del fosso che stava per diventare la loro padrona di casa. Era un
giacchettino pieno di civetteria. Ma lei non aveva fortuna. Non le capitavano
che degli spiantati, che le avrebbero mangiato anche quel poco che guadagnava.
Gina faceva dei gesti per dirle ch'essa raccontava una storia che aveva tanto
di barba. Non era da oggi che si sapeva che le oneste invecchiavano agucchiando
o stirando o facendo dell'altro, mentre le altre sapevano salire dal lavatoio
agli appartamenti lussuosamente ammobiliati, per uscire di casa con dei
mantelli che andavano giù fino al calcagno e ravvolgevano la figura con delle
pieghe graziose, senza nascondere completamente la punta degli stivaletti di
vernice. Non avevano che da guardare di sotto. La Luigia del cortile era stata giovine come le altre e non era meno conosciuta dell'Annunciata;
e tuttavia si metteva i grembiali fino all'ultimo rimasuglio, non aveva ancora
smesso di portare le zoccole, ha sempre avuto al fosso più di quattro o cinque
donne che lavoravano per suo conto, e non è riuscita a tenersi a casa la gamba
ammalata di sciatica che poche settimane. Adesso la povera diavola era
all'ospedale e domenica sarebbe andata a trovarla appunto perché era una donna
che meritava. Se voleva andare con loro? Diavolo! Non c'era neanche da
parlarne. Con tutto il piacere. Sarebbe stata una consolazione per quella
povera donna dimenticata da tutti, specialmente da quelle dello stesso
mestiere.
— Dunque siamo intese, arrivederci.
— Buon Natale.
Stavano per separarsi proprio nel momento in cui Adalgisa svoltava nel
portone, colla veste succinta che lasciava vedere la sottana di flanella
scarlatta, col volante arricciato e sormontato da un ricco bordo, con un
mantello oliva chiaro giù a piombo, ovattato e foderato di seta gialla come
l'oro, con un collo alto e floscio che pareva brinato fin sul largo delle
spalle, sotto un cappello di feltro bigio alla pastorella, con la tesa davanti
inclinata verso gli occhi, con le penne che ascendevano e si scioglievano in
alto per cadere con la mollezza del salice. Al centro della cintura di taffettà
nero drappeggiato aveva un superbo fermaglio d'argento cesellato, pieno di
pietruzze luminose, che si vedeva tutte le volte che teneva il manicotto di
lontra lungo il rovescio del mantello. Carolina e Ginevra, con la scusa di
accompagnare la Gigia fin sulla porta, andavano incontro all'Adalgisa come
grandi amiche, baciandola sulla guancia con affettazione e facendole gli
augurii della giornata con una curva che salutava la toiletta di lei. Gigia,
che aveva passate delle giornate con l'Adalgisa, la baciò su entrambe le guance
con grazia e con un sorrisetto smorbioso che celava la sua ironia quando si
trovava con delle compagne salite così in alto. Le diceva che aveva appena
finito di bere un bicchiere d'alchermes con Marianna di sopra a vestirsi, e
pizzicottava ora il braccio di Carolina e ora quello di Ginevra, per attirare
la loro attenzione sullo sfarzo di Adalgisa, la quale si lasciava ingenuamente
ammirare, domandando anzi loro se le stava bene il cappello che le pareva fosse
troppo largo.
Le rincresceva di aver preso il manicotto, perché il sole scottava, e
dicendolo si tirava giù il guanto alla moschettiera dalla mano grassottella e
bianca come il pancino di una quaglia, e mostrava l'anello all'anulare, con un
brillante fosforescente e grosso come la capocchia di un chiodo, che le aveva
regalato Bentoni appena si era svegliata.
— Magnifico! — esclamò la Gina. — Deve costare un occhio della testa,
deve!
Andavano in su e in giù, facendo dei passetti come amiche che cercano
una soluzione, rompendo il silenzio con parole affrettate, passando da una
inezia all'altra con degli oh! di meraviglia e delle risatine a fior di labbro.
Notavano tutte ch'essa si era fatta più donna dal giorno che l'avevano riveduta
al cortilone. Non era possibile altrimenti con la vita che faceva. Era una vita
di godimenti e di piaceri dalla mattina alla sera. Non aveva nulla da fare. Non
aveva che da aprire bocca per avere tutto quel diavolo che desiderava. Bentoni
era una pasta d'uomo che l'avrebbe indorata se avesse potuto. Non andava mai a
casa a mani vuote. Vi andava con dei fiori, con delle frutta, con una scatola
di guanti, con un gingillo, con dei dolci o coll'ordine di andare dalla sarta o
dalla modista per un abito o un cappello o un tour de cou di mussolina di seta,
come ieri. Non aveva nulla dell'Edoardo puntiglioso che non viveva che di
etichetta e per l'etichetta. Bentoni non era meno educato di lui, perché era
stato a scuola coi signori e sapeva il francese da poter assistere alle
rappresentazioni teatrali a Parigi senza perdere una parola. Ella aveva assai
più imparato con lui che con l'altro, pieno delle futilità rigide della classe
dei pivelli aristocratici del suo tempo. Il solo guaio era che il secondo
amante insisteva per il matrimonio. Da un po' di mesi si intestardiva a volerla
sposare. Pochi anni sono, Adalgisa non capiva la donna senza marito. A casa
della mamma piangeva sovente di non avere il padre e la biasimava, dicendole
che era una brutta cosa di mettere al mondo dei figli senza i genitori. Adesso
non aveva cambiato idea, ma si sentiva ancora troppo giovane per imporsi il
giogo del matrimonio. Non stavano bene anche così come erano? Che cosa mancava
loro? E voltava l'argomento dicendo che oggi avrebbe pranzato con la mamma. Era
Bentoni che ve l'aveva mandata a bella posta perché non voleva storie. Natale
era una giornata che bisognava consacrare in famiglia. Si faceva tardi e quella
donna non si faceva viva.
— Mamma? Eccola alla finestra. Vieni? Ti aspetto dabbasso. Mettiti
l'ulster che ti sta tanto bene.
Mentre aspettavano, passava dalla ringhiera Annunciata vestita con una
semplicità prodigiosa. Indossava una mantellina di bristol bleu finissimo, con
collo alla Medici, sotto un cappello alla Montpensier di felpa bigia, montato
di piume castagne che si dividevano alla callotta per discendere coi ciuffi sui
margini dell'ala. Il costume, ricco di pieghe, era di stoffa grigia che le
andava fino ai tacchi bassi delle scarpe inglesi. Nelle orecchie aveva due
stellette d'oro chiuse a vite dietro i lobi, le quali servivano di base ai
brillanti limpidi e pieni di bagliori che le facevano risaltare la carnagione
calda della faccia. Discendeva le scale come una gran signora che guarda tutti
con benevolenza. Si abbottonava i guanti, salutava con un cenno della testa
coloro che la salutavano, rispondeva agli augurii con una amabilità che faceva
stare sul suo passaggio, come quando ci si incontra con persone che si
rispettano, e cavava il portamonete quando trovava qualche povera donna che le
faceva gli augurii con una riverenza per commuoverla.
Adalgisa si sentiva l'odio andare al cervello tutte le volte che la
vedeva. Le bruciava ancora lo schiaffo che le aveva dato un pomeriggio, in
faccia alla gente, perché era andata a dire alle ragazze ch'ella era l'amante
del Guercio dell'estrazione del lotto. Se non l'era stata, si era data a degli
uomini più schifosi di lui. Non c'era donna del Casone che non sapesse che
aveva indossato, per più di un anno, la veste di cotone azzurra delle
pericolanti della casa di Nazaret di Porta Magenta. Come non c'era persona che
ignorasse ch'essa aveva lasciato un po' delle sue viscere dappertutto. Adesso
la metteva giù dura perché aveva trovato una grinta disgustosa che si faceva
perdonare l'orrore della ciera a furia di biglietti di banca.
Non era ancora venuto il giorno di fargliela scontare. Ma non era
lontano. Guai a lei se si fosse permessa una sola smorfia. Avrebbe fatto uno
scandalo. Non voleva morire col peso della sua mano sulla guancia. In allora
era troppo giovane. Ah, se avesse avuto in quel giorno la forza che aveva
adesso! Le era toccato piangere dalla rabbia. Basta, Dio non paga sempre al
sabato. Ci sono altri giorni della settimana. Si sentiva ancora bruciare la
pelle della faccia. Forse non avrebbe dovuto avere paura. Ma glielo aveva dato
in un momento in cui era come stordita. Si trovò schiaffeggiata più dalla
sorpresa che dalle dita. La madre avrebbe voluto vendicarla prendendola per i
capelli. Ma ella non aveva voluto perché era buona di farsi fuori le sue
ragioni, a suo tempo, senza gli altri. Carolina la calmava dicendole che
bisognava dimenticare. Oramai era una cosa vecchia che nessuno ricordava. Gigia
era dello stesso parere. Certo che lei non avrebbe potuto star quieta colle
cinque dita di quella donna sulla faccia. Ma oggi era Natale e la pace doveva
regnare in tutte le famiglie.
Annunciata usciva dal blocco con quell'indolenza sensuale che attira gli
occhi sui fianchi spettacolosi, terminando di abbottonarsi i guanti e
fermandosi a dare un bacio a Candida e ad Altaverde che andavano di sopra.
— Buone feste, signora Annunciata!
Si sentiva nell'aria che il vicinato incominciava a considerarla qualche
cosa nel Casone. Invece di evitarla o di passare via senza vederla, uomini e
donne facevano a gara nel salutarla e augurarle le buone feste.
Ella accettava con dei segni di testa e dei sorrisi graziosi.
— Buone feste!
Le quattro che aspettavano Marianna erano divenute pallide. Adalgisa la
vedeva avanzarsi con il rancore che le andava su dal ventre alle labbra che
tremavano come se avesse avuto il convulso. Fingendo di guardare il manicotto
penzolone per il mantello, correva ai suoi piedi coll'occhio per non guardarla
in faccia, incitata dalle palpitazioni precipitose che la scuotevano tutta e le
illividivano il viso. A mano a mano che si avanzava, la collera le si
sbrigliava per il cervello e il sangue le infuriava per le vene, come se tutto
tendesse a precipitarla sulla nemica.
Carolina la guardava con delle strizzatine d'occhi e Ginevra le
pizzicava il braccio per distrarla.
Annunciata passava accanto a loro salutando dall'altra parte Giuseppe,
il tintore del blocco A, che si era tolto il cappello per augurarle le buone
feste.
— Buone feste, Giuseppe!
Si era fermata a pochi passi da loro, togliendosi dal taschino
l'orologio d'oro per guardare le ore; rispondendo ai saluti e agli auguri delle
donne alla finestra.
— Buone feste, signora Annunciata!
— Buone feste!
Adalgisa subiva la tortura degli aghi che la spingevano a correrle con
le mani alla gola e farle pagare, con la strangolatura, l'insulto di averla
battuta in mezzo a tutti. Era il sedimento della vendetta che le si rimescolava
e le gridava: va! va! va! pulisciti la guancia con una sfuriata di sberlotti!
Mentre la vendetta urlava alle orecchie d'Adalgisa, entrava una vittoria
guidata dal signor Giorgio, il quale faceva fare al cavallo una larga curva per
metterlo con la testa verso l'uscita.
La salutava con una scappellata e le additava il cuscino che
l'aspettava.
Non era ancora seduta che le giungeva all'orecchio la parola atroce di
Adalgisa, seguita dalle approvazioni clamorose delle altre.
Annunciata si sentì il cuore passato a parte a parte dal coltello della
impertinente. Ma trattenne l'irruzione per non dare dispiaceri a Giorgio che
non ne sapeva niente. Senza scomporsi discese tranquillamente dalla vettura,
dicendo che aveva dimenticato qualcosa, e si avviò verso loro tirandosi giù
lentamente il guanto dalla mano che voleva punire la sfacciata.
— Sei tu che hai detto che sono una prostituta?
Le lasciò andare due manrovesci secchi, da vera lavandaia, e si voltò
verso le altre a dire che se volevano la loro parte non avevano che da parlare.
Poi, con la stessa indolenza, ritornò, adagio adagio, calzandosi il guanto, al
predellino, dicendo che la cosa che cercava l'aveva in saccoccia.
Giorgio non si accorse di nulla.
Adalgisa era rimasta lì, cogli occhi istupiditi che perdevano lacrime,
le quali le andavano giù, serpeggiando per il rosso delle guance, fino al
collo, come una tenerezza che l'invitava a sciogliersi e a piangere come una
disperata. Ma c'erano i curiosi che guardavano e le amiche bianche e
paralizzate dalla paura che non avevano saputo pronunciare una parola per
difenderla. Ah sì, era stata una stupida anche questa volta, e, nel suo
pensiero, avrebbe voluto che si fosse ricominciata la scena per rappresentare
la sua parte mancata. Ripresa dal demone della vendetta, mentre si sentivano
ancora le ruote strepitare sui sassi, si mise a correre verso l'uscita, senza
badare se sprofondava i piedini nei guazzi, e a gridare:
— Sì, prostituta! Prostituta!
La pivelleria, che si era andata ingrossando a pochi passi dalla bottega
socchiusa di Gianmaria, ove taluni davano, di tanto in tanto, una capatina per
un bicchiere bianco secco, si era volta verso l'Adalgisa che agitava il
manicotto in aria come una furia e si svociava con la bocca piena di lagrime,
scoppiando in risate sonore.
— Cossa gh'è, i mascher?
La conoscevano tutti la pelandòla del Terraggio. A chi dava della
prostituta? A se stessa? Sacco di sugna! Perché non stava via con i suoi
scicconi che le facevano fare tanto di ventre? Che cosa veniva a fare fra i
pitocchi che non la potevano più vedere? Nessuno aveva bisogno della sua
carnaccia di mantenuta. Sul marciapiede ce n'erano delle meno svergognate e
delle più belle che si potevano raccogliere, quando si voleva, per niente.
Costei non aveva neppure la scusa della fame. Si era data agli uomini ricchi
per cupidigia. Angiolino, l'amante di Virginia, al quale spuntava la peluria
bionda sotto il naso, era più sbracato e veemente. La prendeva su, idealmente,
in una bracciata e la sbatteva di peso in una cisterna dei pozzi neri. La
considerava una sgualdrina che aveva disertata la sua classe per della
poltroneria e del lusso. Gli rivoltavano l'animo le disertore frolle che si
abbandonano nelle braccia dei libertini che le sciupano con dei baci senili e
l'alito puzzolento e poi le mettono alla porta per il porcaio cittadino! E
sputava dallo schifo su queste ragazze che si svergognavano nel letto dei
maturi piuttosto che pensare alle necessità della vita! Se fosse stato lui il
padrone di casa, le avrebbe fatte bastonare tutte le volte che si fossero
permesse di rientrare nell'edificio abitato dai loro genitori. Vi ritornavano
per suscitare l'invidia nelle altre che non si sentivano attratte a fare la
vitaccia di rompersi le reni sul materasso soffice della gozzoviglia. Ci
sarebbe voluto un po' di materiale caldo per spazzar via tutta questa materia
purulenta dalla vita intima dei Casoni!
Annibale, maggiore di qualche anno, che lavorava con lui alla stessa
sartoria, godeva mezzo mondo a sentirlo parlare con una virulenza che faceva
smascellare dalle risa anche gli altri più serii di lui, e gli dava del matto a
braccio di panno.
— Matto, finirai per farmi crepare dalle convulsioni!
Ragazze, continuava Angiolino con la imperturbabilità che non lasciava
trapelare se facesse per davvero o per burla, che bisognava trattare coi piedi
nel culo, senza sprofondarveli troppo per paura di sporcarceli. Quella sua
mammaccia, che faceva la santacchiona ora che invecchiava, gli faceva venir su
il panettone dell'anno scorso. Ne aveva fatte delle belline anch'ella ai suoi
giorni! Era stata la ganza di un assassino e si era lasciata passare sul corpo
un reggimento di uomini di tutte le razze. Nessuno sapeva di chi era figlia
quella troietta di Adalgisa. Poteva essere del galeotto o anche di tutti. Lui
era ancora giovanissimo e non poteva dire molto per proprio conto. Ma aveva sempre
sentito dire che Marianna era stata una linguaccia spietata, che per vent'anni
non aveva fatto altro che tagliare i panni a tutte le donne ammaccate del
Terraggio, senza che qualcuna sapesse mai renderle pan per focaccia. Adesso il
frizzo di Marianna era spento perché era discesa sul gradino delle ruffiane
consapevoli, delle madri ruffiane che sapevano mangiare alla tavola dell'amante
della figlia senza sentirsi strangolare dal boccone in gola. Madre di gesso!
Con una banca di ortolana che poteva dare da mangiare a una famiglia numerosa,
la si è veduta snanerottolare intorno al drudo della figlia!... Puah! Madre di
gesso, vattene all'inferno! Se a lui fosse toccata la disgrazia di averne una
simile, si sarebbe suicidato per non andare in galera come uccisore della
propria madre. E la vedeva passare con una smorfia di disprezzo sulle labbra.
Adalgisa e Marianna, l'una al braccio dell'altra, sbucavano dal portone colle
tre amiche, sostando nel largo dell'acciottolato, mentre giungeva la carrozza
con Bentoni che fermava il cavallo di botto e si toglieva la tuba con una curva
e un sorriso.
Marianna indossava un ulster di bristol nero, lungo come la veste, il
quale dava un po' di forma al suo corpo, e aveva in testa una capote nera che
le metteva sul viso un'aria da furbacchiona che faceva nascere, tra la
pivelleria che adocchiava il crocchio femminile, la maldicenza trivializzata
dalla frase implacabile di Angiolino.
— Salite, mamma, perché l'ora del pranzo si avvicina e dobbiamo passare
da Santa Margherita a prendere dei dolci. Tu, Adalgisa, passa dall'altra parte,
che così io resterò tra voi due.
— Addio, buone feste!
— Buone feste a tutte!
Il cavallo, che raspava il suolo dall'impazienza di rimettersi in
cammino, si metteva al trotto e si slanciava fragorosamente verso il corso,
inseguito dagli «uh» sordi e lunghi della pivelleria che manifestava, con dei
rutti, il suo immenso disprezzo per tutta quella carrozzata di prostituzione
privata.
L'andirivieni dei padellotti che andavano e venivano dal prestinaio continuava,
quantunque il prestinaio Taschini andasse dicendo alle donne che il forno stava
per morire e che anche lui, dopo avere lavorato tutta notte e tutta mattina,
aveva diritto a un po' di riposo e al tacchino in tavola come gli altri. Ma non
aveva cuore di respingerle. Certe poste lo conoscevano da quando, da ragazzo,
andava di uscio in uscio col gerlo in ispalla a portare il pane alle famiglie
che non potevano recarsi o mandare alla bottega. Lo avevano veduto crescere,
ammogliarsi, diventare padre, ingrigiare e ascendere gradatamente, di benessere
in benessere, diventando da garzone proprietario e da inquilino padrone di
casa. Considerava la sua clientela come una grande famiglia in margine alla
sua. Se il capo di casa rimaneva sul lastrico o vittima di qualche accidente,
Taschini continuava a registrare sul libretto senza brontolare al sabato,
dicendo anzi che era giusto che toccasse un po' anche a lui della sua
disgrazia. Ascoltava le miserie che le donne gli raccontavano, come un padre
burbero che impensieriva a mano a mano che il disastro intetrava, e concludeva
che a ogni modo bisognava pensarci e fare qualche cosa.
Nessuno poteva dirgli bugie, perché il proprietario del vecchio prestino
di porta Magenta era come lo storico di tutta la poveraglia che pullulava alla
superficie di più di un miglio quadrato. Non era cartografo, ma col suo lapis
sapeva benissimo topografare la sua area di lavoro, chiazzando leggermente i
punti dove si lavorava di più e si pativa meno, calcando la matita lungo le
abitazioni operaie che mancavano del necessario a periodi, e nereggiando gli
spazi nei quali erano gli straccioni dalla fame cronica, ammucchiati nelle
stanze dove si moriva di morte naturale, senza destare scalpore o suscitare
alcuna commozione tra i vicini che vedevano incassare i vicini per il foppone,
come poveracci che avevano finito di tribolare. Coi libretti del suo casellario
alla mano, egli sapeva rifare l'esistenza di una famiglia o di un gruppo di
famiglie divise per mestieri o per blocchi, dando di ciascuna o di ogni gruppo
la media della spesa quotidiana e dei guadagni settimanali, elencando la
percentuale dei morti e delle disoccupazioni e aggiungendo il vizio che
sovraneggiava nella classe. Quando il delegato della miseria non sapeva a chi
ricorrere per non lasciarsi gabbare dalla popolazione più o meno sulle braccia
della Congregazione di Carità, andava da lui, il quale, in poche parole, gli
sapeva distendere la condizione dell'ammalato sociale, dicendogli se era adatto
o inadatto alla vita, se aveva l'osso nella schiena, se fogava tutto nelle
bettole e nelle osterie, o se preferiva racimolare gli avanzi di una tavola
qualunque piuttosto che darsi al lavoro stabile. Gli avventizii, che
rappresentavano la popolazione fluttuante, non erano assolutamente una
agglomerazione di invalidi, ma poco ci mancava. E lui, il prestinaio, li
metteva nella casella intitolata: povertà cronica. Perché era una folla di
bisognosi anche quando trovava lavoro e lavorava. Erano gli impotenti.
Mancavano di forze, di salute e di abilità. Gli altri, che venivano dopo loro,
erano i naufraghi, quelli che non avevano mai avuto una occupazione fissa, che
non sapevano alzarsi alla campana di un orario, o attendere a un lavoro
costante, e che erano assolutamente incapaci di sgiogarsi dagli acciacchi della
vita che li obbligavano a immiserire nella neghittosità inconsolata. Era
difficile dire come vivevano i primi e i secondi, perché nessuno di loro era in
grado di avere un libretto. Un giorno mangiavano delle libbre di pane, calcandosi
un boccone sopra l'altro, come tanti ingordi, senza pensare al domani, e lungo
il resto della settimana si contentavano dei pezzacci di pane, delle croste dei
paiuoli, degli avanzi che gli altri buttavano via, di qualche tazzina di brodo
o di minestra che distribuiva qualche istituzione caritatevole. Era una
popolazione che accendeva il fuoco di rado, e che si coricava invariabilmente
al buio, anche d'inverno, quando la bruma notturna discende nel pomeriggio.
Molte volte si sdraiavano sul giaciglio a ventre vuoto o andavano da lui, a
piagnucolare, per una misturina che non negava loro mai. Raccontava sovente a
don Paolo, il suo vecchio amico che non sapeva passare dalla bottega senza
entrare a stringergli la mano, che aveva dei casi, lungo la sua esistenza di
quarant'anni di esercizio, da far pietà ai sassi. Delle famiglie che dall'oggi
all'indomani, con un infortunio del lavoro o con la morte del padre, passavano
da una vita senza fame a una fame perenne. C'erano delle madri, circondate di
marmaglia non ancora alta come la pietra miliare, che non sapevano più
districarsi dalla miseria. Andavano giù giù fino in fondo. Narrava gli eroismi
di certe famiglie che vendevano gli ultimi indumenti vendibili per dargli un
acconto da dedurre dal loro debito, e aggiungeva che spesso era obbligato di
andare dall'altra parte del marciapiede a salutare dei debitori che arrossivano
come i bargigli del gallo se lo vedevano sul limitare della bottega. Taschini,
che conosceva la sua popolazione e che sapeva da che scrupoli era dominata
quando non poteva pagare le settimane d'arretrato, andava difilato a casa dei
disgraziati, si informava della loro sventura, li incoraggiava o li pregava a
continuare a mandare a prendere il pane, e, magari, se ne andava lasciando
qualche cosa di suo sul tavolo. Lo credeva un obbligo sacrosanto quello di dare
una mano alla gente che coi loro centesimi erano riusciti, senza accorgersene,
a creargli un patrimonio, e a mettere lui e la sua famiglia al disopra degli
uragani sociali. Don Paolo lo ascoltava con le mani giunte, tirando, di tanto
in tanto, una presa di rapè con del rosa che lo profumava, per sottrarsi ai
brividi che gli suscitavano le sue narrazioni e per convincersi una volta di
più che Taschini era un sant'uomo anche quando si sapeva che non sentiva che la
messa alla cacciatora, col pretesto che non aveva tempo da perdere.
Nessuna donna, povera o arcipovera, usciva nella giornata di Natale
senza il panettone ch'egli regalava anche all'avventizia che non si faceva viva
se non nell'ora che c'era qualche cosa da prendere. Era una giornata in cui si
stava male solo a sapere che c'era qualche donna che pativa la fame. Così il
fornaio lo dava specialmente alla sgraziata che comperava mezza libbra di pane
in un prestinaio, mezza in un altro e mezza in un altro ancora per far su del
panettone da sfamare tutta la famiglia. E ogni donna, durante il Natale, fino
alle tre pomeridiane, quando dava il chiodo alla bottega, aveva diritto di
mettere il padellotto nel suo forno.
A un'ora si poteva dire che il Natale si svolgeva nell'aria. Si
fiutavano i profumi scappati dalle casseruole e si sentivano gli
sbattacchiamenti delle ante che chiudevano ermeticamente le ultime botteghe dei
padroni che si tappavano in casa per impedire ai seccatori di andare a
disturbarli. Il tabaccaio, che era sempre l'ultimo, una volta chiuso, non si
sarebbe scomodato per un principe. Chi voleva fumare doveva pensarci prima. E
neppure Gianmaria ammetteva persone che non bussassero tre volte col calcagno,
segnale che voleva dire che coloro che bussavano erano di casa.
La gente attraversava la via correndo o sollecitando il passo, dando le
buone feste in fretta agli ultimi sbevazzoni che rincasavano mollemente, col
cappello sbattuto indietro e col tabarro slacciato e appeso per un filo alle
spalle, come se per loro non facesse freddo. Nel Casone il tepore delle cucine
che indiavolavano sotto un fuoco ardente era ancora più intenso. Andavano su
per le nari i vapori dell'oca che rosolava ammantata di grasso e cosparsa di
rosmarino, dello stufato che cuoceva nella bagna intinta di vino rosso,
della rostita distesa sur un letto di cipolle, della piccata ravvolta nel
pomodoro stiacciato, e del botaggio, la miscela di porco che andava per la gola
pitocca come la vivanda più squisita e più prelibata della cucina del Casone.
Mezz'ora dopo non c'era più un'anima. La gente era tutta in casa, seduta
alla mensa affollata di piatti, di pomi, di dolci e di panettone, di carne
fumante, di risotto che commoveva le budella, di minestrone con le cotiche e i
fagiolini neri coll'occhiolino rosso sulla costa, di pasta asciutta inaffiata
di sugo di intingoli saporiti, di vino bianco e di vino rosso, di rosolii e di
torrone, intorno al formaggio e agli stracchini di Montevecchia che vendeva il
girovago dalla cavagna coperta di carta rossastra, stracchini che mettevano
sete e facevano mangiare tanto pane. In mezzo a questo silenzio esterno che
dava l'idea di essere in una città morta, pareva di sentire il sordo fragore di
dentiere di ferro che stritolassero le ossa e maciullassero la carne con
quattro colpi di mascella. A mano a mano che lo stomaco delle abitazioni lungo
le ringhiere si riempiva, si andava sviluppando il chiasso allegro dei piatti
sbattuti o strisciati sui piatti e dei coltelli affilati sui coltelli per
affettare i pezzi grossi, col susurro lieto che andava fin nel mezzo del
cortilone solcato di esclamazioni gioconde.
Non si era ancora all'immersione del panettone nel vino, che compariva
da non si sapeva dove la figura esterrefatta di Siliprandi, con la carnagione
del viso giallognola più del solito, stracco morto, che strascicava i piedi con
la polvere alta sulle scarpe slabbrate, con lo zimarrone scucito nel mezzo
della schiena e con le maniche che lasciavano uscire dalla scucitura lembi di
camicia marcita sulla pelle e picchiettata del sangue che avevano perduto le
pulci che si satollavano sulla sua carcassa. Aveva girovagato tutta mattina
senza avere trovato un uncino che lo avesse trascinato dietro un uscio a
mangiare un baslotto di minestra e andava rifinito a sedere sui gradini della
scala degli epuloni che voltavano via un piatto dopo l'altro accanto a un buon
fuoco, vuotando allegramente dei bicchieri senza pensare che lui, Siliprandi,
che aveva veduto giorni migliori, era fuori che balbettava al freddo, con le
mani intirizzite sotto le ascelle e coi piedi gelati sulla pietra gelata.
Col sole che impallidiva si sentivano uscire le ventosità dei pranzi a
crepapelle, e, qua e là, si vedevano sbucare, di tanto in tanto, degli
inquilini con le facce infiammate sotto il tovagliolo maculato dei rossi delle
bevande o insudiciato dei nerazzi dei cibi, con in bocca il virginia o la pipa
colma e infocata, a chiamare degli altri vicini per domandar loro se il Natale
l'avevano passato bene o se volevan venire a bere un dito di quello di
bottiglia, comperato al Cantinone di piazza Sant'Ambrogio.
— Ho mangiato come un porco e bevuto come un animale!
— Cent'anni come questi, Bartolomeo!
E di ringhiera in ringhiera circolava l'espansione del dopo pranzo e si
inanellava il motto condito di buon umore col motto audace, e si rincorreva col
frizzo la ragazza che metteva fuori il faccino e si ritraeva nella stanza
calda, e si offriva di casa in casa una fetta di panettone o qualche dolce
rimasto sul tavolo e si scambiavano dei baci dalla tenerezza o dalla gioia.
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