Ciao, ciao,
ciao.
Morettina bella, ciao,
cantata da un
centinaio di bocche si diffondeva per l'aria e andava a adagiarsi nelle viscere
della gente come una dolcezza.
Il cortilone incominciava a ripopolarsi e Lorenzo, il parrucchiere, che
occupava le stanze a pianterreno vicino alla bottega, usciva con la bottiglia
in una mano e il bicchiere nell'altra a dare della voce a Martino che gli stava
sulla testa.
— Venite giù a berne un bicchiere, che ho qui degli amici.
Lorenzo era un cuor d'oro che godeva la vita. Tanti ne guadagnava e
tanti ne spendeva. Amava la partita alle bocce d'estate e d'inverno, la giocata
a tarocchi di sera, il bicchiere della staffa prima del desinare e un po' di
vacca al fuoco tutti i giorni, perché lui era di opinione che senza carne il
tronco di carne non poteva stare in piedi. Dava in casa quello che si aveva
bisogno senza mai domandare alla moglie come spendeva i denari. Due figli
andavano a scuola dalle Orsoline e la maggiore guadagnava già una e cinquanta
alla scuola della grande sartoria Challion, di piazza San Carlo, la quale
serviva la regina. Di temperamento chiassoso, dava spesso in sfuriate di un
lampo che non gli lasciavano la bocca amara e non gli invelenivano la pace
domestica. Alcuni invidiosi, che non volevano credere che la bottega gli
producesse tanto per la vita che menava, si susurravano all'orecchio ch'egli,
col suo fare bonario di sbottonarsi con tutti, doveva far parte di qualche
associazione di malfattori che la scialavano coi biglietti falsi. Così, quando
pagava o cambiava, si era sempre in timore di rimanere vittima della sua
industria. Però, gli intimi, come Martino, sapevano bene ch'egli guadagnava
molto assistendo alle aste pubbliche e specialmente a quelle del Monte di Pietà
per conto della Lega dei centottantacinque, associatisi nel 1862 con tre
semplici biglietti da mille ciascuno, una Lega divenuta arcipotente, perché
nessuno poteva comperare oggetti impegnati o roba all'incanto senza il suo
consenso, e arciricca, perché dopo avere restituito al socio la quota
d'entrata, era riuscita a avere un fondo, fatto su con gli avanzi delle
subaste, che andava oltre il bilione.
Il modo di lavorare della Lega, la quale aveva chiuso l'elenco dei
membri alla cifra tonda di duecento, senza lasciarsi intenerire da chi batteva
insistentemente all'uscio sociale per essere ammesso, era quello di mandare
attorno ai banditori uno sciame di individui, come il Lorenzo, a rappresentare
la parte di compratori e dare all'asta un'apparenza di gara con degli aumenti
di cinquanta centesimi o di una lira fino a quando la roba in vendita veniva
deliberata a un incaricato dai leghisti.
— Supponete — diceva Lorenzo spiegandone il metodo agli amici — che
domani il Monte di Pietà metta all'incanto gli oggetti o la roba non ritirata
in tempo. Una ventina di noi - perché non siamo più di una ventina - si
sparpaglia fra gli estranei intorno al banditore. Si mette in vendita, diciamo,
un orologio d'oro, con catena e ciondoli d'oro per centocinquanta lire. Se gli
oggetti valgono assai più del prezzo d'asta, uno di noi incomincia a farli
salire di cinque centesimi, un altro di dieci e un terzo magari di una lira.
Sovente vi si trovano degli intrusi o dei privati che saltano via i leghisti
per non pagare venti o trenta o quaranta lire sottomano e s'intestardiscono di
volerli portar via a qualunque prezzo, credendo di farla al competitore, il quale
continua imperturbabilmente a farli rincarire con degli aumenti di un marengo
per volta. La roba in vendita sale spesso a cifre favolose, perché i leghisti
hanno bisogno di dimostrare che nulla può essere comperato senza il loro
permesso. E quando la strizzatina d'occhi ci ordina di abbandonarla
all'ostinato che persiste come un giuocatore che perde, allora vuol dire che la
società si contenta di punirlo facendogliela pagare il doppio o il triplo di
quello che poteva valere nuova alla bottega. A asta finita, metà della roba è
già venduta e metà viene mandata ai magazzini di deposito lungo la
circonvallazione di porta Tenaglia. I leghisti, i quali sono tutti, su per giù,
rigattieri e usurai, si avviano, alla spicciolata, al Monte Tabor, dove hanno
mandato uno dei loro facchini a ordinare un pranzo coi fiocchi. Giunti, si
mettono a tavola e mangiano con appetito, vendendosi, tra un piatto e l'altro,
tutto ciò che è stato inviato al deposito. È un'asta in famiglia. Immaginatevi
che cento scialli siano stati comperati per cinquecento lire. I leghisti se li
contendono facendoli salire a mille e più lire. Il leghista, al quale sono
stati aggiudicati, mette il di più nella grande zuppiera posta nel mezzo della
tavolata come un'urna o un vaso qualunque. Terminata l'asta, che non è mai, tra
loro, rabbiosa, perché nessuno rincarisce la roba senza lasciare un margine
largo per il bottegaio, passano al caffè col cognac e al sigaro, e
l'incaricato, per turno o per acclamazione, si mette a contare i biglietti
nella zuppiera, deduce dal totale il dieci per cento per la cassa collettiva
che è, come si direbbe, la loro cassa di resistenza, si paga il conto all'oste
e poi si divide il resto per il numero dei leghisti che hanno partecipato
all'asta, dopo avere sottratta la somma per la nostra giornata, la quale varia
a seconda dei guadagni. Alle volte ci danno dieci lire, alle volte non ce ne
danno che cinque e alle volte ce ne danno anche più di venti. In generale non
lesinano. Se hanno pranzato bene e bevuto meglio, peccano piuttosto dal lato
generoso che dall'altra parte. Angeluccia? Portaci da bere. È un'ora che siamo
qui a aspettare! Non vedi che Martino e Paolino rimuovono la lingua a stento!
Guarda che il fiasco è in cucina. Sii buona e fa presto. Che cosa si dividono i
leghisti? Somme da far venire l'acquolina in bocca. In certe giornate si
mettono via cinquecento, seicento, mille lire a testa. Parecchi di loro non
hanno fatto nulla. Né esibito, né comperato. Si paga la loro presenza. Ah sì,
non c'è che dire. È un mestiere d'oro. Ma per guadagnare dell'oro, credetelo,
ce ne vuole dell'altro.
E Lorenzo buttava in aria le mani come una maledizione.
Martino e Paolino andavano d'accordo nel biasimare il bagarinaggio che
rendeva le aste una vera commedia e impediva alla gente di comperare e
riscattare la roba a prezzi onesti. Era della camorra bella e buona a danno
della povera gente. Una donna, che non aveva potuto raggranellare i denari che
troppo tardi per riprendere le sue vesti o i suoi anelli o i suoi mobili, non
doveva essere padrona di mettersi tra i concorrenti all'asta? Lorenzo faceva
bene e loro non avevano nulla contro lui o gli altri bagarinisti che si
guadagnavano la vita in quel modo. Ma in nome del cielo, se tutto il commercio
fosse stato nelle mani di monopolisti spietati come quelli, un giorno o l'altro
si sarebbe veduta la Lega contendere alla gente le necessità della vita.
— Bevete e parliamo d'altro, oggi che è Natale. Alla vostra salute! E
voi, Luraschi, prendete il bicchiere. Alla vostra! È inutile parlarne. Voi, che
se uscite dal cortilone è per attraversare la strada e andare dal tabaccaio,
non capite, né capirete mai un accidente di queste cose. I leghisti non sono
mica lì in agguato a aspettare la donnicciuola che corre trafelata per salvare
il suo scialle o le sue boccole di sposa o le lenzuola del suo letto. Anzi, se
la vedono, l'aiutano a riprendere le cose sue senza lasciarle pagare un
centesimo. Non sono degli strozzini che svaligiano la pitoccheria. Il loro
commercio è meno immorale di quello che si crede. Esso tende a regolarizzar la
vendita moralizzandone i prezzi. Le persone vanno là a esibire senza cognizione
alcuna, rincarando ostinatamente se qualcuno ha la debolezza di imitarlo. I
compratori, che non hanno idee esatte sul valore degli oggetti in vendita,
fanno diventare l'asta una estrazione del lotto. Può darsi che a qualcuno
capiti il terno, ma la folla di coloro, che esibiscono a caso, ci rimette
sempre di saccoccia. Con i leghisti invece i prezzi non escono dal normale e
lasciano uno spazio per il venditore e per il compratore. Comperate un oggetto
da loro, senza intromettervi nell'asta, e vedrete che vi costerà meno, molto
meno di quello che spendereste a mettervi tra loro e il banditore. E adesso
parliamo d'altro, perché io non voglio stufarvi. Bevete, alla vostra salute.
Dove è Clerici? Angeluccia, dagli un bicchiere di vino. Vieni qua. È il mio
giovine che mi sostituisce tutte le volte che sono assente. Egli è un po'
malcontento per la cassetta. È anno di carestia, caro mio! L'anno venturo ne
riceverai di più. La colpa non è tutta degli avventori. Tu sai che c'è per aria
l'idea sciocca di abolire le mance per far pagare più salario ai padroni.
Sciocchi! Non sarete voi che cambierete il mondo. Il mondo è sempre andato così
e così ha sempre da andare. Beviamo! Alla nostra salute e crepi l'avarizia!
Di fuori il cicaleccio si diffondeva, andando di piano in piano e
rumoreggiando dove erano i crocchi degli amici usciti a scambiarsi le
compiacenze dei piatti divorati con gusto e dei bicchieri di vino vuotati con
piacere e a dirsi che la vita sarebbe troppo bella se i giorni della settimana
fossero tutti come il Natale. Si mangerebbe a crepapelle e si diventerebbe
tanti Michelacci. Qualcuno rideva buttando in aria folate di fumo. Erano
buaggini che si potevano dire a pancia piena. E chi tirerebbe innanzi la
baracca se tutti facessero la vita animalesca d'andare a zonzo a stomaco carico
o di sdraiarsi nel sole come le lucertole?
— Bella domanda — si rispondeva scherzando.
— Gli altri che fanno niente. Non sarebbe un gran male se toccasse
lavorare anche a coloro che vivono di riposo. Non si guasterebbero le mani,
accidempoli! Non siamo tutti di un solo Dio? E dunque? Uguaglianza, ci vuole.
Un po' d'uguaglianza anche per la povera gente non farebbe poi male.
L'aristocratico piegava di peso sulle gambe con la pipa in mano e
ridicchiava più sgangheratamente di prima.
— Dillo tu che sei stato soldato. Saresti stato buono di fare quello che
faceva il tuo capitano? No? Alla buon'ora! Così non sapresti fare il ricco.
Voialtri, con cento mila lire, prendereste delle sbornie, come faccio io.
Fatemi il piacere! Senza i ricchi che spendono e spandono, i poveri morirebbero
di fame. Non siamo noi che andiamo a teatro, che viviamo nei palazzi, che
teniamo dei cavalli, che facciamo lavorare i paesani, i domestici, le sarte, i
calzolai, le modiste, i parrucchieri, i guantai, i lavoranti in carrozze, i
sellai, i pasticcieri. Fatemi il piacere! I signori sono necessari come il pane
da mangiare.
Baldino, il figlio della 74 della sesta ringhiera, blocco B, era stato
tirato in casa di Angelino, il figlio della Pina, con altri giovanotti del
Casone. Angelino voleva bene a Baldino, prima perché aveva sculacciato con lui
per il cortilone, poi perché era cresciuto, si può dire, insieme. Anche dopo un
po' di galera lo credeva un ragazzo di cuore. La sfortuna aveva aiutato a
gettarlo in mezzo a dei compagni che lo avevano perduto, ecco tutto. Ma di chi
era la colpa? Sempre della società ch'egli odiava di un odio inestinguibile. Se
qualcuno avesse pensato a lui e gli avesse dato un mestiere, non sarebbe mai
divenuto quello che è divenuto. È così, è così, è così!
— Mamma, dagli questo bombone con un bicchiere di vino. Bevi, Baldino, e
sta su allegro che la provvidenza c'è per tutti.
Gli amici, rincuorati da Angelino gli si erano tirati intorno,
lasciandogli il posto davanti al focolare e invitandolo con delle carezze sulle
spalle a raccontare loro un po' della vita di prigione che non conoscevano che
così all'ingrosso. Stavano lì quieti e silenziosi e davano sulla voce a
Vittorina tutte le volte che si muoveva e distraeva la loro attenzione.
Il figlio della 74 si lasciava pregare, senza trovar modo di
incominciare a metter fuori un po' della sua autobiografia. Era una vitaccia la
sua che preferiva tenere seppellita nel suo cuore. Non aveva che ventidue anni
e ne aveva passati più di sette in prigione. Pareva più vecchio perché la cella
intisichisce e la dieta di pagnotta e sboba smagra, debilita e mette i
solchi della vecchiaia precoce sulla fronte, alle tempie e sotto le pinne del
naso. Era sparuto, spettinato, con dei peli bionditi che gli andavano su fino
alla ingrossatura degli zigomi, e delle mani dalla pelle crepata con le unghie
vellutate di porcheria. I suoi abiti erano ancora quelli di quattro anni sono,
stati conservati nel guardaroba del reclusorio di Alessandria durante la sua
ultima condanna. Un cappello a cencio, disorlato e spaccato alla punta in modo
che gli lasciava sbucare i capelli castagni, una giacca pezzata sulle spalle e
ai gomiti, un gilet smunto che non gli nascondeva la camicia di parecchie
settimane, dei calzoni logori, corti e schiantati al sedere e delle scarpe di
corame duro con due filate di bullette alla suola e coi tacchi ferrati come la
zampa del cavallo. Con delle ritrosie si mise a parlare senza preparazione e
senza orgoglio, anche quando narrava i suoi trionfi di spazzacasa o raccontava,
con indifferenza, delle giornate in cui indossava la casacca del recluso. Gli
amici lo ascoltavano a bocca aperta, trattenendo il respiro per non perdere una
parola di quello che diceva e calcandosi l'uno addosso all'altro dallo spavento
quando rifaceva la scena più drammatica della narrazione.
Ai processi lo si è quasi sempre definito un ladruncolo e condannato per
dei furterelli che non aveva commesso, né voleva commettere. La prima volta gli
hanno fatto scontare sei mesi per avere pescato nella tasca di una signora che
pregava nella chiesa di Sant'Eustorgio. La devota lo aveva scelto tra una
cinquantina di detenuti riuniti sotto il porticato del Cellulare ed era andata
al tribunale a assicurare i giudici che lui era proprio quello che l'aveva
alleggerita del portamonete. Invece Baldino aveva sempre avuto della ripugnanza
per il piccolo malvivente che arrischia la libertà per pochi soldi e per dei
furti che lo obbligano a essere continuamente al lavoro per vivere. A quattordici
anni iniziava la carriera con un colpo reciso, guadagnando sette mila lire in
una notte. Bisognava entrare nello studio di un avvocato che lui e i suoi
compagni sapevano che andava sul lago di Como, dove aveva una villa, alle
cinque pomeridiane e ritornava, all'indomani, verso le dieci. In casa non
rimaneva che una vecchia serva che andava a letto prima delle nove.
— Tranne il novizio, i miei quattro compagni eran vecchi del mestiere.
Il novizio, che ci aveva dato le informazioni sull'interno e sulle abitudini
della casa, era stato per tre anni scrivano dell'avvocato che stavamo per
derubare. Il nostro capo era un uomo coraggioso, che non indietreggiava dinanzi
il pericolo e che aveva già portata la catena a parecchi magli nel bagno penale
di Civitavecchia, dove la minima infrazione ai regolamenti veniva punita con le
pene corporali delle bastonate. Non accettava mai alcuno in compagnia che
discutesse i suoi ordini o che mettesse in dubbio la capacità di servirsi di
qualsiasi mezzo per salvare gli associati. Il primo a entrare in casa dovevo
essere io perché ero più snello, più agile e più pieghevole. Il mio corpo, che
era stato nelle mani dei saltimbanchi due o tre anni, si aggruppava come una
tartaruga, faceva tre salti mortali senza mettere i piedi in terra e le gambe e
le braccia giravano e si attorcigliavano come se fossero state di gomma
elastica. Aspettammo il momento propizio, cioè quando la via era deserta e
abbandonata dal questurino, e poi, in un attimo, saltai sul collo di un
compagno, il quale venne preso sulle spalle da un altro per farmi da scala per
aggrapparmi al davanzale della finestra attraverso cui dovevo entrare. Tutto
ciò che racconto veniva fatto in un modo fulmineo. Tagliai uno dei vetri col
diamante senza lasciarne cadere i frantumi, passai la mano per il buco,
l'apersi e saltai dentro senza fare maggior rumore del gatto sui tappeti. Prima
di muovermi e aprire il mio lanternino cieco, tesi l'orecchio per alcuni
secondi e poi, a piedi nudi, andai difilato nell'anticamera, ove dovevo trovare
appese le chiavi dell'uscio e della porta di strada. Con le chiavi in mano
origliai a tutti gli usci per essere sicuro che non potevamo venire sorpresi
che dalla vecchia. Finita questa operazione in minor tempo di quello che abbia
impiegato a raccontarla, passai coll'orecchio alla toppa della stanza della
serva. Era la prima volta e il mio cuore batteva in modo da togliermi il fiato.
In mezzo al silenzio mi pareva ch'esso facesse un rumore così indiavolato che
istintivamente vi misi sopra la mano per comprimervelo. Mi padroneggiai
pensando al pericolo. Col lanternino coperto e l'orecchio rasente il buco,
sentivo la respirazione affannosa della donna senza poter capire se dormisse.
Stavo per convincermi che russava, quando la sentii voltolarsi nel letto
facendolo scricchiolare e tossire con dei colpi secchi, tirando su il catarro
che sbatteva in terra con violenza. Non avevo paura perché mi aveva imposto il
capo di non averne, tuttavia sentivo la testa che sudava e provavo la tortura
di essere punto in tutte le parti da un numero infinito di spilli. Con la mano
sul coltello a serramanico stavo lì quatto, quasi senza respirare, in attesa di
riudire la respirazione greve come prima. Adagio, adagio, con la morbidezza
delle zampe del micio, ritornai alla finestra, misi fuori, con precauzione, la
testa, mi ritrassi aspettando che i passi che echeggiavano sul marciapiede si
allontanassero, vidi i compagni appollaiati sotto l'arco del portone in faccia
e gettai loro la chiave d'entrata nel berretto per impedirle di risuonare sul
selciato. Mi trovai un'altra volta al buio, riattraversai lo studio con indosso
gli stessi tremiti e mi rimisi all'uscio della vecchia a ascoltare se pisolava
sempre. Dalla quiete mi pareva che dormisse profondamente. Sentii delle pedate
nude che salivano le scale. Erano loro. Misi la chiave nella serratura, girai
le due mandate tenendo l'anta alta per non lasciarla gemere e apersi,
fermandomi terrorizzato ogni volta che minacciava di cigolare sul cardine. Li
lasciai entrare ritirandomi in un angolo con la lanternuccia chiusa per
impedire che i raggi proiettassero sulla scala, chiusi l'entrata con la cura
con cui l'avevo aperta e alla loro testa, l'uno dietro l'altro, passammo nello
studio ove era la cassa forte. Nessuno diceva una parola. Ciascheduno aveva in
saccoccia il suo lanternino e il capo dava gli ordini con dei semplici segni
che tutti capivamo. Il male era che la parete destra dello studio lo divideva
dalla stanza della serva, la quale avrebbe potuto svegliarsi al minimo rumore.
Ci mettemmo al lavoro. Il capo si era tolto gli ordigni del mestiere di sotto
al panciotto e, dopo avere dato un'occhiata alla cassa, si mise senza indugio a
trapanarla. Intanto che il trapano lavorava, un altro gli stava sopra con un
piccolo recipiente di latta per lasciar cadere sul buco, che si andava facendo,
una goccia di olio a tempo di soffocare lo stridore che avrebbe potuto fare la
punta del ferro che si arroventava col va e vieni che gli faceva fare il
tirante. Due altri aspettavano il buco per allargarlo con le seghette e tirarne
in giù con la mano le spranghe a tre mandate. Intanto che si trapanava, io ebbi
ordine di mettermi all'uscio della vecchia e di impedirle, a qualunque costo,
di disturbare il loro lavoro. Ero al buco da un quarto d'ora e a ogni momento
che le seghe gemevano mi pareva di trovarmi a faccia a faccia con la vecchia in
sottana e cuffia bianca che vociasse e gridasse come una disperata: ai ladri!
ai ladri! Si udivano dei tonfi e dei movimenti di ferri che mi facevano correre
il gelo alla testa. Al momento in cui erano riusciti a cacciare la mano nel
congegno della serratura la porticina della cassa si aperse con un fragore
spaventevole. Sembrava che delle pesanti porte di ferro si fossero separate
sibilando e strepitando in un modo orribile. Chiusi la lucerna e mi sentii
pallido come un morto. La donna si era precipitata dal letto e ne udivo i piedi
nudi che correvano per il tappeto e le mani che cercavano a tentoni. Poi intesi
lo zolfanello strofinato sulla scatoletta. Un altro si sarebbe dato alla fuga.
Io rimasi al mio posto senza interrompere il lavoro dei miei compagni. Attesi
la servente senza paura. Lasciai che mettesse la mano sulla maniglia per
aiutarla ad aprirla. C'incontrammo. La donna lasciò cadere il candeliere
mandando un grido che non le lasciai finire. Le fui sopra con la mano alla
bocca e con il coltello aperto negli occhi che le ingiungeva di tacere. Con le
mani giunte promise di non fiatare. La lasciai alzare, la rimandai a letto e
prima di andarmene le dissi di guardarsi bene di uscire dalla stanza fino a
giorno fatto. I miei compagni se n'eran già andati col bottino da una ventina
di minuti. Io chiusi l'uscio d'entrata come se fossi stato il padrone di casa,
discesi le scale contento del mio lavoro, ritornai nella strada, buttai nel
tombino la chiave dell'avvocato e raggiunsi i miei compagni al luogo di
ritrovo. Il capo mi mise in mano sette biglietti da mille fiammanti con degli
elogi che mi andarono al cuore.
Dabbasso si chiamava Angiolino. Era Annibale, l'amico inseparabile che
non sapeva stare due minuti senza vederlo. S'incontravano andando a bottega, si
trovavano sulla strada al ritorno e si rivedevano, dopo cena, con le ultime
boccate di pane che la fretta non permetteva loro di finire a casa. Da un
pezzo, tutti e due, si sottraevano ai compagni, andandosene soli, con gli addii
bruschi che facevano meravigliare i compagni coi quali erano abituati passare
la serata. Dove andavano? Molte volte si erano promessi di pedinarli e scoprire
come diavolo sciupavano il tempo, ma finivano sempre col concludere che
facevano l'asino a qualche ragazza
— Vieni con noi?
Baldino, gli rincresceva. Egli era stracciato da far paura e aveva
quella maledetta sorveglianza che lo perseguitava e che gli aveva sempre
impedito di tentare la riabilitazione. Da un po' di tempo non gli si lasciava
requie. In prigione stava assai meglio. Sapeva di essere in punizione, mangiava
quello che gli portavano e leggeva dei romanzi, quanti romanzi poteva avere, i
soli amici che gli facevano dimenticare il tempo e che lo trasportavano in
ambienti migliori. La solitudine della cella gli aveva fatto imparare la voluttà
di leggere. Con un volume in mano si immergeva nello svolgimento della storia e
si interessava dei personaggi come se si fosse trattato di persone della sua
famiglia. Al largo invece la vita era più irregolare e più straziata. Se non
andava a casa della mamma, faceva della fame, e se si metteva sulle spalle
della povera donna, la sua esistenza diventava una pena. Gli voleva bene, ma lo
martoriava, ripetendogli continuamente che, se si fosse dato a un mestiere,
sarebbe riuscito all'onore del mondo, nessuno lo tribolerebbe e lei non avrebbe
vergogna di confessare che suo figlio era un poco di buono.
Non si lamentava della sua sorte perché l'aveva meritata. Se non lo si
fosse imbestialito e atterrato con la sorveglianza, non avrebbe cambiato
professione col più abile degli operai a cinque lire e mezza al giorno. La sua
era una professione ladra e piena di pericoli. Ma una volta o l'altra, se il
colpo andava bene, c'era modo di uscire dalla miseria negra per del tempo e
anche per sempre. Era chiaro, che se non fosse stato un vero scavezzacollo che
spendeva e spandeva, a quest'ora sarebbe padrone di casa e potrebbe pranzare
coi piedi sotto la tavola. Nella sua breve carriera contava delle nottate che
gli avevano fruttato più di dieci mila lire e due anni passati da un'orgia
all'altra. Adesso che il suo cervello aveva potuto maturare sui romanzi,
voltandosi indietro, vedeva tutti gli errori che aveva commessi e
l'impossibilità di risorgere, inseguito da una legge che non gli dava tregua.
Sdraiato sul giaciglio della carcere aveva ideato una vasta organizzazione
della quale avrebbe voluto essere il capo. Elegante, con le tasche sempre ben
fornite, con un'abitazione di parecchie stanze ammobigliate principescamente,
con degli amici che avevano relazioni con la società alta, sarebbe passato
sotto il muso dei mardochei senza destare sospetto. Tranne i principali attori
alla testa delle squadre, nessuno degli associati avrebbe dovuto conoscerlo
personalmente o sapere il suo nome. Con le conoscenze personali delle case da svaligiare
non gli sarebbe stato difficile precisare matematicamente come si sarebbe
svolta la scena. La cosa più importante per lui sarebbe stata quella di mettere
assieme delle persone abili o addirittura degli specialisti prudenti, capaci di
vivere bene e anche con lusso tutti i giorni, senza frequentare cattivi
compagni che potessero metter loro alle calcagna degli agenti travestiti, e
senza ubbriacarsi o lasciarsi trasportare dalla bibita che scioglie lo
scilinguagnolo. Con questo piccolo drappello a sua disposizione, gli sarebbe
stato facilissimo organizzare delle spedizioni notturne quasi ogni mese. Dai
suoi progetti eliminava sempre gli spargimenti di sangue. Un ferimento o un
cadavere agita la popolazione, mette sottosopra gli agenti di pubblica sicurezza
e qualche volta, per la fretta e la furia, lascia tracce che conducono alla
scoperta degli autori. Certo che non bisognava evitare di servirsi dell'arma da
taglio o da fuoco dove il pericolo era maggiore a lasciare in vita qualche
testimonio o dove la lotta personale nasceva da un accidente impreveduto.
Aveva letto in un romanzo francese che l'eroe di una associazione di
ladri, il quale gli aveva suggerite tutte queste idee, era riuscito, in pochi
anni, coi furti, a farsi una posizione invidiabile e a sposare una contessa,
una vera contessa che si era innamorata di lui nella notte in cui calava dal
camino e sbucava nella sua stanza da letto per derubarla. I suoi occhi
l'avevano affascinata o ipnotizzata da non darle modo né di premere il bottone
del campanello, né di chiamare la servitù, mentre lui, il ladro, raccoglieva
dal portagioie i gioielli della signorina. Non s'aspettava una simile avventura
perché lui di donne non aveva bisogno, ma era convinto che senza la
sorveglianza egli avrebbe potuto sviluppare il suo progetto e diventare uno dei
più agiati e dei più ricchi di Milano. Senza fede in un avvenire, s'era
lasciato prostrare, affondando, di giorno in giorno, in un abisso sociale dal
quale non sarebbe uscito che morto. La sorveglianza non lo lasciava andare in
mezzo alla folla, gli proibiva di portare il bastone, di rincasare dopo il
tramonto del sole, di uscire prima che spuntasse il sole e gli ingiungeva di
non andare mai sul marciapiede e di non girellare per le vie con due
compagni. Se trovava da lavorare, gli agenti andavano a informare il padrone
del suo stato di servizio. Andava a letto? Gli incaricati della polizia
andavano a visitarlo tutte le notti, magari due volte. La riabilitazione era
dunque un sogno.
La nebbia infittiva. La si vedeva fumosa sui tetti che metteva l'umido
addosso e faceva scappare le donne a rintanarsi con degli scotimenti nelle
spalle e delle parole freddolose che accapponavano la pelle. Nel cortilone si
andava e si veniva e si sostava con le mani sotto le ascelle o il grembiale,
per dirsi che o bene o male anche quest'anno il Natale era passato. La Baldino, una donnina pulita, con la testa nello scialletto a scacchi colorati, con dei
capelli pepe e sale ondeggiati per la fronte, mandava di sopra il figlio con
una serqua di improperii, facendo sapere a tutti che un sorvegliato all'ora che
suonava doveva essere in letto. Sapeva per esperienza che non si facevano
complimenti. Se voleva farsi arrestare, poteva andare difilato alla questura
che non era che a pochi passi. Giurava con la mano sul seno che era diventato
il suo dolore di testa. In prigione bisognava portargli il soccorso e in casa
faceva disperare. Bisognava tenergli dietro come se fosse stato un ragazzo e
sgolarsi per farlo ubbidire. Adesso era grande e poteva fare quello che voleva.
Ma in casa sua doveva ubbidire o prendere la porta. Non voleva morire per uno
straccio di ragazzo che le aveva dato più dispiaceri che i capelli che aveva in
capo. Un'altra vicina, che passava in fretta, agitava la mano per dirle che non
badasse tanto nel giorno di Natale. Tutti sapevano che gli uomini, dopo aver
mangiato un boccone, amavano fare due passi. Era una canaglieria obbligare un
povero diavolo a stare immurato in casa quando gli altri uscivano e andavano a
spasso senza seccature. Nei suoi panni avrebbe già fatto il diavolo a quattro.
Avrebbe voluto vedere la faccia tosta che avrebbe potuto tenerla in casa.
Pasqualino, che andava via a ventate, a seconda che il vino lo buttava a destra
o a sinistra, era d'accordo con la vicina scomparsa per le scale, che non c'era
barba di Giove che potesse mandarlo a dormire se non avesse avuto sonno. Lui,
ora, andava di sopra perché aveva ancora della pollanca da finire con del vino
da settanta buono. Ma se qualcuno fosse andato a comandargli di andare a
dormire, gli avrebbe rotto il muso e sarebbe ritornato dabbasso. Era buono, ma
non bisognava toccarlo, perché allora diventava un leone.
I chiarori dei lumi dietro le finestre gettavano qua e là dei bagliori
foschi e rendevano il nebbione, nel quale era avvoltolata la gente che si
sparpagliava, più visibile. Fumacchiava come sospeso sur un immenso letamaio ed
era attraversato da una fitta di spruzzi che andavano a umettare il selciato e
a rendere più lubrica la palta in terra. Con la temperatura intiepidita, non
pochi vicini, senza badare all'umidore che intristiva, passavano per il
cortilone e s'avviavano a bere l'ultimo mezzo, di nascosto dalle donne, dal
Gianmaria, il quale aveva lasciato socchiusa l'entrata di dietro. Siliprandi
ciabattava per il lungo e per il largo imbronciato, menando il randello per
l'aria, percotendo le muraglie sul suo passaggio, fermandosi di botto alle
finestre di carta delle abitazioni a pianterreno in un atteggiamento di
precipitarsi su esse e sfondarle, infuriando per dei tratti col bastone che
inseguiva il vuoto, parlando tra sé come un matto, tenendo in alto la faccia
come se fosse stato a colloquio con Dio. I barcollamenti gli davano dei
capogiri che lo obbligavano a fermarsi sui due piedi e a tenersi puntato sul
bastone per non cadere. La pioggerella minuta minuta, invece di calmarlo,
pareva lo aizzasse e gli ingrossasse gli occhi che guardavano come quelli di un
idiota alcoolizzato. Piegandosi e risollevandosi, tentava di tirarsi giù il
palamidone per respirare e buttava sui sassi boccate di risotto arrossato che
non sapeva più tenersi nello stomaco. Quando gli dicevano porco! si voltava
dalla parte della voce con la mano in alto, pronta a farla a pugni. Si dava
addosso a un povero vecchio perché il caldo gli aveva fatto un po' di male.
Vergogna! Vergognaccia! E ne eruttava delle altre boccate, inaffiandole del
vino che gli veniva su come se avesse avuto lo stomaco in rivoluzione.
— Porco!
— Porci voialtri!
S'era mai veduto della gentaccia che insulta un povero uomo perché gli
ha fatto peso un po' di risotto! Era una cosa che poteva capitare a chiunque.
Vergogna! Il cortile incominciava a girargli intorno e il ciottolato gli pareva
che sussultasse e si rompesse, facendolo barellare come sotto l'azione del
terremoto. Si rimetteva dallo scombussolamento asciugandosi la bocca con la
manica slabbrata del zimarrone e poi ricominciava a percorrere il terreno
ineguale, mettendo i piedi in tutte le pozzanghere e prendendo delle rincorse
che gli facevano rasentare il suolo. Vomitava che pareva che si tirasse su lo
stomaco, e il «porco!» precipitava da tutte le ringhiere, mandandolo in bestia
e obbligandolo a sbracciarsi contro la nebbia che era diventata grigia e densa
da ridurre i bagliori alle finestre simili a lucignoli lontani che stanno per
spegnersi. Era un'ingiustizia che si togliesse l'onore a un povero diavolo cui
aveva fatto male un po' di risotto in un giorno d'allegria generale. Non erano
morti e la stessa disgrazia poteva capitare anche a loro, poteva. Ah, allora avrebbe
voluto vederli per dir loro quello che stava bene!
— Gajnna!
Era il grido che lo stordiva come una mazzolata tra coppa e collo.
Naufragato nel nebbione, con la fronte irrorata di sudore, cercava di farsi
largo passando da una foscaggine all'altra per imboccare la via alla scala e
torcere il collo al birbone che gli aveva buttato sulla testa il gajnna! Se
avesse potuto averlo nelle mani lo avrebbe messo sotto i piedi e gli avrebbe
strappato la lingua! E a tentoni, col bastone innanzi, tentava di infilare il
vuoto, dando continuamente nelle muraglie, perdendosi, disorientandosi dove la
nebbia era più opaca, vociando senza esser sentito e cadendo in una pozza che
lo mandava disteso sui sassi come un morto.
Pietro Cristaboni invecchiando peggiorava. La sua faccia a poco a poco
aveva assunto, con la maschera del beone inveterato, un aspetto completamente
animalesco. I pomelli degli zigomi gli si erano pezzati del rosso del mattone e
il naso, che aveva della rana incollata sulla faccia, era coperto dalla macchia
rossastra degli sbornioni. Gli smarrimenti degli occhi completavano la ditta
del deforme, che più beveva e più aveva sete. Aveva passato il Natale in
famiglia e si era saziato, tra un rutto e l'altro, di riso in cagnone e aveva
bevuto un fiasco di vino coi piedi sul focolare, pipando a larghe nuvole che
andavano su per la cappa nera del camino. Quando i ragazzini, che
incominciavano a sentirsi lavorati dal sangue stravecchio e corrotto, gli
davano fastidio, li spazzava via con una pedata senza badare alle strida che
commovevano i vicini del corridoio. La madre era divenuta verde e allampanata.
Non era più che un'ombra coperta di due once di stracci. Se difendeva Gigina e
Antonino, dicendogli di lasciarli stare che erano ammalati, scattava con gli
occhi corruscati dalla vendetta e si metteva a pestarla a sangue. I vicini
avevano pregato il padrone di sopprimere loro lo strazio quotidiano di sentire
un bruto che maltrattava i suoi di casa peggio di un assassino, e il signor
Giorgio aveva fatto loro sapere dall'Annunciata che lo avrebbe fatto sfrattare
in settimana. Si aspettava da un giorno all'altro di vederlo sloggiare con le
sue masserizie e con la sua famiglia che aveva intisichita a pugni sullo
stomaco e a calci nel ventre, ma Pietro Cristaboni si era impuntito di non
andarsene, dicendo a se stesso che nessuno poteva metterlo in piazza quando
pagava l'affitto. Sapeva da che parte gli era stato giocato il tiro e ripeteva
di cambiargli il nome se non avesse rotto il didietro a quella troia di
Annunciata che aveva fatto fuoco per farlo scacciare. Era una spudorata che
ogni sporcaccione poteva rovesciare sulla sponda di qualunque sentiero. Il
padrone, che se la godeva, per ingraziarsela faceva benone a rompergli le
scatole. Ma lui non si moveva. E lo diceva ad alta voce quando usciva, battendo
l'uscio con violenza per richiamare l'attenzione degli inquilini degli altri
usci, avvertendoli che un giorno o l'altro avrebbe perduta la pazienza. Nessuno
aveva diritto di guardare in casa sua. In casa sua poteva fare quello che
voleva. Poteva anche accopparli, se voleva. Non c'entravano nelle cose di casa
sua. Lui non sapeva neanche chi fossero. Era lì da parecchi anni e non si era
mai accorto di loro. I vicini stavano zitti, contenti di sapere che lunedì gli
sarebbe andato in casa l'usciere a notificargli lo sfratto o a impastarglielo
sull'uscio se avesse tenuto duro a non aprire, come quando si andava a bussare
e a dargli del manigoldo. Era ora di finirla con uno scalzacane di quella
fatta. In galera o al manicomio ce n'erano dei più buoni. La sua donna non
aveva che la colpa di avere messo al mondo degli infelici con un galeotto. Ma
loro non potevano, per compassione, morire di crepacuore. Era una cosa da
piangere sentire un boia come lui sbattere i figli e la moglie sul muro, senza
poter entrare a fracassargli la testa. Anche il Natale non avevano potuto
passarlo in santa pace. Non era ancora spuntata l'alba che la stanza risuonava
delle grida dei ragazzi che il padre rincorreva e scappellottava l'uno contro
l'altro, dando il resto alla madre che faceva di tutto per proteggere le sue
viscere. Alla sera, con la gola rasa di liquori e di vino, vomitava le ingiurie
più sanguinose contro i vicini, sfogandosi sulla moglie che non aveva più nulla
di vivo che gli occhi. Era come una martire votata alla morte. Si lasciava
piantare le ditate assassine nei fianchi, affondare il pugno nelle mammelle,
sbattere i denti in bocca, strappare i capelli a manate, piantare il calcagno
nel sedere senza mai dire una parola. Ci si era abituata e lo lasciava fare
senza versare una lagrima, asciugandosi il sangue dalla bocca o dal naso col
grembiale o con la balzana della veste, accarezzando o baciando i figli per
confondere la sua ambascia con una ondata di tenerezza. Ma il troppo era troppo.
Il padre, che aveva acciuffato il Richetto per i capelli e lo aveva lasciato
cadere di peso al suolo, le aveva rimescolato il sentimento della rivolta che
in lei dormiva. Con le molle del fuoco in mano e il fanciullo in terra bocconi
come morto, apriva l'uscio e lo sfidava a passare se fosse stato buono. Sarebbe
andata in galera, ma l'avrebbe finito con un colpo, quel tocco di carne di
collo. Urlava, chiamandolo «assassino!» e dicendo che era ora che lo si
conoscesse per quello che era. Un infame come lui non c'era sulla madre terra.
Si faceva tutto quello che si poteva, si viveva a pane secco per lasciargli i
buoni bocconi, e lui si tappava in casa e si sfogava coi piedi e con le mani
sul corpo della moglie e dei figli come se fossero stati carne da macello.
Assassino! E nella convulsione dell'ira levava in alto le molle, tenendole per
i piedi, in atto di spaccargli il cranio.
I vicini avevano dischiuso l'uscio, ma nessuno si arrischiava a mettere
fuori i piedi per paura di trovarsi a tu per tu con un omaccio capace di
servirsi del coltello. Gli Altieri non l'avevano neppure aperto. Era una
famiglia che bisognava lasciare nel suo brodo. Il Luzzera, che aveva passato il
Natale in casa del Vaselloni, non era di questo avviso. Traccagnotto, di una
forza erculea, prendeva gusto a trovare dei buli che aspettavano la mano che li
piegasse in due. Lui poi, che era stato militare come il suo ospite, aveva nel
suo programma la protezione della donna e dei bimbi. Il Cristaboni gli faceva
nascere la rivoluzione tutte le volte che gli capitava sulla stessa via. Gli
pareva impossibile che avesse potuto trovare una donna per compagna.
— Non abbiate paura. Ne ho domati degli altri. Gli darò una strigliatina
che gli farà bene.
Sull'uscio del Cristaboni, con lo stuzzicadenti in bocca e le mani sulla
schiena, raccomandava alla donna di non darsi del male, che c'era lui a
difenderla se mai ci fosse stato qualche mascalzone che avesse osato toccarle
un capello. E, dicendo questo, entrava a raccogliere il bimbo che fiatava
ancora, e, con delle maledizioni per il padre che avrebbero dovuto consegnare
agli agenti di polizia, lo metteva nelle braccia della madre ingrossando la
voce per eccitare il toro. Ma Cristaboni non se ne dava per inteso. Seduto
sulla seggiola vicino al tavolo, premeva il tabacco nel gessino e cercava lo
zolfanello per accenderlo.
— Brutto vigliacco!
Il furore di Vittoria, alla presenza del Luzzera e col fanciullo tra le
braccia, si addolciva con una profusione di lacrime e di singhiozzi che
laceravano l'anima.
— Ci vorrebbe un po' di corda per dei malfattori come voi! Non so chi mi
tenga dal prendervi per i baffi e lanciarvi giù dalla ringhiera, faccione da
forca!
Vittoria, che doveva poi rimanere sola, gli metteva la mano sulla
schiena come una preghiera, dicendogli che ormai era quieto. Era sempre così
quando beveva troppo. Dio le aveva dato una croce pesante da portare, e fin che
si trattava di lei, poteva portarla con pazienza. Poteva anche morire, per la
sua vita da cane che conduceva. Ma i figli erano i suoi figli e voleva loro
bene. E baciucchiava il Richetto con trasporto, ninnandolo sulle braccia come
una balia.
Tutto era finito. Luzzera stava per svoltare l'uscio facendo gli
occhietti alla donna come per dirle: chiamatemi se ricomincia la storia delle
mani, quando Cristaboni, con un salto da tigre appiattata, gli si gettò alla
schiena, cingendogli i fianchi con la contorsione del serpente boa che vi
toglie il respiro e vi stramazza al suolo sfiorito come un cadavere. In terra,
senza dargli tempo di prendere fiato, gli andò addosso con una filata di calci
a ammaccarlo dappertutto. Le donne e i fanciulli alternavano il pianto alle
grida, il corridoio si affollava di persone e Cristaboni scappava inseguito
dall'«assassino! assassino!» fin giù per le scale male illuminate che egli
discendeva a precipizio, e irrompeva nella nebbia grigiastra che lo inghiottiva
e lo salvava dalla gente che voleva farlo a pezzi.
A mezzanotte la pioggia scrosciava. Non si sentivano più che le voci che
manifestavano il godimento di andare a mettersi sotto le coltri e il pan! pan!
degli usci che chiudevano fuori l'umidore fumido. Le scale traducevano la
quiete del Casone. Non c'erano che gatti che si inseguivano per le ombre dense,
rotte qua e là dalla fioca luce che tremolava sotto il labbro del bicchiere
sull'assicella coperta di lana rossa, inchiodata ai piedi della Beata Vergine
dipinta sulla muraglia del largo tra lo svolto delle due scale. Il cielo era
nero e sottosopra, con le nubi, che in un dato luogo si rivolgevano su se
stesse a fasci, in un altro si stracciavano flemmaticamente lasciando per dei
secondi lembi snuvolati e in un altro ancora passavano a montagne che
diventavano incandescenti ogni qualvolta le attraversava la folgore.
C'erano degli attimi in cui l'acqua piovana, che prorompeva per le
tegole e per i sassi con fragore, pareva stesse per ammansarsi. Ma subito dopo
il firmamento sussultava con dei sordi muggiti, l'acqua si riversava a secchie
e dai tubi sporgenti delle tettoie precipitava a colonne col fracasso delle
cascate d'acqua fra le gole delle montagne. I lampi lasciavan vedere il terreno
inondato e spumeggiante dalla pioggia che correva in tutte le direzioni per
trovarsi uno sfogo.
Siliprandi russava allo stesso posto, coi piedi nei guazzi e il corpo
adagiato nel liquido.
I tre suonatori ambulanti entrarono, braccio sotto braccio, con il collo
del soprabito in piedi, trascinandosi da una parte e dall'altra, cantando a
perdita di gola come sotto una volta serena, soffermandosi sotto l'acquazzone
come per piegare la voce alla mollezza della loro canzone.
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