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Paolo Valera
La folla

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Era domenica, con un cielo di piombo. Gigia giungeva all'ospedale con un codazzo d'amiche. Ciascuna di loro, aspettando intorno all'alto paracarro vicino al lampione, parlava di Luigia con una profusione di ammirativi. Nessuna donna del cortilone era mai stata laboriosa come la lavandaia del pianterreno. La si ricordava d'estate, quando usciva in camicia con un semplice fazzoletto a fondo rosa puntato al collo a distendere sulle corde la biancheria contorta e gocciolante che le donne le portavano nei cavagnoni. O nei pomeriggi afosi quando, seduta sulla scranna, coi piedi nudi sullo sgabellino, strasudava stiracchiando e spiegazzando la biancheria asciutta che divideva per capi e gettava nelle corbe a fagotti. Durante la cernita non mancava mai di fare considerazioni che rivelavano il suo cuore. Le piangeva l'animo di contare per dei capi delle ragnatele che non tenevano più da nessuna parte o degli stracci che non si erano disciolti nell'acqua per miracolo. La sua onestà era proverbiale. In tanti anni non s'era mai sentito fare del chiasso al suo uscio per farsi restituire delle mutande o delle lenzuola che certe lavandaie, come la Annunciata, fingono di perdere al fosso. Ella si faceva scrupolo di restituire anche una calza rotta. L'avevano veduta migliaia di volte andare di uscio in uscio con un bavaglino o una fascia di bimbo o una camicia lacera che non valeva un quattrino.

Tenete, che non so che farne della roba vostra.

E se le si diceva che non valeva la pena che la si scomodasse per così poco, rispondeva che la farina del diavolo va in crusca.

Pochi minuti dopo arrivavano la Scavalcatetti, la Morettona, la Bislunga e la Senzanaso, quattro celebrità del Redefosso che avevano lavorato assieme, per degli anni, alla Luigia, nelle belle giornate in cui si puntavano la sottana sull'osso sacro e lasciavano vedere le gambe fino al ginocchio senza paura di fare della pornografia plastica.

La prima era una diavola che andava su come una pertica, con una testa affollata di capelli neri e crespi sur un collo lungo e sottile, con gli occhi sbarrati e fissi della folle, e con una voce da soprano. La seconda era un donnone con la gola bronzata e scoperta fino alla fossetta e la pelle della faccia che tirava al rame. Pareva una selvaggia cresciuta in mezzo alle folate di vento. La terza era affusolata e alta come un palo, con un collo da giraffa, senza spalle, senza fianchi e col busto e le gambe che parevano di legno. La quarta aveva un naso mostruosamente schiacciato, con due buchi voltati verso la gente come due canne di pistola e una bocca smisurata che si spalancava come un abisso illuminato all'orlo dal candore dei denti.

Si facevano notare per gli anelli d'oro nelle orecchie, i capelli pettinati alla bambina, la veste marrone spruzzata di pupille infocate e le zoccole con le pattine di pelle verniciata, sormontate dal laccio a gala del bindello verde. Se uscivano o andavano a spasso con la loccheria dai calzoni a campana, si cingevano il collo di un mezzo foulard magenta che le colorava e aggiungeva energia alla loro carnagione cotta dal sole. L'affezione dell'una per l'altra e l'intimità di tutte erano inconcepibili per coloro che non le avevano vedute crescere come sorelle che si idolatrano e che non possono stare separate due secondi. L'indugio di una diventava l'inquietudine delle altre. Si rivedevano schiacciandosi baci sonori sulle guance come se fossero state assenti degli anni. Unite erano sempre gaie, sempre pronte a godersi le compagne che confidavano loro i crepacuori, sempre disposte a buttare dall'altra parte del marciapiede una frase birichina contro una frase scollacciata della pivelleria che passava.

Diventarono zitellone senza lasciarsi inacidire il carattere di mattacchione e senza lasciar credere che la loro primavera fosse tramontata. Continuavano a bere alla tazza del vinaio e dell'amore con la stessa voluttà degli anni in cui si imparadisavano con gli abbandoni sensuali. I loro amori fugaci, tempestosi, morivano in un'orgia e non lasciavano ricordi dolorosi. Uscivano dalla gozzoviglia cogli occhi bruciati dal piacere e si staccavano dai compagni della notte senza voltarsi indietro, stazzonando la veste come per perderne la memoria. Il loro gusto per gli abbracciamenti senza strascichi non differiva in nulla. Tutte e quattro davano la preferenza alle pelli di porta Ticinese per la loro gagliardia e per quei loro calzoni di fustagno o di velluto che andavano giù strisciando per le cosce e stavano sui fianchi fasciati dalla allegria della ciarpa di seta solferino coi fiocchi dondolanti sotto la giacchetta breve. Più di una volta pagavano loro il vino e il letto e più di una volta si comunicavano i compiacimenti individuali e si scambiavano gli uomini con la facilità con cui si cambiavano la paglia asciutta della cassetta al lavatoio. La Luigia dissentiva. Essa aveva la debolezza di scavarsi una nicchia nel cuore dell'uomo che le dava trasporti e di sognare la tranquillità dolce della famiglia. Fu così che rimase attaccata a un paio di calzoni con amore intenso.

Alle quattro amiche era spiaciuto, ma non le avevano serbato rancore. Dopo alcune settimane di matrimonio andavano ogni lunedì a strascinarla via dal lavatoio, anche nei momenti in cui essa, con le braccia che si levavano dall'acqua gocciolanti, giurava che non voleva muoversi. Non si trattava che di un minuto per una lacrima di mistrà o una marena annegata nello spirito. Il mistrà era più forte di lei. Si lasciava sedurre e si ostinava dopo a voler pagare la bicchierata di turno. Divenuta vedova, le capitavano addosso di sorpresa e le davano una mano nelle giornate che la vedevano col lavoro alla gola. Divenuta sciaticosa, erano loro che tiravano innanzi il carro e che le tenevano assieme le clienti per pura amicizia. Non erano mica state tanti anni allo stesso lavatoio per nulla. Facevano, si può dire, a gara. La Morettona s'avviava verso porta Ticinese e la Bislunga entrava nel cortilone. Andava via la Scavalcatetti e prendeva il suo posto la Senzanaso.

Tanto più si avvicinavano le dieci, quanto più la moltitudine che aspettava l'apertura dei cancelli ingrossava. All'entrata c'era il portiere pancione, con le ganasce lardose e lucide, che non si lasciava commuovere né dalle preghiere, né dalle narrazioni strazianti, né dalle lacrime delle persone nelle cui orecchie imperversava il rantolo dei loro cari. Lui si attorcigliava i baffoni e non dava ascolto a nessuno dei piangioni che non vedevano che cadaveri. Un ammalato per loro era bello e morto. La sua consegna era una consegna di ferro, che gli aveva insegnato che la pietà è un lusso e che la fretta non sta di casa all'ospedale. Si poteva morire anche senza la presenza dei congiunti. Anzi, lui apparteneva al gruppo ospitaliero che credeva che i parenti e gli amici intorno al letto dei morenti peggiorassero la loro condizione. Tutta quella commozione che andava al cuore degli infermi li mandava con maggiore sollecitudine all'altro mondo. I parenti singhiozzano e si disperano, l'ammalato singhiozza e si dispera e nell'ambascia l'ultimo perde la vita. Con che sugo? Una contadinotta, con la testa piena di spadine e lo scialle damascato che la ravvolgeva fino alle gambe come una madonna, col cestino che portava le uova fresche e il formaggio grattuggiato, lo scongiurava di lasciarla passare in nome della santissima Vergine, perché l'agonia di suo marito era incominciata da sabato. Aveva fatto più di diciotto chilometri a piedi, zoccolando per la mota dello stradone per arrivare in tempo a vederlo. Era una carità che non doveva negarle, perché Iddio lo avrebbe ricompensato. Marco pareva di sasso. Erano le solite storie che gli entravano da una parte e gli uscivano dall'altra. Con le mani per la giubba dai bottoni inargentati, parlava d'uguaglianza. Era una bella pretesa che avevano di voler passare prima degli altri. La legge giusta doveva essere uguale per tutti. Erano di una esigenza che lo metteva di malumore. Si accettavano all'ospedale senza domandare loro un centesimo, si mettevano nelle lenzuola fresche di bucato che era un piacere, si davano loro i medici più bravi del mondo, si servivano e si curavano assai meglio dei signori, si nutrivano a quarti di pollo che non mangiavano alle loro case neppure sani, e poi avevano anche il triste coraggio di lamentarsi! Si aveva ragione di dire che le cose gratis disgustano e fanno nascere desiderii smodati. Se avesse avuto voce in capitolo, avrebbe ridotte le visite a due al mese e imposto una tassa di entrata, magari di una semplice lira, a ciascun ammalato. Con un sistema in armonia coi bisogni degli ammalati, si sfollerebbero le crocere e i postulanti sarebbero dei veri ammalati. Adesso la maggioranza era rappresentata dalle carcasse, dagli uomini tutta pelle, dalle donne senza carne indosso, dai morti di fame. Si andava all'ospedale come si va a far pancia in villeggiatura. E i villani! Non erano che dei pivioni, degli intrusi, degli scrocconi e dei furbi che si adagiavano nel letto della carità pubblica per mettersi in sesto il corpo a spese dei milanesi. Invece di lasciarli passare prima degli altri, godeva a lasciarli sull'acciottolato a trepidare dal freddo. In certe giornate di umor nero i paesani diventavano il suo materasso. Andava loro idealmente sullo stomaco coi piedi. Se i Comuni non volevano pensare ai loro ammalati e ai loro cronici, tanto peggio per loro. A lui non importava proprio nulla. Quello che a lui importava era che i testatori avevano lasciate le loro sostanze all'ospedale dei milanesi. Con l'ammissione dei contadini non si faceva tempo a scaricare un cadavere nella stanza mortuaria, che ci era già una folla che aspettava di prendere il suo posto. Prima di portiere egli era stato becchino. In allora c'erano dei momenti di tregua. Ora non si sapeva più il giorno in cui la sala di osservazione aveva un letto vuoto. Staccato il campanello a un cadavere, lo si attaccava a un altro per ricominciare da capo. E perché poi questa operazione? I morti non si risvegliano. Ma se qualcuno di loro facesse lo scherzo di tornare indietro, chi lo sentirebbe? Il becchino che lavora tutto il giorno ha altro per la testa che stare con le orecchie in piedi. Il sistema andava sempre peggiorando. In tant'anni da che lui era portiere, i letti si erano sestuplicati senza riuscire a ammetterli tutti. C'erano poi dei medici sbadati che non sapevano mai dire di no. Ah, se avesse comandato lui! Chiunque andava da loro con la guancia in mano era ammesso. Alcune volte ammettevano della gente che lui avrebbe scaricata nella fossa comune senza sciupare dell'altro denaro. Erano dei veri pitocchi che vi andavano a spidocchiarsi e a rifocillarsi lo stomaco. E l'ospedale non era mica un albergo.

Le vetture dimezzavano e tumultuavano la folla, sterzando verso la porta spazzata dagli imperativi di Marco, e salendo per la montata col fracasso dei ferri dei cavalli che sdrucciolavano perdendo scintille fin sulle pietre del porticato. Erano broughams con le tendine calate, carichi di ammalati e di vittime degli accidenti della vita. Venivano tirati fuori a braccia dagli infermieri che conversavano fra di loro, deponendoli sulla barella, magari senza guardarli in faccia e senza udire i lamenti che vagolavano per le colonne come voci di morenti. Erano abituati a queste scene quotidiane, che si ripetevano di ora in ora, di giorno e di notte. Il brougham 298 vi aveva condotto una suicida che si era sparata due colpi di rivoltella in direzione del cuore per punirsi di portare nel ventre un tumore maligno che la chirurgia moderna recideva senza impedirgli di rinascere altrove. Pareva dissanguata. Era biancastra e livida, con le labbra stinte e il seno sbottonato e strisciato di sangue nerastro e rappreso intorno al capezzolo impallidito. Si abbandonava di peso sulle braccia turgide degli infermieri, mormorando di lasciarla morire, che aveva sofferto anche troppo, che ne aveva abbastanza di vita tribolata.

Lasciatemi morire! Voglio morire!

Intorno ai venditori e alle venditrici ambulanti, a pochi passi dai paracarri esterni, c'era una moltitudine che si decomponeva e si rifaceva più larga di minuto in minuto.

Uomini e donne non volevano andare ai letti con le mani vuote. Comperavano un po' di tutto. L'arancio per umettare le labbra aride dell'ammalato, i biscottini per consolargli lo stomaco con qualche cosa di leggiero e morbido, cinque centesimi di zucchero grasso e un limone per non lasciargli bere l'acqua pura, del formaggio grattuggiato per migliorargli il pantrito, la zuppa, la minestra, e degli ossi detti di morto con le mandorle che facevano tanto bene. Alcune donne, che dicevano di sapere come si stava all'ospedale, avevano sotto le gonne dei panini freschi, dei panettoncini caldi, qualche boccone di carne e una noce di formaggio di grana piangente che faceva risuscitare i morti e tirava fuori dal letto i vivi. C'era tra loro qualche vecchio rimbambito che diceva che bisognava lasciar fare il mestiere a chi lo sapeva e che facevano male a dare agli ammalati quello che i medici avevano proibito. Aspetta cavallo che l'erba cresca. Morirebbero tutti di fame. Sapevano bene che cosa davano i medici. I medici non sapevano che far loro trangugiare porcherie che indebolivano e mandavano al cimitero. Invece i nostri vecchi, che si curavano bene, si curavano con dei brodi di carne di prima qualità, con un bicchiere di vino vecchio di bottiglia e con dei petti di piccione e di pollastro. Marco si fregava le mani, parlava ad alta voce, come a se stesso, dicendo a tutti sulla faccia che facevano benone a comperare la morte dei loro ammalati. Nessuno lo avrebbe udito lamentarsi. Andavano all'ospedale questi porci di pitocchi per guarire e poi facevano di tutto per caricarsi lo stomaco di roba velenosa che combatteva il lavoro del medico. Ci sarebbe voluto un po' di staffile per certa gente! Se non ci fossero state alle entrate delle sale le monache e gli infermieri a frugarli, gli ammalati sarebbero morti tutti come le mosche. Le donne gli voltavano le spalle con orrore. Non potevano credere che ci potesse essere un uomo alla porta dell'ospedale con il suo cuore di piombo. Lui era grasso e faceva bene a ridere della povera gente. Avrebbero però voluto vederlo in letto addolorato dai malanni, se avesse avuto il coraggio di pronunciare le stesse sciocchezze! Loro sì che sapevano che cosa voleva dire trovarsi in una crocera senza soccorso. Facevano male! Sicuro che facevano male. Ma all'ospedale non si ordinavano i cibi che tirano su lo stomaco se non ai degenti in punto di morte. E quando si è moribondi, cari miei, non si ha più voglia di mangiare le cose buone. Si faceva male, sicuro che si faceva male, ma i signori a buon conto si facevano guarire a casa, nei loro letti. E guarivano perché si tiravano su con dei rossi d'uova, con dei bicchierini di marsala, con dei brodi di gallina, con delle ale di pollanche che piluccavano tutto il giorno e delle fritture di cervella leggermente impanate con l'uovo, con sopra una lacrima di limone.

In su e in giù nascevano i discorsi sulle malattie. Una volta c'era più misericordia. Non tagliavano giù la povera gente a fette come ora. Si aveva un po' più di rispetto per il corpo umano. E si stava meglio. Non s'erano mai veduti tanti ammalati come in questi tempi. Non si sapeva più dove metterli. Al giorno d'oggi vi guardano in gola con dei ferri contorti che fanno rabbrividire e vi portano via dei pezzi di carne rossa da far piangere. Vi passano delle bacchette d'acciaio per il naso e per le orecchie, e vi frugano su e giù come se foste di carta pesta. C'era la sorella di una contadina che parlava con orrore dei ferri. Alla sua povera Teresa, che forse era morta, avevano asportato una mammella intiera perché faceva un po' di materia. Un tempo era un male che si guariva con delle pappine di linosa. Ah, il bel giovamento che le aveva fatto l'operazione! La settimana scorsa era più morta che viva. Tossiva come una disperata e tirava su del catarro che pareva marcia. La roba purulenta del petto le era andata fino in fondo allo stomaco. La materia aveva semplicemente cambiato di posto. Bisognava essere stupidi per non capire che i poveri servivano di studio alla cura dei ricchi. Si narrava di una povera donna col ventre gonfio come una balena, morta per gli istrumenti che le avevano cavata l'acqua. Le avevano fatto patire tutti i dolori della terra per venire a questo bel risultato. Lasciateli almeno morire come vuole il Signore, senza tante torture. E la donna che diceva questo si infagottava le braccia nello scialle e si voltava dall'altra parte per non essere obbligata a vedere Marco che faceva il gradasso perché era sano. Era meglio parlare d'altro. Perché a pensarci sopra si drizzavano i capelli sulla testa. Bastava semplicemente ricordarsi dei vecchi che guarivano il mal d'occhi con dell'acqua benedetta o con dell'acqua fresca di Caravaggio, sbattuta nelle occhiaie parecchie volte al giorno, per capire che i ferri erano i ferri.

Ora, che santa Lucia conservi a tutti la vista, era meglio morire che farseli curare. Ci andavano dentro coi loro strumenti maledetti a scavare come in una buca. C'era una vecchia che poteva fare da testimonio. Anni sono le avevano tirata via una cataratta che non le faceva il menomo male. Ci vedeva un po' meno, ecco tutto. E ora? I ferri erano i ferri. E ora lei non era più lei. La sua vista si era andata indebolendo e i suoi occhi erano diventati due fontanelle che piangevano dalla mattina alla sera.

Gigia sentiva e approvava. Aveva anch'ella un sacro orrore per le operazioni chirurgiche. Una mattina le era venuto il cattivo pensiero di andare all'ambulanza medica a farsi curare lo stomaco che digeriva male da un po' di tempo e le dava coliche che la piegavano di notte in due. Il medico era un piccoletto con una gran barba castagna e una vocina d'uomo flemmatico. L'aveva fatta adagiare sul lettuccio coperto di tela incerata, le aveva battuto sul ventre con la punta delle dita senza domandarle neppure compermesso e poi voleva soffocarla con un lungo tubo di gomma che doveva nettarle lo stomaco come si netta un pisciatoio. Se lo avesse ascoltato, a quest'ora sarebbe forse morta. Ginevra voltava via la faccia perché le facevano male i discorsi sugli scorticamenti degli ospedali. Era un vero macello. Per suo conto avrebbe preferito morire due volte piuttosto che mettervi piede. Non c'era mai voluta andare neppure quando vi aveva una zia ammalata di flemmone. Carolina provava una sensazione che rasentava lo spasimo ogni qualvolta si parlava di operazioni. Se si discorreva di una gamba tagliata via, si sentiva la sega sull'osso che le faceva subire delle contrazioni facciali e dei dolori sottili che le andavano su fino alla radice dei capelli. Un dente nella tenaglia di un frate la faceva sudare come in un bagno turco. Stamattina andava nella crocera delle ammalate per stare con le amiche e per portare quattro amaretti a quella povera Luigia che le lavava tanto bene la biancheria di colore. Ella aveva in saccoccia una fetta di panettone eccellente, messa via nella giornata di Natale a bella posta. E Gigia stava comperando due aranci e due ossi di morto, che la venditrice diceva miracolosi. Molte ammalate erano guarite a mangiarne una mezza dozzina.

Si vedeva che veniva anche Zaccaria, il figlio della lavandaia.

L'omone che stava con la schiena al fusto del lampione, tagliava l'aria con la mano, come per dire di smettere di parlare di operazioni. Non ce n'era uno nella folla che avesse avuto la sua disgrazia. Una disgrazia che lo faceva tremare come una foglia anche in quel momento. La sua Teresa, sana e robusta come una pianta, aveva in allora quattordici anni. Lavorava in filanda e cresceva diritta come un asparago. Cinque mesi prima di condurla all'ospedale aveva ricevuto un colpo contro il filatoio. Il medico condotto non aveva dato importanza alla ferita e credeva di averla tappata con un po' di cerotto. Ma la ferita era di quelle che si coprono con sotto la marcia. Quando gliela si lavava con l'acqua e l'aceto veniva fuori l'odore della putredine. All'Ospedale maggiore... Bisognava scusarlo se gli si inumidivano gli occhi. All'Ospedale maggiore le hanno trapanato il cranio come se fosse stato quello di una marmotta o di una scimmia. I medici lo consolavano dicendogli che la povera ragazza aveva in fondo una roba fungosa. L'hanno tormentata coi termometri nel cranio per sapere se in certi momenti si scaldava più il cervello o l'ano e me l'hanno fatta morire!

La disgrazia dell'omone sollevò l'indignazione. Eran tutti d'accordo che i poveri cristi servivano per le esperienze con le quali si dovevano poi guarire i signori. Era ingiusto che ci fosse un mondo cane che lasciava scannare i pitocchi per tenere in vita i ricchi. Marco rideva e dava a tutti della bestia. Se c'era qualcuno che era curato proprio bene, era l'ammalato dell'ospedale. Se si tagliava, era perché bisognava tagliare.

Bestioni! È un peccato che non abbia io il coltello in mano. Meritereste proprio che vi si facesse a fette!

Zaccaria andava innanzi con la punta del virginia di brace che gli accendeva ancora di più il faccione di brentatore, con le mani nel paltò cannella, il cappello nocciuola sull'occhio, e una cravatta a colori fatta in quattro.

Gli avevano mandato una cartolina dove gli si diceva che sua madre stava male. L'aveva in saccoccia da tre giorni, perché non poteva dire al padrone che aveva bisogno di andare all'ospedale. Se non faceva la giornata nessuno gliela pagava.

— Buon giorno!

Salutava le ragazze guardando l'orologio attaccato alla catena d'argento che lo faceva passare per un lattaio. C'era venuto un quarto d'ora troppo presto. Gli si diceva che era un peccato che non avesse imparato il mestiere della madre, perché una disgrazia poteva sempre capitare da un giorno all'altro. Le clienti c'erano, i posti al lavatoio c'erano, i locali nel cortilone potevano essere aumentati e con della buona volontà avrebbe potuto guadagnarsi dei bei quattrini. Gli mancava la donna. Ma a un giovanotto robusto come lui non poteva mancare. Non aveva che da mettere in terra il cappello per trovarsi imbarazzato nella scelta. Lui lasciava dire, buttando in aria il fumo, mettendo semplicemente, tra un elogio e l'altro, una spallata o una smorfia. Non gli era mai piaciuto il mestiere della mamma. Era un mestieraccio che riempiva la casa di camicie fetide e di stracci che l'acqua finiva di consumare e di biancheria distesa come in un prato. Se la Luigia lo avesse ascoltato non sarebbe, in una giornata come quella, in un letto reumatizzata. Con le braccia nei secchioni dalla mattina alla sera e le ginocchia sempre nel bagnato, non era possibile star sani neanche con una salute di ferro. Lui faceva il tintore, un mestiere che lo teneva nell'acqua mica male. Ma loro, in fabbrica, avevano i riguardi che non hanno le lavandaie. Si tenevano i piedi negli zoccoloni alti fino alla caviglia, col fondo del piede basso, e si coprivano dal petto alle estremità delle gambe con un grembialone di pelle che andava loro intorno ai fianchi. Risciacquavano le matasse nella corrente e rientravano in fabbrica senza una goccia d'acqua indosso. Al fosso le donne non avevano nessuna cura e continuavano a lavare sotto uno straccio di ombrello sfondato dalle bacche anche quando diluviava. Ci volevano dei lavatoi pubblici, protetti dalle vetrate, riparati dall'aria da alte muraglie come li aveva veduti un suo compagno di lavoro a Lione.

La moltitudine era divenuta silenziosa e era tutta rivolta verso Marco, il quale stava all'entrata con le code della marsina di panno azzurro scuro attorcigliate nelle mani sui calzoni di dietro. Tra le donne primeggiavano le teste coperte di scialletti variopinti, e i fianchi coperti dalle gonne giù a piombo, impillaccherate dalla fanghiglia in cui avevano dovuto zoccolare lungo gli stradoni dei paesi circonvicini, ancora inzuppati dell'acquazzone di ieri. Tra gli uomini, i cappelli flosci coll'orlatura colorata di scuro e la penna di cappone sul bindello in giro al copricapo. Le loro scarpe, dalla suola grossa due dita e costellata di chiodi, erano appesantite dalla mota che avevano raccolto lungo il viaggio, e lo sparato candido della loro camicia a pieghettine, stirato a forza di braccia, non lasciava dubbio ch'essi appartenevano alla grande famiglia che fila la tela in casa e l'imbianca per i campi che coltiva. Il resto era poveraglia cittadina. Tube lavate, cotte dalla pioggia, abbrustolite dal sole, cappelli dall'ala stroncata o gualcita, scialli smunti e tarmati, sottane dalle balzane stracciate, con gli strappi ciondoloni, vesti mendate e rimendate, giacche logore e sfiancate, baveri unti e bisunti, redingote spelazzate dalla spazzola, pellegrine lacerate, scolorate, cicatrizzate, panciotti che perdevano un po' di camicia da tutte le parti e scarpe sdruscite, scalcagnate, slabbrate, coperte di maccherelle. Facce vecchie e giovani, ossute e carnose, butterate e bernoccolute, nasi di tutte le dimensioni e di tutti i colori, grinte alcoolizzate e criminalizzate, capelli grigi, capelli neri, capelli biondi e teste senza capelli, guance profondamente adimate dai patimenti e fattezze grassocce e fiorite di primavera. Bocche invecchiate, appassite, sdentate e bocche fresche e colorite come il sangue del maiale; occhi ammantati di vivezza, occhi loschi, occhi stracchi, occhi che stavano consumando gli ultimi barbagli della vita. Mani incartapecorite, mani tremolanti, mani rugose, callose, ruvide e mani gentili, in carne, con le unghie pulite e le dita affusolate come quelle delle suonatrici di piano. Tutta poveraglia piena di cuore che trepidava per i suoi cari, che aveva pensato una settimana per mettere assieme il soccorso, che si lasciava empire di lacrime prima di entrare e che giungeva al letto degli ammalati con la gola piena di commozione.

L'orologio sul frontone dell'ampio cortile suonava le dieci e mezzo e Marco si ritirava sull'alto che fiancheggia l'entrata a sinistra e la gente pigiata si muoveva tutta assieme, gli uni calcando gli altri, assottigliandosi all'imbocco del portone e riuscendo sotto il portico come portata o spinta dalla fiumana. Marco impallidiva tutti i mercoledì e tutte le domeniche. Egli doveva frenarsi per non buttarsi sulla moltitudine a risospingerla, a ricacciarla di nuovo nella strada e obbligarla a rientrare ordinatamente. Così, come facevano, riuscivano nelle sale con dei ritardi e arrischiavano di schiacciarsi le costole e rompersi le ossa. Ma in tanti anni i suoi avvertimenti non avevano corretto alcuno. Era una folla indisciplinabile che si rinnovava da una settimana all'altra e che faceva orecchio da mercante anche quando si parlava per il suo bene. Ci sarebbe voluto una catastrofe. I teatri sono stati migliorati dagli incendi. Con dei cadaveri rimasti sotto i piedi dei violenti, l'amministrazione si sarebbe decisa a mettere la barra ch'egli andava raccomandando di anno in anno. Con due barre in croce, i visitatori sarebbero obbligati a passare a due per volta, uno a destra e uno a sinistra. Ma l'amministrazione era cieca, cocciuta e lo trattava da pazzo. La sua esperienza non valeva niente per tutti quei signori che stavano al tavolino a fare delle cifre. Si vedeva bene che un giorno o l'altro doveva avvenire un massacro. Ma l'amministrazione non provvedeva. Aspettava il disastro. Peggio per lei e per il disastro. La sua coscienza era tranquilla. E finiva dicendo, come al solito: «Così va il mondo, bimba mia».

Gigia si ostinava a dire che la Luigia doveva essere al pianterreno, perché la Ventura del cortilone, che era stata a trovarla la domenica scorsa, le aveva detto che si trovava al numero 7 della sala Anastasia, tra una giovine e una vecchia che avevano poco da campare, perché in tutto il tempo che vi rimase non avevano aperto gli occhi. Zaccaria invece era sicuro che doveva essere al 70, nella sala chirurgica Bianca Maria Sforza, al primo piano, ove mettevano tutte le operate. Convennero che sarebbe stato meglio interrogare il primo infermiere.

— Di grazia, l'ammalata Luigia Ponticelli?

L'infermiere, con le braccia nude come d'estate, col grembiale a petto che gli lambiva le scarpe, tirava innanzi per i fatti suoi, col gesto della persona affaccendata che non ha tempo da sprecare. Egli non ascoltava nessuno e neppure quelli che piangevano e gli domandavano se potevano andare a vederli nella sala mortuaria. I due infermieri, alla base dello scalone a sinistra, chiacchieravano tra loro, lasciavano passare senza seccarsi. Avrebbero avuto un bel da fare se avessero dovuto occuparsi di tutti gli individui alla ricerca degli ammalati. C'erano dei balordi che non sapevano né dove andavano, né che cosa volevano. A momenti bisognava dir loro anche il sesso delle persone che cercavano. Ci sono i compartimenti, i letti numerizzati, le sale con tanto di nome e cognome e tuttavia si vedevano disorientati, cogli occhi in aria, indecisi se andare da questa o da quella parte. Il professore Guglielmini diceva l'altro giorno agli studenti che sarebbe stato desiderabile che in un ospedale di primo ordine si fosse pensato agli ascensori come negli ospedali degli Stati americani. In America la gente doveva essere più rispettosa e ubbidiente. Qui non ci sarebbe verso di farli entrare a poco per volta. Vorrebbero entrare tutti assieme. E una volta o l'altra gli ascensori precipiterebbero carichi pieni. Dopo si griderebbe la croce contro i poveri infermieri che non hanno saputo impedire che si riempissero.

All'entrata della sala Bianca Maria Sforza cerano le suore di carità che davano una manata sulle tasche e facevano vuotare quelle troppo voluminose. Se non stavano attente, sarebbero passate delle geriate di pane giallo. C'era una contadina che non voleva persuadersi di lasciare alla porta una mezza dozzina di pomi di terra cotti nella cenere. Un povero uomo sosteneva che nessuno gli poteva proibire di portare un po' di vino alla sua reggiora bisognosa di ristorarsi lo stomaco. E quell'altra sposina, con la testa che pareva un sole di spadine, piangeva a lasciare nelle mani delle suore il cestino con le uova fresche tolte dal pollaio, tra ieri e ieri l'altro, per la sua mamma che doveva essere debole dopo l'operazione che le aveva fatto perdere tanto sangue. Ginevra, Carolina e Bigia, tagliavano i panni alle donne votate al Signore e alla Madonna che avevano il fegato sano di impedire ai parenti di fare quello che potevano per tirarli fuori dal letto. Se fossero state in un altro luogo avrebbero insegnato loro un po' più di belle maniere. La gente non andava mica a rubare per buttar via i quattrini in quel modo. Ci voleva un po' di buonsenso, ci voleva.

— Di grazia, l'ammalata Luigia Ponticelli?

La sala a colonne si andava popolando; qua e i gruppi si rompevano intorno ai letti e alcuni letti scomparivano dietro una siepe di gente che univa il susurro ai susurri della conversazione generale; questa diventava, negli angoli, un brontolio sordo che passava per le orecchie come una confusione di voci spiacevoli. I finestroni ogivali cambiavano l'aria senza distruggere l'odore ingrato che usciva da tutte quelle gambe sepolte sotto le coltri e dalle filate dei pitali nel comò di ferro. Con tanto acido fenico e tanto cloro si aspirava l'alito impuro delle degenti che faceva impallidire e venire il mal di capo a più di una visitatrice. Carolina tossicchiava e col fazzoletto bianco alla bocca domandava scusa degli assalti di tosse perché non era abituata a girellare per le sale degli ospedali. Molti uomini e molte donne entravano come in casa propria e andavano, senza fermatine, al letto che li aspettava, e senza badare agli altri, con il viso in aria come tanti allocchi. La 32, con le braccia secche come due bastoni e le occhiaie bluastre, faceva paura, e obbligava la Gigia a fare uno sforzo per tenersi in gola il vomito che le veniva a sentirla schiarificare e buttare nella sputacchiera il catarro con fracasso. Zaccaria, con gli occhi sempre al soffitto, diceva di toccar via, che il 77 doveva essere quasi in fondo. Gigia era dolente che Adalgisa avesse mancato di parola. Le aveva detto che sarebbero passati dai gradini del Duomo alle dieci precise e alle dieci precise, anzi un po' prima, c'eran passate. Era una buona ragazza, non si poteva dir niente, ma aveva paura che non avesse gran cuore. Parecchi infilavano il vano tra i due letti e si curvavano sulle ammalate con dei baci a fior di pelle. C'erano delle povere donne con le teste affondate di peso nel guanciale, col viso di cera, con gli occhi chiusi, con le braccia lungo i fianchi e col corpo piatto sotto la coperta. Faceva schifo la vecchierella incuffiata del 63 che domandava la padella nell'ora della visita. Doveva pensarci prima. Ma già le vecchie sono come i bambini. Non hanno giudizio. L'infermiera diventava di brace e agitava le mani come per dire che bisognava avere pazienza. Pareva che lo facesse a posta. Un accidente poteva capitare a tutti. Ma tutte le volte, tutte le volte che c'era in giro il pubblico era una cosa insoffribile. I parenti che erano a trovarla s'erano voltati dalla vergogna, dicendo anch'essi ch'ella avrebbe potuto scegliersi un'ora più comoda. E un'altra! La giovine nel terzo letto più innanzi faceva dimenticare l'urgenza della 63, chiamando l'inserviente con delle scampanellate che spaventavano la sala. Anch'essa era disturbata dallo stesso bisogno. Era una giovanotta con le trecce disfatte del calore della canape per il cuscino, coi pallori dell'operata che aveva perduto molto sangue, con le alture del seno che ansavano sotto il lenzuolo e con le braccia rotonde e seminude che andavano per la coperta a manifestare la tortura del ventre. Non c'era nessuno al suo letto e l'infermiera non aveva fretta perché erano sei giorni che s'aspettava la sua scampanellata. Da due giorni il professore andava dicendo che domani le avrebbe ordinato un enteroclisma, perché dopo l'operazione, la poverina, aveva continuato a dormire come se fosse stata ancora sotto l'azione del cloroformio, tirando su a stento le palpebre quando la si schiaffeggiava per risvegliarla. Era un mestiere per il quale ci voleva molto cuore e uno stomaco di bronzo. Senza quest'ultimo si sarebbe tirata su l'anima. Certi bisogni venivano quando venivano, e non si poteva discutere. Il guaio era che si doveva tagliarle tutta la medicatura antisettica di dietro. Con tanta gente attorno non c'era che tirare le cortine.

— Vengo! Vengo! Non si sta quiete un minuto in queste sale. Bisognerebbe avere cento braccia. Il male è il male, non c'è che dire. Ma sanno farselo valere! Ingrandiscono delle inezie. Ci son molte pittime in queste sale. Sono operate e bisogna tollerare tutto. Alcune volte però abusano. Ah, sì! Sentite! Si scampanella da tutte le parti. Adesso chiamo la suora. Voglio vedere un po' io di farla far finita. È troppo, è troppo! Se non ci fosse qui la gente vorrei dire. Su, alzatevi leggermente che vi passo la padella. Così, state quieta e che la Madonna vi secondi.

Dal fondo si vedevano venire Adalgisa, Marianna e Bentoni. Lui e lei erano ravvolti in una grande pelliccia che faceva ritirare in disparte le persone sul loro cammino, come per far largo a dei signori in visita. L'Adalgisa era sicura che le amiche non avrebbero mancato di parola perché la Gigia non era mica una cervellina. Non si ricordava del numero, no. Il figlio di Zaccaria le aveva detto il 17 o il 37. Era più facile che fosse al secondo che al primo. La sala era grande, ma non doveva essere difficile trovare la Luigia. Ella e la mamma non le avevano mai parlato perché, come si sapeva, era una donna asciutta, che salutava e non salutava. La sua faccia era però di quelle che vedute una volta non si dimenticano più, specialmente per i suoi capelli radi e sabbiosi e per le sopracciglia nerissime elevate a virgola sulla fronte. Marianna aggiungeva che tirava più all'uomo che alla donna. I suoi occhi gatteschi e il porro con tre peli sul mento erano indimenticabili. Bentoni, con la tuba e coi guanti in mano, diceva che senza annoiarsi a passare di letto in letto sarebbe stato meglio domandarlo all'infermiera.

— Per favore, l'ammalata Luigia Ponticelli?

— Dall'altra parte, al quart'ultimo letto.

Grazie tante.

Adalgisa, guardando, si era fermata ai piedi della 45 e non ne sarebbe venuta via se Bentoni non fosse ritornato indietro a prenderla per il braccio. Le aveva fatto impressione l'ammalata. Poveretta, non doveva avere più di 30 anni. Faceva pietà a vederla, col viso così affilato dalla malattia, con gli occhi lucenti nelle occhiaie sgualcite e coi due solchi che le andavano dalla radice del naso alla estremità delle labbra! Con le mani teneva le mani di una fanciulla e di un ragazzo ai fianchi del letto e si lasciava bagnare le guance dallo strazio forse di doverli lasciare soli sulla terra.

Il letto di Luigia era affollato. C'erano la Scavalcatetti, la Bislunga, la Senzanaso, la Morettona, la Ginevra, la Gigia, la Carolina, il Zaccaria e le tre ultime lavandaie che lavavano al fosso di Porta Tenaglia per conto dell'ammalata. Cerano alcune donne del cortilone che si pettinavano vicino al suo uscio e poco dopo giungevano il Bentoni, la Marianna e l'Adalgisa. Si salutavano con dei cenni di mano e di testa e si mettevano il dito sulle labbra per dirsi che bisognava star zitti e lasciare quieta la povera donna che stava male. La superiora aveva avvertito la Bislunga che non era ancora fuori di pericolo e bisognava avere dei riguardi. Ieri aveva avuto una febbre da cavallo e questa mattina le si erano sbattuti i denti come se fosse stata in una ghiacciaia.

Ciascuno le aveva accarezzata la mano che teneva sulla coltre, aveva deposto il cartoccio nel cassetto del tavolino da notte, e era rimasto alla sponda in un atteggiamento di persona addolorata. Luigia girava svogliatamente gli occhi affannati, moveva le labbra come se avesse voluto dire qualche cosa e restava ammutolita. Il pensiero di tutti i presenti era che Luigia moriva. Nessuno sapeva capire la tabella della sua malattia, ma tutti leggevano nello sfacelo della sua faccia la data della sua morte. Era stravolta, emaciata, piena di rughe grosse sulla fronte, con due linee scendenti dalla borsetta degli occhi alla bocca che la rendevano orribile. Zaccaria guardava il soffitto, guardava le persone che passavano, guardava i letti e trasmetteva negli altri l'idea che egli faceva di tutto per padroneggiare la commozione che lo avrebbe fatto piangere come un ragazzo. La 76 non la conoscevano. Ma parlava e diceva a bassa voce che era stata operata al nervo ischiatico, nella stessa ora di Luigia. Dal giorno che le avevano messe in letto col cloroformio che ronzava loro nella testa la Luigia non aveva aperto bocca. Nella prima giornata doveva avere avuto più di un tentativo di vomito, perché alle infermiere era toccato pulirle più di una volta la tela incerata gialla che distendono sotto il mento delle operate. Una notte aveva avuto degli scotimenti che avevano fatto accorrere l'inserviente di servizio e dato da pensare alla superiora venuta con la bottiglia del marsala. Il marsala poteva essere buono, ma nel letto dell'ospedale faceva venir in mente il prete con l'olio santo. In tutto questo tempo non era stato possibile farle trangugiare un cucchiaio di brodo. E quando non si mangia, cattivo segno. I medici venivano tutte le mattine, le toccavano il polso e passavano agli altri letti dopo avere guardata la temperatura ascellare sulla tabella.

Si raccolsero nelle spalle per frenare lo spavento che correva loro nella schiena. Era un'altra prova palmare che non bisognava lasciarsi mettere i ferri addosso. I ferri ammazzano i disgraziati come le bestie. Tutte le donne che circondavano il letto di Luigia erano unanimi nel credere che i dolori sciatici non si curano all'ospedale. Se la Luigia si fosse consultata con la Scavalcatetti, la povera donna non si troverebbe in quello stato. A Cassano! a Cassano! le avrebbe gridato. E a Cassano si guarisce. La sua padrona della Ripa di porta Ticinese, prima di andarvi, aveva fatto di tutto e si era persino fatta mettere in un forno ardente. Se ne ricordava perché era stata lei a aiutarla, a resistere fino allo svenimento. Il corpo le gocciolava come un gran pezzo d'arrosto allo spiedo e i capelli le cadevano bruciati. Dovevano scusarla se le ritornavano i brividi a pensarci. Rinvenuta, i dolori le ritornavano più acuti di prima. Finalmente si decise per Cassano. Ah, se la gente avesse del giudizio! La Luigia non si sarebbe lasciata squartare in quel modo. Pazienza. La Marianna, la quale serviva le famiglie più ricche del suo quartiere, sapeva di molte guarigioni. Donna Laura, una signora d'alto bordo, in quindici giorni di Cassano era diventata quasi più bella. Bentoni approvava e aggiungeva che vi andavano anche i signori primarii e i signori medici degli ospedali, se volevano guarire. Non c'era uno solo fra loro che non avesse avuto un amico o un'amica a Cassano. Era una cura facile e poco dispendiosa. Perché la donna che possedeva il segreto non domandava nulla. Se gliene davano, se li metteva in saccoccia; se non gliene davano, li salutava con Io stesso sorriso e augurava loro il buon viaggio.

La donna di Cassano guariva in un modo semplice. Applicava un vescicantone al calcagno della gamba addolorata, ve lo lasciava trentasei o quarantotto ore a lavorarglielo e a squarciarne la pelle, lo tirava via medicandone la ferita infocata con delle semplici foglie spalmate di burro, lasciava che dalla squarciatura uscisse tutta l'acqua che appestava l'aria, e in quindici o venti giorni rimetteva in piedi la persona sana come una quercia. Si raccontava che degli uomini e delle donne ch'eran stati portati di sopra a braccia dai facchini, perché non sapevano reggersi, erano usciti dall'osteria degli sciaticosi pochi giorni dopo, come gente che non avesse mai avuto niente. I nostri vecchi, aggiungeva Marianna, non sapevano neanche cosa fossero i ferri. E stavano più bene, ribadiva la Scavalcatetti. Sicuro che stavano più bene, aggiungeva la Gigia. Lei non avesse i capelli grigi, grazie a Dio. Ma aveva sempre sentito dire che nei tempi andati si vedevano per la strada dei vecchi simpatici, coi capelli bianchi come la neve che facevano venir voglia di baciarli. Adesso, ripigliava Marianna, morivano via come le mosche. Non c'erano più vecchi. Era molto se si riusciva a toccare i quarant'anni, l'età in cui si dovrebbe incominciare a far vita buona.

La discussione perdeva d'interesse. Gli amici e le amiche si guardavano negli occhi senza trovare un argomento che incitasse la loro parlantina. Si voltavano a destra e a sinistra, e si fermavano con la faccia sulla faccia dell'ammalata. Pareva che il silenzio li mettesse tutti d'accordo che il caso della mamma di Zaccaria fosse dei più disperati.

Dirimpetto a lei c'era una donna lunga con le spalle larghe e la testa grossa che faceva piangere tutti quelli che le stavano intorno al letto. Suor Cecilia, agile come una fanciulla, con la testa nascosta nella cappellina bianca dalle ali che agitavano l'aria, passava da un letto all'altro con una parola di consolazione, incoraggiando l'ammalata a sperare in Dio. Ne aveva viste guarire di quelle che erano andate fino all'uscio della morte, di quelle spedite dal primario.

— Abbiate fiducia nel Signore!

Un grido acuto distrasse tutti. Era venuto da un letto dall'altra parte della crociera, dove erano le operate di ieri e di ieri l'altro. La sala era tutta cogli occhi dietro le inservienti e le suore che andavano a corsa verso un letto in fondo. Che c'era? Che cosa avveniva? Nulla. Si tiravano le tendine e il letto scompariva lasciando il pubblico col punto interrogativo nel cervello.

La 76 aveva indovinato. Era andata. All'ospedale non si tirano le tendine che per sottrarre alla vista della gente o delle ammalate la defunta. La 35 era tra la vita e la morte fino da ieri sera. Le avevano operato uno scirro alla mammella destra alle nove di giovedì mattina. E dalli con le operazioni! esclamò Carolina. Se non si pensava a fare qualche cosa, i medici, che non lavorano sulla propria pelle, avrebbero continuata la strage. La 76 riprese la storia. Il giorno dopo era stata veduta a mangiare un pantrito che riversò sulle lenzuola mezz'ora dopo. Rimase assopita per delle ore e poi incominciò a delirare e a battere i denti come una febbricitante. È un brutto segno, quando si battono i denti! Ieri sera suo marito era vicino che si struggeva con dei singhiozzi, chiamandola e scongiurandola di non morire, che avevano due ragazzini da tirar grandi. La superiora lo accompagnò fuori della sala con delle buone parole, assicurandolo che il primario le aveva confidato che non si trattava che di cosa passeggiera. Loro, dell'ospedale, l'avevano mandato a chiamare d'urgenza perché erano obbligate a far il loro dovere. Ma gli si ripeteva di avere fiducia in Dio. Dio non abbandona gli afflitti. Stanotte il medico e l'infermiera di guardia hanno dovuto accorrere due volte per somministrarle qualche goccia di morfina e farle un'iniezione al braccio per calmarla e lasciar dormire le altre. Nelle sale delle operate si sta sempre male. Finiscono tre o quattro di lamentarsi, perché incominciano a star meglio, e altre operate prendono il loro posto di gridare e dar fuori come matte. Alla visita di stamane i medici si erano fermati al letto della 35 un po' più del solito senza ordinarle nulla. Le cose della crociera si sapevano. Ma lei aveva saputo tutto dall'infermiera. Stamattina il primario le aveva detto inutilmente di lasciargli vedere la lingua senza che la povera donna cessasse dal tremare come una foglia e le infermiere non sono mai riuscite ad aprirle la bocca per costringerla a bere una goccia di marsala, il vino che spaventa tutte le ammalate. Quando si vede la superiora andare a qualche letto con la bottiglia di marsala, si incomincia a dire delle avemmarie sotto voce. È segno che la poveretta non ha più che delle ore da vivere. La 35 è morta di tetano.

Povera donna! — disse Adalgisa.

E tutti gli amici e le amiche di Luigia ripeterono con voce di commiserazione:

Povera donna!

Zaccaria pareva ormai completamente disinteressato. Invece di guardare la mamma, la sua faccia andava in giro come un ghiottone di donne, incitato da una vaga idea erotica che lo spingeva di letto in letto alla ricerca delle malatine bianche come il latte, con la testa imboscata di capelli neri come l'ala del corvo. Indugiava con compiacenza sulle fughe alabastrine dei colli venati d'azzurro che uscivano dalle lenzuola fino alle spalle procaci, e idealmente si rannicchiava sotto la coltre della 56, con delle sensazioni gaudiose per la nuca, baciandola soavemente sulla bocca schiusa come un incendio. Le manine diafane gli davano i rapimenti dell'innamorato e usciva dalla rete sottile delle voglie smodate con degli scotimenti bruschi e furiosi che lo rinsensavano.

Era il suo vecchio male di donnaiuolo che lo riprendeva. Negli ultimi mesi era stato bene. Non ci pensava più alle femmine. Aveva potuto sfollare per la folla delle gonnelle come in mezzo a una folla di uomini, senza essere obbligato a scappare e perdere di vista la donna che gli pareva lo bevesse su con gli occhi. Agitato, senza dir nulla, con le mani in tasca, con le palpebre che gli si sbattevano per togliersi dinanzi la figura che stava per fargli commettere una indecenza, si mise a correre verso l'uscita senza voltarsi indietro.

Zaccaria!

Nessuno aveva capito il dramma che si era svolto tra lui e la 56.

Zaccaria!

Suor Cecilia era considerata, attraverso l'anno, da un'ammalata all'altra, un angelo. Aveva nella voce e negli occhi una bontà infinita. La si poteva chiamare cinquanta volte senza mai metterle nel gesto e nella parola l'impazienza. Aveva ancora della gioventù nelle mani e sul viso bianco come il lino che glielo incorniciava. Il suo pensiero era tutto votato a consolare gli infelici. Talvolta passava da un letto all'altro come una sognatrice letificata dal bene fatto. Non era mai in riposo. Discendeva prima che l'alba si snebbiasse, andava al letto delle aggravate a domandar loro come avevano passata la notte, dava degli ordini alle infermiere, si inginocchiava ai piedi del Cristo in fondo a dire le orazioni a voce alta e andava subito dopo in giro coi medici in visita. Era lei che suggeriva la dieta al primario. Non appena credeva l'ammalata fuori di pericolo, gli diceva che poteva dare alla numero tale la seconda, col quarto di pollo e col bicchiere di vino, o due uova al latte, o due fette di cervella nel tegamino delle fritture, con un panino lucido. E il primario la contentava fin dove poteva, perché l'amministrazione non permetteva ai malati di mangiar bene che nelle ultime ore della vita. Per le donne destinate alla operazione suor Cecilia aveva una cura speciale. Le purgava il giorno prima con un drastico che faceva loro buttar fuori tutto, le teneva d'occhio perché nessuno desse loro qualcosa da mangiare e alla mattina, qualche minuto prima che andasse al letto delle operande la carriuola con la coperta di lana nella quale venivano ravvolte, assisteva l'infermiera, che mutava loro la camicia, con delle parole che non davano punto importanza alla operazione che stavano per subire.

— Da che sono in questo ospedale – e sono dodici anni – non ne ho mai vista una morire. Ormai le operazioni sono meno pericolose del rilassativo che ti ho dato ieri. Non avere paura. Va che il primario non è primario per niente. Col cloroformio non senti neanche la puntura di uno spillo. Piuttosto dimmi se sei pulita. Se non lo sei, c'è qui la Teresa che ti fa tutto.

E le vedeva, sdraiate o sentone, passare, una dopo l'altra, dietro l'uscio dai vetri smerigliati, accompagnate dal suo sorriso di confidenza o dalla sua ultima frase che si perdeva spesso nel rumore delle ruote del veicolo.

— Non pensarci che non è nulla! Ti aspetto.

Andava al letto della 77, le spiegava il lenzuolo arruffato sulla coperta e le domandava come si sentisse. Luigia rimaneva immobile, con gli occhi sempre più vitrei e il colore della bocca paonazzo.

— Con una febbre come la tua non si può star bene in due minuti. Ma non avere paura che all'ospedale non si muore. I ricchi che si curano a casa muoiono assai più che i poveri. Lo dice sempre il nostro primario.

Poi si rivolgeva alla folla che la circondava, togliendo i cartocci dal cassetto e mettendoseli nel grembiale di merinos nero.

Vedi? I tuoi amici vorrebbero farti morire come i signori che si curano a casa. A casa c'è sempre qualche anima pietosa che dia loro qualche cosa. Prova questo dolce che ti farà bene! Assaggia questa ala di pollo! Bevi questo vino di bottiglia! E a furia di star bene l'ammalato crepa. Il cuore dei tuoi amici ti farebbe capitare la stessa disgrazia. Fortuna che io voglio che tu guarisca. Quando potrai mangiarli, sarò io la prima a portarteli.

E le dava un buffetto con garbo e ripassava, sgomitando e raccomandando loro di guardarsi bene dal dare dolci all'ammalata.

— La uccidereste!

Alle compagne della Scavalcatetti e di Gigia pareva di vedere nella suora una ladra che sbarazzava i cassetti con dei pretesti per dar tutto alle sue sorelle. E di questo parere era un po' anche Marianna. Ma Bentoni dissipava ogni dubbio, assicurandole che il digiuno, quando si aveva la febbre, era legge. Guai a chi si lasciava imbarazzare lo stomaco. Era quello che diceva nell'offelleria all'Adalgisa che avrebbe voluto portarle qui una vetrina di dolci.

— Non è vero?

Adalgisa, distratta, si curvava come una risposta. Anche la 76 diceva che aveva ragione la suora. Dalla operazione non aveva assaggiato una goccia di brodo che non le fosse stato ordinato dal medico. Le premeva troppo di ritornare a casa, per imitare la 35, la quale aveva mangiato, di nascosto, il pane della sua vicina nella sera dell'operazione.

Adalgisa si era messa a parlare sottovoce, in fretta, nel crocchio delle amiche, con le spalle voltate alla ammalata che pareva imbecillita. Aveva qualcosa nel gozzo che la obbligava a sfogarsi. La birbonata che le aveva fatto la maladonna del cortilone era una azione indegna che si era legata al mignolo per fargliela pagare, avesse dovuto morire. Ah, sì! Aveva trovato carne per i suoi denti, quel vaso rotto dove ciascuno aveva fatto quello che aveva voluto! La donna di tutti si era vendicata facendo dare lo sfratto alla madre. Brutta carogna! Le potevano barattare il nome se non si fosse presa una rivincita come si doveva. Non si sarebbe lasciata sorprendere, come il Natale, in mezzo al cortilone, quando pensava a tutt'altro che a farla fuori a pugni. Ella non era vendicativa e tutti lo sapevano. Ma c'erano cose che gridavano vendetta in cielo. Anche vestita di seta, sapeva rimboccarsi le maniche e lasciare il segno delle cinque dita sulla faccia della villana. Marianna non aveva bisogno del posto d'ortolana addosso alla muraglia del cortilone, perché, fra non molto, avrebbe fatto ingiallire dalla bile tutte le maledonne del Terraggio con una bella bottega a pochi passi sul corso.

Senz'accorgersi le si erano riempiti gli occhi e le lacrime le scorrevano in bocca a farla singhiozzare. Bentoni, commosso, l'accarezzava e se la stringeva al fianco, dicendole di essere buona che avrebbe pensato lui alla mamma. Aveva impegnata la sua parola d'onore e la ripeteva in faccia a tutti, diavolo. Gigia aiutava a calmarla consigliandola a non sporcarsi le mani con una donna di quella fatta. C'erano poi la Scavalcatetti, la Senzanaso, la Morettona e le altre che la conoscevano bene fino da quando andava al fosso a piedi nudi e si sdraiava col primo che le capitava. Era una donnaccia che bisognava lasciare nei suoi vizii. Il posto adesso era stato preso dalla mamma di quell'Altieri materassaio che fingeva di avere un grande sprezzo per tutte le donne. Ah, sì! Come se non si fosse saputo che egli andava di notte a dormire con quel pitale comune della maladonna del primo piano! Lo si sentiva, a ora tarda, passare in punta di piedi verso il suo uscio e lo si risentiva ripassare verso mattina come un ladro. L'altro giorno le era venuto voglia di dirne quattro a quella smortona di sua madre che fa la madonna e parla come una devota alla Maria santissima mentre chiude gli occhi sul figlio che si lascia mantenere dalla mantenuta del padrone di casa! Gli uomini dovevano avere proprio le fette di salame sugli occhi! Ecco un giovine, che potrebbe essere felice, capace di tirarsi in casa un avanzo della strada se non ci fosse il padrone pronto a sposarla!

La campana suonava e le infermiere incominciavano a battere le mani per mettere in cammino la gente che non finisce mai di parlare e che crede sempre di avere qualcosa da dire.

Andiamo, signori!

Adalgisa domandava scusa alle amiche. Le erano venute giù le lacrime perché si era intenerita vedendo un'ammalata che baciava e ribaciava una bimba che le avevano messa fra le braccia e che baciandola piangeva in un modo da far piangere. Lei era una ragazza di cuore che le si inumidivano gli occhi ogni volta che andava a teatro. Le infermiere ribattevano le mani e loro potevano andare perché già la campana era suonata. La Luigia non aveva bisogno che del riposo, come aveva detto la suora. Le avrebbe fatto un bacio se non avesse avuto paura di svegliarla. È così difficile riaddormentarsi quando si sta male che sarebbe proprio un peccato disturbarla. E quel suo Zaccaria che se n'era andato senza neanche dir loro addio?

E l'una dopo l'altra, con Bentoni alla testa, si avviavano insieme alla folla, lemme lemme, discorrendo di Candida che la mamma del materassaio aveva messa al banco a vendere le carote e le verze per tirare i merli nella rete. Era una ragazza vistosa che aveva messo in vetrina per rubare le famiglie che serviva la Marianna. Ma non ci sarebbe riuscita, perché in bottega ci sarebbe stata anche lei, almeno fino a quando l'avesse veduta bene avviata. Bentoni conosceva tutti e nessuno dei suoi amici gli avrebbe dato il dispiacere di abbandonare la vecchia ortolana. La Gigia non comperava molto, perché era in casa sola. Ma non avrebbe mai comperato un porro al banco dell'Altieri. Se tutto il cortilone avesse fatto come lei, sarebbe morta di fame. Carolina non comperava che di tanto in tanto dei fagiuoli secchi, perché andava di sopra a mangiare la minestra dalla 79. Ma per quanto stava in lei, l'Altieri non avrebbe visto il becco d'un quattrino. Ah no, perdio! E avrebbe fatto di tutto per impedire anche alle altre di andarvi. Non le era mai piaciuto quel pappataci del materassaio che guardava in terra quando passava. La gente che ha paura di guardare in faccia è gente che bisogna schivare. Non si sarebbe fidata di lui neanche a fare quattro passi. Era nella stessa casa, ma nessuno sapeva dove andava quando usciva alla sera. Andava a donne? Era voce comune che spendeva il suo tempo nelle case di malaffare. Certo nessuno sapeva niente di preciso e non era cosa che la riguardava. Ma il proverbio non falla: Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. E tutti approvavano.

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei!

L'8 di settembre 1874 era stata una giornata di commozione generale. Le quattrocentottantatre famiglie si fregavano gli occhi per paura che non fosse vero. Chi tirava il fiato dalla soddisfazione, chi si stropicciava le mani con dei «finalmente!» E chi levava il pugno in alto, cogli occhi sul 12 del primo piano del blocco C, dicendo apertamente che erano contenti che fosse venuto il rendimento dei conti per quell'uomo che era stato la tribolazione di tutti. Gli inquilini leggevano gli avvisi impastati al principio di ogni scala e all'entrata del portone e parlavano di Fioravanti come della caduta di un tiranno che aveva disseminato dovunque la desolazione. La gioia era così generale che coloro, i quali sapevano leggere, leggevano l'avviso a alta voce, accompagnando le parole con dei gesti che parevano imprecazioni.

 




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