Era domenica, con un cielo di piombo. Gigia giungeva
all'ospedale con un codazzo d'amiche. Ciascuna di loro, aspettando intorno
all'alto paracarro vicino al lampione, parlava di Luigia con una profusione di
ammirativi. Nessuna donna del cortilone era mai stata laboriosa come la
lavandaia del pianterreno. La si ricordava d'estate, quando usciva in camicia
con un semplice fazzoletto a fondo rosa puntato al collo a distendere sulle
corde la biancheria contorta e gocciolante che le donne le portavano nei
cavagnoni. O nei pomeriggi afosi quando, seduta sulla scranna, coi piedi nudi
sullo sgabellino, strasudava stiracchiando e spiegazzando la biancheria
asciutta che divideva per capi e gettava nelle corbe a fagotti. Durante la
cernita non mancava mai di fare considerazioni che rivelavano il suo cuore. Le piangeva
l'animo di contare per dei capi delle ragnatele che non tenevano più da nessuna
parte o degli stracci che non si erano disciolti nell'acqua per miracolo. La
sua onestà era proverbiale. In tanti anni non s'era mai sentito fare del
chiasso al suo uscio per farsi restituire delle mutande o delle lenzuola che
certe lavandaie, come la Annunciata, fingono di perdere al fosso. Ella si
faceva scrupolo di restituire anche una calza rotta. L'avevano veduta migliaia
di volte andare di uscio in uscio con un bavaglino o una fascia di bimbo o una
camicia lacera che non valeva un quattrino.
— Tenete, che non so che farne della roba vostra.
E se le si diceva che non valeva la pena che la si scomodasse per così
poco, rispondeva che la farina del diavolo va in crusca.
Pochi minuti dopo arrivavano la Scavalcatetti, la Morettona, la Bislunga e la Senzanaso, quattro celebrità del Redefosso che avevano lavorato assieme,
per degli anni, alla Luigia, nelle belle giornate in cui si puntavano la
sottana sull'osso sacro e lasciavano vedere le gambe fino al ginocchio senza
paura di fare della pornografia plastica.
La prima era una diavola che andava su come una pertica, con una testa
affollata di capelli neri e crespi sur un collo lungo e sottile, con gli occhi
sbarrati e fissi della folle, e con una voce da soprano. La seconda era un
donnone con la gola bronzata e scoperta fino alla fossetta e la pelle della
faccia che tirava al rame. Pareva una selvaggia cresciuta in mezzo alle folate
di vento. La terza era affusolata e alta come un palo, con un collo da giraffa,
senza spalle, senza fianchi e col busto e le gambe che parevano di legno. La
quarta aveva un naso mostruosamente schiacciato, con due buchi voltati verso la
gente come due canne di pistola e una bocca smisurata che si spalancava come un
abisso illuminato all'orlo dal candore dei denti.
Si facevano notare per gli anelli d'oro nelle orecchie, i capelli
pettinati alla bambina, la veste marrone spruzzata di pupille infocate e le
zoccole con le pattine di pelle verniciata, sormontate dal laccio a gala del
bindello verde. Se uscivano o andavano a spasso con la loccheria dai calzoni a
campana, si cingevano il collo di un mezzo foulard magenta che le colorava e
aggiungeva energia alla loro carnagione cotta dal sole. L'affezione dell'una
per l'altra e l'intimità di tutte erano inconcepibili per coloro che non le
avevano vedute crescere come sorelle che si idolatrano e che non possono stare
separate due secondi. L'indugio di una diventava l'inquietudine delle altre. Si
rivedevano schiacciandosi baci sonori sulle guance come se fossero state
assenti degli anni. Unite erano sempre gaie, sempre pronte a godersi le
compagne che confidavano loro i crepacuori, sempre disposte a buttare
dall'altra parte del marciapiede una frase birichina contro una frase
scollacciata della pivelleria che passava.
Diventarono zitellone senza lasciarsi inacidire il carattere di
mattacchione e senza lasciar credere che la loro primavera fosse tramontata.
Continuavano a bere alla tazza del vinaio e dell'amore con la stessa voluttà
degli anni in cui si imparadisavano con gli abbandoni sensuali. I loro amori
fugaci, tempestosi, morivano in un'orgia e non lasciavano ricordi dolorosi.
Uscivano dalla gozzoviglia cogli occhi bruciati dal piacere e si staccavano dai
compagni della notte senza voltarsi indietro, stazzonando la veste come per
perderne la memoria. Il loro gusto per gli abbracciamenti senza strascichi non
differiva in nulla. Tutte e quattro davano la preferenza alle pelli di porta
Ticinese per la loro gagliardia e per quei loro calzoni di fustagno o di
velluto che andavano giù strisciando per le cosce e stavano sui fianchi
fasciati dalla allegria della ciarpa di seta solferino coi fiocchi dondolanti
sotto la giacchetta breve. Più di una volta pagavano loro il vino e il letto e
più di una volta si comunicavano i compiacimenti individuali e si scambiavano
gli uomini con la facilità con cui si cambiavano la paglia asciutta della
cassetta al lavatoio. La Luigia dissentiva. Essa aveva la debolezza di scavarsi
una nicchia nel cuore dell'uomo che le dava trasporti e di sognare la
tranquillità dolce della famiglia. Fu così che rimase attaccata a un paio di
calzoni con amore intenso.
Alle quattro amiche era spiaciuto, ma non le avevano serbato rancore.
Dopo alcune settimane di matrimonio andavano ogni lunedì a strascinarla via dal
lavatoio, anche nei momenti in cui essa, con le braccia che si levavano
dall'acqua gocciolanti, giurava che non voleva muoversi. Non si trattava che di
un minuto per una lacrima di mistrà o una marena annegata nello spirito. Il
mistrà era più forte di lei. Si lasciava sedurre e si ostinava dopo a voler
pagare la bicchierata di turno. Divenuta vedova, le capitavano addosso di
sorpresa e le davano una mano nelle giornate che la vedevano col lavoro alla
gola. Divenuta sciaticosa, erano loro che tiravano innanzi il carro e che le
tenevano assieme le clienti per pura amicizia. Non erano mica state tanti anni
allo stesso lavatoio per nulla. Facevano, si può dire, a gara. La Morettona s'avviava verso porta Ticinese e la Bislunga entrava nel cortilone. Andava via la Scavalcatetti e prendeva il suo posto la Senzanaso.
Tanto più si avvicinavano le dieci, quanto più la moltitudine che
aspettava l'apertura dei cancelli ingrossava. All'entrata c'era il portiere
pancione, con le ganasce lardose e lucide, che non si lasciava commuovere né
dalle preghiere, né dalle narrazioni strazianti, né dalle lacrime delle persone
nelle cui orecchie imperversava il rantolo dei loro cari. Lui si attorcigliava
i baffoni e non dava ascolto a nessuno dei piangioni che non vedevano che
cadaveri. Un ammalato per loro era bello e morto. La sua consegna era una
consegna di ferro, che gli aveva insegnato che la pietà è un lusso e che la
fretta non sta di casa all'ospedale. Si poteva morire anche senza la presenza
dei congiunti. Anzi, lui apparteneva al gruppo ospitaliero che credeva che i
parenti e gli amici intorno al letto dei morenti peggiorassero la loro
condizione. Tutta quella commozione che andava al cuore degli infermi li mandava
con maggiore sollecitudine all'altro mondo. I parenti singhiozzano e si
disperano, l'ammalato singhiozza e si dispera e nell'ambascia l'ultimo perde la
vita. Con che sugo? Una contadinotta, con la testa piena di spadine e lo
scialle damascato che la ravvolgeva fino alle gambe come una madonna, col
cestino che portava le uova fresche e il formaggio grattuggiato, lo scongiurava
di lasciarla passare in nome della santissima Vergine, perché l'agonia di suo
marito era incominciata da sabato. Aveva fatto più di diciotto chilometri a
piedi, zoccolando per la mota dello stradone per arrivare in tempo a vederlo.
Era una carità che non doveva negarle, perché Iddio lo avrebbe ricompensato.
Marco pareva di sasso. Erano le solite storie che gli entravano da una parte e
gli uscivano dall'altra. Con le mani per la giubba dai bottoni inargentati,
parlava d'uguaglianza. Era una bella pretesa che avevano di voler passare prima
degli altri. La legge giusta doveva essere uguale per tutti. Erano di una
esigenza che lo metteva di malumore. Si accettavano all'ospedale senza
domandare loro un centesimo, si mettevano nelle lenzuola fresche di bucato che
era un piacere, si davano loro i medici più bravi del mondo, si servivano e si
curavano assai meglio dei signori, si nutrivano a quarti di pollo che non
mangiavano alle loro case neppure sani, e poi avevano anche il triste coraggio
di lamentarsi! Si aveva ragione di dire che le cose gratis disgustano e fanno
nascere desiderii smodati. Se avesse avuto voce in capitolo, avrebbe ridotte le
visite a due al mese e imposto una tassa di entrata, magari di una semplice
lira, a ciascun ammalato. Con un sistema in armonia coi bisogni degli ammalati,
si sfollerebbero le crocere e i postulanti sarebbero dei veri ammalati. Adesso
la maggioranza era rappresentata dalle carcasse, dagli uomini tutta pelle,
dalle donne senza carne indosso, dai morti di fame. Si andava all'ospedale come
si va a far pancia in villeggiatura. E i villani! Non erano che dei pivioni,
degli intrusi, degli scrocconi e dei furbi che si adagiavano nel letto della
carità pubblica per mettersi in sesto il corpo a spese dei milanesi. Invece di
lasciarli passare prima degli altri, godeva a lasciarli sull'acciottolato a
trepidare dal freddo. In certe giornate di umor nero i paesani diventavano il
suo materasso. Andava loro idealmente sullo stomaco coi piedi. Se i Comuni non
volevano pensare ai loro ammalati e ai loro cronici, tanto peggio per loro. A
lui non importava proprio nulla. Quello che a lui importava era che i testatori
avevano lasciate le loro sostanze all'ospedale dei milanesi. Con l'ammissione
dei contadini non si faceva tempo a scaricare un cadavere nella stanza
mortuaria, che ci era già là una folla che aspettava di prendere il suo posto.
Prima di portiere egli era stato becchino. In allora c'erano dei momenti di
tregua. Ora non si sapeva più il giorno in cui la sala di osservazione aveva un
letto vuoto. Staccato il campanello a un cadavere, lo si attaccava a un altro
per ricominciare da capo. E perché poi questa operazione? I morti non si
risvegliano. Ma se qualcuno di loro facesse lo scherzo di tornare indietro, chi
lo sentirebbe? Il becchino che lavora tutto il giorno ha altro per la testa che
stare là con le orecchie in piedi. Il sistema andava sempre peggiorando. In
tant'anni da che lui era portiere, i letti si erano sestuplicati senza riuscire
a ammetterli tutti. C'erano poi dei medici sbadati che non sapevano mai dire di
no. Ah, se avesse comandato lui! Chiunque andava da loro con la guancia in mano
era ammesso. Alcune volte ammettevano della gente che lui avrebbe scaricata
nella fossa comune senza sciupare dell'altro denaro. Erano dei veri pitocchi
che vi andavano a spidocchiarsi e a rifocillarsi lo stomaco. E l'ospedale non
era mica un albergo.
Le vetture dimezzavano e tumultuavano la folla, sterzando verso la porta
spazzata dagli imperativi di Marco, e salendo per la montata col fracasso dei
ferri dei cavalli che sdrucciolavano perdendo scintille fin sulle pietre del
porticato. Erano broughams con le tendine calate, carichi di ammalati e di
vittime degli accidenti della vita. Venivano tirati fuori a braccia dagli
infermieri che conversavano fra di loro, deponendoli sulla barella, magari
senza guardarli in faccia e senza udire i lamenti che vagolavano per le colonne
come voci di morenti. Erano abituati a queste scene quotidiane, che si
ripetevano di ora in ora, di giorno e di notte. Il brougham 298 vi aveva
condotto una suicida che si era sparata due colpi di rivoltella in direzione
del cuore per punirsi di portare nel ventre un tumore maligno che la chirurgia
moderna recideva senza impedirgli di rinascere altrove. Pareva dissanguata. Era
biancastra e livida, con le labbra stinte e il seno sbottonato e strisciato di
sangue nerastro e rappreso intorno al capezzolo impallidito. Si abbandonava di
peso sulle braccia turgide degli infermieri, mormorando di lasciarla morire,
che aveva sofferto anche troppo, che ne aveva abbastanza di vita tribolata.
— Lasciatemi morire! Voglio morire!
Intorno ai venditori e alle venditrici ambulanti, a pochi passi dai
paracarri esterni, c'era una moltitudine che si decomponeva e si rifaceva più
larga di minuto in minuto.
Uomini e donne non volevano andare ai letti con le mani vuote.
Comperavano un po' di tutto. L'arancio per umettare le labbra aride
dell'ammalato, i biscottini per consolargli lo stomaco con qualche cosa di
leggiero e morbido, cinque centesimi di zucchero grasso e un limone per non
lasciargli bere l'acqua pura, del formaggio grattuggiato per migliorargli il
pantrito, la zuppa, la minestra, e degli ossi detti di morto con le mandorle
che facevano tanto bene. Alcune donne, che dicevano di sapere come si stava
all'ospedale, avevano sotto le gonne dei panini freschi, dei panettoncini
caldi, qualche boccone di carne e una noce di formaggio di grana piangente che
faceva risuscitare i morti e tirava fuori dal letto i vivi. C'era tra loro
qualche vecchio rimbambito che diceva che bisognava lasciar fare il mestiere a
chi lo sapeva e che facevano male a dare agli ammalati quello che i medici avevano
proibito. Aspetta cavallo che l'erba cresca. Morirebbero tutti di fame.
Sapevano bene che cosa davano i medici. I medici non sapevano che far loro
trangugiare porcherie che indebolivano e mandavano al cimitero. Invece i nostri
vecchi, che si curavano bene, si curavano con dei brodi di carne di prima
qualità, con un bicchiere di vino vecchio di bottiglia e con dei petti di
piccione e di pollastro. Marco si fregava le mani, parlava ad alta voce, come a
se stesso, dicendo a tutti sulla faccia che facevano benone a comperare la
morte dei loro ammalati. Nessuno lo avrebbe udito lamentarsi. Andavano
all'ospedale questi porci di pitocchi per guarire e poi facevano di tutto per
caricarsi lo stomaco di roba velenosa che combatteva il lavoro del medico. Ci
sarebbe voluto un po' di staffile per certa gente! Se non ci fossero state alle
entrate delle sale le monache e gli infermieri a frugarli, gli ammalati
sarebbero morti tutti come le mosche. Le donne gli voltavano le spalle con
orrore. Non potevano credere che ci potesse essere un uomo alla porta
dell'ospedale con il suo cuore di piombo. Lui era grasso e faceva bene a ridere
della povera gente. Avrebbero però voluto vederlo in letto addolorato dai
malanni, se avesse avuto il coraggio di pronunciare le stesse sciocchezze! Loro
sì che sapevano che cosa voleva dire trovarsi in una crocera senza soccorso.
Facevano male! Sicuro che facevano male. Ma all'ospedale non si ordinavano i
cibi che tirano su lo stomaco se non ai degenti in punto di morte. E quando si
è moribondi, cari miei, non si ha più voglia di mangiare le cose buone. Si
faceva male, sicuro che si faceva male, ma i signori a buon conto si facevano
guarire a casa, nei loro letti. E guarivano perché si tiravano su con dei rossi
d'uova, con dei bicchierini di marsala, con dei brodi di gallina, con delle ale
di pollanche che piluccavano tutto il giorno e delle fritture di cervella
leggermente impanate con l'uovo, con sopra una lacrima di limone.
In su e in giù nascevano i discorsi sulle malattie. Una volta c'era più
misericordia. Non tagliavano giù la povera gente a fette come ora. Si aveva un
po' più di rispetto per il corpo umano. E si stava meglio. Non s'erano mai
veduti tanti ammalati come in questi tempi. Non si sapeva più dove metterli. Al
giorno d'oggi vi guardano in gola con dei ferri contorti che fanno rabbrividire
e vi portano via dei pezzi di carne rossa da far piangere. Vi passano delle
bacchette d'acciaio per il naso e per le orecchie, e vi frugano su e giù come
se foste di carta pesta. C'era lì la sorella di una contadina che parlava con
orrore dei ferri. Alla sua povera Teresa, che forse era morta, avevano
asportato una mammella intiera perché faceva un po' di materia. Un tempo era un
male che si guariva con delle pappine di linosa. Ah, il bel giovamento che le
aveva fatto l'operazione! La settimana scorsa era più morta che viva. Tossiva
come una disperata e tirava su del catarro che pareva marcia. La roba purulenta
del petto le era andata fino in fondo allo stomaco. La materia aveva semplicemente
cambiato di posto. Bisognava essere stupidi per non capire che i poveri
servivano di studio alla cura dei ricchi. Si narrava di una povera donna col
ventre gonfio come una balena, morta per gli istrumenti che le avevano cavata
l'acqua. Le avevano fatto patire tutti i dolori della terra per venire a questo
bel risultato. Lasciateli almeno morire come vuole il Signore, senza tante
torture. E la donna che diceva questo si infagottava le braccia nello scialle e
si voltava dall'altra parte per non essere obbligata a vedere Marco che faceva
il gradasso perché era sano. Era meglio parlare d'altro. Perché a pensarci
sopra si drizzavano i capelli sulla testa. Bastava semplicemente ricordarsi dei
vecchi che guarivano il mal d'occhi con dell'acqua benedetta o con dell'acqua fresca
di Caravaggio, sbattuta nelle occhiaie parecchie volte al giorno, per capire
che i ferri erano i ferri.
Ora, che santa Lucia conservi a tutti la vista, era meglio morire che
farseli curare. Ci andavano dentro coi loro strumenti maledetti a scavare come
in una buca. C'era lì una vecchia che poteva fare da testimonio. Anni sono le
avevano tirata via una cataratta che non le faceva il menomo male. Ci vedeva un
po' meno, ecco tutto. E ora? I ferri erano i ferri. E ora lei non era più lei.
La sua vista si era andata indebolendo e i suoi occhi erano diventati due
fontanelle che piangevano dalla mattina alla sera.
Gigia sentiva e approvava. Aveva anch'ella un sacro orrore per le
operazioni chirurgiche. Una mattina le era venuto il cattivo pensiero di andare
all'ambulanza medica a farsi curare lo stomaco che digeriva male da un po' di
tempo e le dava coliche che la piegavano di notte in due. Il medico era un
piccoletto con una gran barba castagna e una vocina d'uomo flemmatico. L'aveva
fatta adagiare sul lettuccio coperto di tela incerata, le aveva battuto sul
ventre con la punta delle dita senza domandarle neppure compermesso e poi
voleva soffocarla con un lungo tubo di gomma che doveva nettarle lo stomaco
come si netta un pisciatoio. Se lo avesse ascoltato, a quest'ora sarebbe forse
morta. Ginevra voltava via la faccia perché le facevano male i discorsi sugli
scorticamenti degli ospedali. Era un vero macello. Per suo conto avrebbe
preferito morire due volte piuttosto che mettervi piede. Non c'era mai voluta
andare neppure quando vi aveva una zia ammalata di flemmone. Carolina provava
una sensazione che rasentava lo spasimo ogni qualvolta si parlava di
operazioni. Se si discorreva di una gamba tagliata via, si sentiva la sega
sull'osso che le faceva subire delle contrazioni facciali e dei dolori sottili
che le andavano su fino alla radice dei capelli. Un dente nella tenaglia di un
frate la faceva sudare come in un bagno turco. Stamattina andava nella crocera
delle ammalate per stare con le amiche e per portare quattro amaretti a quella
povera Luigia che le lavava tanto bene la biancheria di colore. Ella aveva in
saccoccia una fetta di panettone eccellente, messa via nella giornata di Natale
a bella posta. E Gigia stava comperando due aranci e due ossi di morto, che la
venditrice diceva miracolosi. Molte ammalate erano guarite a mangiarne una
mezza dozzina.
Si vedeva che veniva anche Zaccaria, il figlio della lavandaia.
L'omone che stava con la schiena al fusto del lampione, tagliava l'aria
con la mano, come per dire di smettere di parlare di operazioni. Non ce n'era
uno nella folla che avesse avuto la sua disgrazia. Una disgrazia che lo faceva
tremare come una foglia anche in quel momento. La sua Teresa, sana e robusta
come una pianta, aveva in allora quattordici anni. Lavorava in filanda e
cresceva diritta come un asparago. Cinque mesi prima di condurla all'ospedale
aveva ricevuto un colpo contro il filatoio. Il medico condotto non aveva dato
importanza alla ferita e credeva di averla tappata con un po' di cerotto. Ma la
ferita era di quelle che si coprono con sotto la marcia. Quando gliela si
lavava con l'acqua e l'aceto veniva fuori l'odore della putredine. All'Ospedale
maggiore... Bisognava scusarlo se gli si inumidivano gli occhi. All'Ospedale
maggiore le hanno trapanato il cranio come se fosse stato quello di una
marmotta o di una scimmia. I medici lo consolavano dicendogli che la povera
ragazza aveva in fondo una roba fungosa. L'hanno tormentata coi termometri nel
cranio per sapere se in certi momenti si scaldava più il cervello o l'ano e me
l'hanno fatta morire!
La disgrazia dell'omone sollevò l'indignazione. Eran tutti d'accordo che
i poveri cristi servivano per le esperienze con le quali si dovevano poi
guarire i signori. Era ingiusto che ci fosse un mondo cane che lasciava
scannare i pitocchi per tenere in vita i ricchi. Marco rideva e dava a tutti
della bestia. Se c'era qualcuno che era curato proprio bene, era l'ammalato
dell'ospedale. Se si tagliava, era perché bisognava tagliare.
— Bestioni! È un peccato che non abbia io il coltello in mano.
Meritereste proprio che vi si facesse a fette!
Zaccaria andava innanzi con la punta del virginia di brace che gli
accendeva ancora di più il faccione di brentatore, con le mani nel paltò
cannella, il cappello nocciuola sull'occhio, e una cravatta a colori fatta in
quattro.
Gli avevano mandato una cartolina dove gli si diceva che sua madre stava
male. L'aveva in saccoccia da tre giorni, perché non poteva dire al padrone che
aveva bisogno di andare all'ospedale. Se non faceva la giornata nessuno gliela
pagava.
— Buon giorno!
Salutava le ragazze guardando l'orologio attaccato alla catena d'argento
che lo faceva passare per un lattaio. C'era venuto un quarto d'ora troppo
presto. Gli si diceva che era un peccato che non avesse imparato il mestiere
della madre, perché una disgrazia poteva sempre capitare da un giorno
all'altro. Le clienti c'erano, i posti al lavatoio c'erano, i locali nel
cortilone potevano essere aumentati e con della buona volontà avrebbe potuto
guadagnarsi dei bei quattrini. Gli mancava la donna. Ma a un giovanotto robusto
come lui non poteva mancare. Non aveva che da mettere in terra il cappello per
trovarsi imbarazzato nella scelta. Lui lasciava dire, buttando in aria il fumo,
mettendo semplicemente, tra un elogio e l'altro, una spallata o una smorfia.
Non gli era mai piaciuto il mestiere della mamma. Era un mestieraccio che
riempiva la casa di camicie fetide e di stracci che l'acqua finiva di consumare
e di biancheria distesa come in un prato. Se la Luigia lo avesse ascoltato non sarebbe, in una giornata come quella, in un letto
reumatizzata. Con le braccia nei secchioni dalla mattina alla sera e le
ginocchia sempre nel bagnato, non era possibile star sani neanche con una
salute di ferro. Lui faceva il tintore, un mestiere che lo teneva nell'acqua
mica male. Ma loro, in fabbrica, avevano i riguardi che non hanno le lavandaie.
Si tenevano i piedi negli zoccoloni alti fino alla caviglia, col fondo del
piede basso, e si coprivano dal petto alle estremità delle gambe con un
grembialone di pelle che andava loro intorno ai fianchi. Risciacquavano le
matasse nella corrente e rientravano in fabbrica senza una goccia d'acqua
indosso. Al fosso le donne non avevano nessuna cura e continuavano a lavare
sotto uno straccio di ombrello sfondato dalle bacche anche quando diluviava. Ci
volevano dei lavatoi pubblici, protetti dalle vetrate, riparati dall'aria da
alte muraglie come li aveva veduti un suo compagno di lavoro a Lione.
La moltitudine era divenuta silenziosa e era tutta rivolta verso Marco,
il quale stava all'entrata con le code della marsina di panno azzurro scuro
attorcigliate nelle mani sui calzoni di dietro. Tra le donne primeggiavano le
teste coperte di scialletti variopinti, e i fianchi coperti dalle gonne giù a
piombo, impillaccherate dalla fanghiglia in cui avevano dovuto zoccolare lungo
gli stradoni dei paesi circonvicini, ancora inzuppati dell'acquazzone di ieri.
Tra gli uomini, i cappelli flosci coll'orlatura colorata di scuro e la penna di
cappone sul bindello in giro al copricapo. Le loro scarpe, dalla suola grossa
due dita e costellata di chiodi, erano appesantite dalla mota che avevano
raccolto lungo il viaggio, e lo sparato candido della loro camicia a
pieghettine, stirato a forza di braccia, non lasciava dubbio ch'essi
appartenevano alla grande famiglia che fila la tela in casa e l'imbianca per i
campi che coltiva. Il resto era poveraglia cittadina. Tube lavate, cotte dalla
pioggia, abbrustolite dal sole, cappelli dall'ala stroncata o gualcita, scialli
smunti e tarmati, sottane dalle balzane stracciate, con gli strappi ciondoloni,
vesti mendate e rimendate, giacche logore e sfiancate, baveri unti e bisunti,
redingote spelazzate dalla spazzola, pellegrine lacerate, scolorate,
cicatrizzate, panciotti che perdevano un po' di camicia da tutte le parti e
scarpe sdruscite, scalcagnate, slabbrate, coperte di maccherelle. Facce vecchie
e giovani, ossute e carnose, butterate e bernoccolute, nasi di tutte le
dimensioni e di tutti i colori, grinte alcoolizzate e criminalizzate, capelli
grigi, capelli neri, capelli biondi e teste senza capelli, guance profondamente
adimate dai patimenti e fattezze grassocce e fiorite di primavera. Bocche
invecchiate, appassite, sdentate e bocche fresche e colorite come il sangue del
maiale; occhi ammantati di vivezza, occhi loschi, occhi stracchi, occhi che
stavano consumando gli ultimi barbagli della vita. Mani incartapecorite, mani
tremolanti, mani rugose, callose, ruvide e mani gentili, in carne, con le
unghie pulite e le dita affusolate come quelle delle suonatrici di piano. Tutta
poveraglia piena di cuore che trepidava per i suoi cari, che aveva pensato una
settimana per mettere assieme il soccorso, che si lasciava empire di lacrime
prima di entrare e che giungeva al letto degli ammalati con la gola piena di
commozione.
L'orologio sul frontone dell'ampio cortile suonava le dieci e mezzo e
Marco si ritirava sull'alto che fiancheggia l'entrata a sinistra e la gente
pigiata si muoveva tutta assieme, gli uni calcando gli altri, assottigliandosi
all'imbocco del portone e riuscendo sotto il portico come portata o spinta
dalla fiumana. Marco impallidiva tutti i mercoledì e tutte le domeniche. Egli
doveva frenarsi per non buttarsi sulla moltitudine a risospingerla, a
ricacciarla di nuovo nella strada e obbligarla a rientrare ordinatamente. Così,
come facevano, riuscivano nelle sale con dei ritardi e arrischiavano di
schiacciarsi le costole e rompersi le ossa. Ma in tanti anni i suoi avvertimenti
non avevano corretto alcuno. Era una folla indisciplinabile che si rinnovava da
una settimana all'altra e che faceva orecchio da mercante anche quando si
parlava per il suo bene. Ci sarebbe voluto una catastrofe. I teatri sono stati
migliorati dagli incendi. Con dei cadaveri rimasti sotto i piedi dei violenti,
l'amministrazione si sarebbe decisa a mettere la barra ch'egli andava
raccomandando di anno in anno. Con due barre in croce, i visitatori sarebbero
obbligati a passare a due per volta, uno a destra e uno a sinistra. Ma
l'amministrazione era cieca, cocciuta e lo trattava da pazzo. La sua esperienza
non valeva niente per tutti quei signori che stavano al tavolino a fare delle
cifre. Si vedeva bene che un giorno o l'altro doveva avvenire un massacro. Ma
l'amministrazione non provvedeva. Aspettava il disastro. Peggio per lei e per
il disastro. La sua coscienza era tranquilla. E finiva dicendo, come al solito:
«Così va il mondo, bimba mia».
Gigia si ostinava a dire che la Luigia doveva essere al pianterreno, perché la Ventura del cortilone, che era stata a trovarla la domenica scorsa,
le aveva detto che si trovava al numero 7 della sala Anastasia, tra una giovine
e una vecchia che avevano poco da campare, perché in tutto il tempo che vi
rimase non avevano aperto gli occhi. Zaccaria invece era sicuro che doveva
essere al 70, nella sala chirurgica Bianca Maria Sforza, al primo piano, ove
mettevano tutte le operate. Convennero che sarebbe stato meglio interrogare il
primo infermiere.
— Di grazia, l'ammalata Luigia Ponticelli?
L'infermiere, con le braccia nude come d'estate, col grembiale a petto
che gli lambiva le scarpe, tirava innanzi per i fatti suoi, col gesto della
persona affaccendata che non ha tempo da sprecare. Egli non ascoltava nessuno e
neppure quelli che piangevano e gli domandavano se potevano andare a vederli
nella sala mortuaria. I due infermieri, alla base dello scalone a sinistra,
chiacchieravano tra loro, lasciavano passare senza seccarsi. Avrebbero avuto un
bel da fare se avessero dovuto occuparsi di tutti gli individui alla ricerca
degli ammalati. C'erano dei balordi che non sapevano né dove andavano, né che
cosa volevano. A momenti bisognava dir loro anche il sesso delle persone che
cercavano. Ci sono i compartimenti, i letti numerizzati, le sale con tanto di
nome e cognome e tuttavia si vedevano lì disorientati, cogli occhi in aria,
indecisi se andare da questa o da quella parte. Il professore Guglielmini
diceva l'altro giorno agli studenti che sarebbe stato desiderabile che in un ospedale
di primo ordine si fosse pensato agli ascensori come negli ospedali degli Stati
americani. In America la gente doveva essere più rispettosa e ubbidiente. Qui
non ci sarebbe verso di farli entrare a poco per volta. Vorrebbero entrare
tutti assieme. E una volta o l'altra gli ascensori precipiterebbero carichi
pieni. Dopo si griderebbe la croce contro i poveri infermieri che non hanno
saputo impedire che si riempissero.
All'entrata della sala Bianca Maria Sforza cerano le suore di carità che
davano una manata sulle tasche e facevano vuotare quelle troppo voluminose. Se
non stavano attente, sarebbero passate delle geriate di pane giallo. C'era una
contadina che non voleva persuadersi di lasciare alla porta una mezza dozzina
di pomi di terra cotti nella cenere. Un povero uomo sosteneva che nessuno gli
poteva proibire di portare un po' di vino alla sua reggiora bisognosa di
ristorarsi lo stomaco. E quell'altra sposina, con la testa che pareva un sole
di spadine, piangeva a lasciare nelle mani delle suore il cestino con le uova
fresche tolte dal pollaio, tra ieri e ieri l'altro, per la sua mamma che doveva
essere debole dopo l'operazione che le aveva fatto perdere tanto sangue.
Ginevra, Carolina e Bigia, tagliavano i panni alle donne votate al Signore e
alla Madonna che avevano il fegato sano di impedire ai parenti di fare quello
che potevano per tirarli fuori dal letto. Se fossero state in un altro luogo
avrebbero insegnato loro un po' più di belle maniere. La gente non andava mica
a rubare per buttar via i quattrini in quel modo. Ci voleva un po' di
buonsenso, ci voleva.
— Di grazia, l'ammalata Luigia Ponticelli?
La sala a colonne si andava popolando; qua e là i gruppi si rompevano
intorno ai letti e alcuni letti scomparivano dietro una siepe di gente che univa
il susurro ai susurri della conversazione generale; questa diventava, negli
angoli, un brontolio sordo che passava per le orecchie come una confusione di
voci spiacevoli. I finestroni ogivali cambiavano l'aria senza distruggere
l'odore ingrato che usciva da tutte quelle gambe sepolte sotto le coltri e
dalle filate dei pitali nel comò di ferro. Con tanto acido fenico e tanto cloro
si aspirava l'alito impuro delle degenti che faceva impallidire e venire il mal
di capo a più di una visitatrice. Carolina tossicchiava e col fazzoletto bianco
alla bocca domandava scusa degli assalti di tosse perché non era abituata a
girellare per le sale degli ospedali. Molti uomini e molte donne entravano come
in casa propria e andavano, senza fermatine, al letto che li aspettava, e senza
badare agli altri, con il viso in aria come tanti allocchi. La 32, con le
braccia secche come due bastoni e le occhiaie bluastre, faceva paura, e
obbligava la Gigia a fare uno sforzo per tenersi in gola il vomito che le
veniva a sentirla schiarificare e buttare nella sputacchiera il catarro con
fracasso. Zaccaria, con gli occhi sempre al soffitto, diceva di toccar via, che
il 77 doveva essere quasi in fondo. Gigia era dolente che Adalgisa avesse
mancato di parola. Le aveva detto che sarebbero passati dai gradini del Duomo
alle dieci precise e alle dieci precise, anzi un po' prima, c'eran passate. Era
una buona ragazza, non si poteva dir niente, ma aveva paura che non avesse gran
cuore. Parecchi infilavano il vano tra i due letti e si curvavano sulle
ammalate con dei baci a fior di pelle. C'erano delle povere donne con le teste
affondate di peso nel guanciale, col viso di cera, con gli occhi chiusi, con le
braccia lungo i fianchi e col corpo piatto sotto la coperta. Faceva schifo la
vecchierella incuffiata del 63 che domandava la padella nell'ora della visita.
Doveva pensarci prima. Ma già le vecchie sono come i bambini. Non hanno
giudizio. L'infermiera diventava di brace e agitava le mani come per dire che
bisognava avere pazienza. Pareva che lo facesse a posta. Un accidente poteva
capitare a tutti. Ma tutte le volte, tutte le volte che c'era in giro il
pubblico era una cosa insoffribile. I parenti che erano lì a trovarla s'erano
voltati dalla vergogna, dicendo anch'essi ch'ella avrebbe potuto scegliersi
un'ora più comoda. E un'altra! La giovine nel terzo letto più innanzi faceva
dimenticare l'urgenza della 63, chiamando l'inserviente con delle scampanellate
che spaventavano la sala. Anch'essa era disturbata dallo stesso bisogno. Era
una giovanotta con le trecce disfatte del calore della canape per il cuscino,
coi pallori dell'operata che aveva perduto molto sangue, con le alture del seno
che ansavano sotto il lenzuolo e con le braccia rotonde e seminude che andavano
per la coperta a manifestare la tortura del ventre. Non c'era nessuno al suo
letto e l'infermiera non aveva fretta perché erano sei giorni che s'aspettava
la sua scampanellata. Da due giorni il professore andava dicendo che domani le
avrebbe ordinato un enteroclisma, perché dopo l'operazione, la poverina, aveva
continuato a dormire come se fosse stata ancora sotto l'azione del cloroformio,
tirando su a stento le palpebre quando la si schiaffeggiava per risvegliarla.
Era un mestiere per il quale ci voleva molto cuore e uno stomaco di bronzo.
Senza quest'ultimo si sarebbe tirata su l'anima. Certi bisogni venivano quando
venivano, e non si poteva discutere. Il guaio era che si doveva tagliarle tutta
la medicatura antisettica di dietro. Con tanta gente attorno non c'era che
tirare le cortine.
— Vengo! Vengo! Non si sta quiete un minuto in queste sale. Bisognerebbe
avere cento braccia. Il male è il male, non c'è che dire. Ma sanno farselo
valere! Ingrandiscono delle inezie. Ci son molte pittime in queste sale. Sono
operate e bisogna tollerare tutto. Alcune volte però abusano. Ah, sì! Sentite!
Si scampanella da tutte le parti. Adesso chiamo la suora. Voglio vedere un po'
io di farla far finita. È troppo, è troppo! Se non ci fosse qui la gente vorrei
dire. Su, alzatevi leggermente che vi passo la padella. Così, state quieta e
che la Madonna vi secondi.
Dal fondo si vedevano venire Adalgisa, Marianna e Bentoni. Lui e lei
erano ravvolti in una grande pelliccia che faceva ritirare in disparte le
persone sul loro cammino, come per far largo a dei signori in visita.
L'Adalgisa era sicura che le amiche non avrebbero mancato di parola perché la Gigia non era mica una cervellina. Non si ricordava del numero, no. Il figlio di Zaccaria le
aveva detto il 17 o il 37. Era più facile che fosse al secondo che al primo. La
sala era grande, ma non doveva essere difficile trovare la Luigia. Ella e la mamma non le avevano mai parlato perché, come si sapeva, era una donna
asciutta, che salutava e non salutava. La sua faccia era però di quelle che
vedute una volta non si dimenticano più, specialmente per i suoi capelli radi e
sabbiosi e per le sopracciglia nerissime elevate a virgola sulla fronte.
Marianna aggiungeva che tirava più all'uomo che alla donna. I suoi occhi
gatteschi e il porro con tre peli sul mento erano indimenticabili. Bentoni, con
la tuba e coi guanti in mano, diceva che senza annoiarsi a passare di letto in
letto sarebbe stato meglio domandarlo all'infermiera.
— Per favore, l'ammalata Luigia Ponticelli?
— Dall'altra parte, al quart'ultimo letto.
— Grazie tante.
Adalgisa, guardando, si era fermata ai piedi della 45 e non ne sarebbe
venuta via se Bentoni non fosse ritornato indietro a prenderla per il braccio.
Le aveva fatto impressione l'ammalata. Poveretta, non doveva avere più di 30
anni. Faceva pietà a vederla, col viso così affilato dalla malattia, con gli
occhi lucenti nelle occhiaie sgualcite e coi due solchi che le andavano dalla
radice del naso alla estremità delle labbra! Con le mani teneva le mani di una
fanciulla e di un ragazzo ai fianchi del letto e si lasciava bagnare le guance
dallo strazio forse di doverli lasciare soli sulla terra.
Il letto di Luigia era affollato. C'erano la Scavalcatetti, la Bislunga, la Senzanaso, la Morettona, la Ginevra, la Gigia, la Carolina, il Zaccaria e le tre ultime lavandaie che lavavano al fosso di Porta Tenaglia per
conto dell'ammalata. Cerano alcune donne del cortilone che si pettinavano
vicino al suo uscio e poco dopo giungevano il Bentoni, la Marianna e l'Adalgisa. Si salutavano con dei cenni di mano e di testa e si mettevano il dito
sulle labbra per dirsi che bisognava star zitti e lasciare quieta la povera
donna che stava male. La superiora aveva avvertito la Bislunga che non era ancora fuori di pericolo e bisognava avere dei riguardi. Ieri aveva
avuto una febbre da cavallo e questa mattina le si erano sbattuti i denti come
se fosse stata in una ghiacciaia.
Ciascuno le aveva accarezzata la mano che teneva sulla coltre, aveva
deposto il cartoccio nel cassetto del tavolino da notte, e era rimasto alla
sponda in un atteggiamento di persona addolorata. Luigia girava svogliatamente
gli occhi affannati, moveva le labbra come se avesse voluto dire qualche cosa e
restava lì ammutolita. Il pensiero di tutti i presenti era che Luigia moriva.
Nessuno sapeva capire la tabella della sua malattia, ma tutti leggevano nello
sfacelo della sua faccia la data della sua morte. Era stravolta, emaciata,
piena di rughe grosse sulla fronte, con due linee scendenti dalla borsetta
degli occhi alla bocca che la rendevano orribile. Zaccaria guardava il
soffitto, guardava le persone che passavano, guardava i letti e trasmetteva
negli altri l'idea che egli faceva di tutto per padroneggiare la commozione che
lo avrebbe fatto piangere come un ragazzo. La 76 non la conoscevano. Ma parlava
e diceva a bassa voce che era stata operata al nervo ischiatico, nella stessa
ora di Luigia. Dal giorno che le avevano messe in letto col cloroformio che
ronzava loro nella testa la Luigia non aveva aperto bocca. Nella prima giornata
doveva avere avuto più di un tentativo di vomito, perché alle infermiere era
toccato pulirle più di una volta la tela incerata gialla che distendono sotto
il mento delle operate. Una notte aveva avuto degli scotimenti che avevano
fatto accorrere l'inserviente di servizio e dato da pensare alla superiora
venuta con la bottiglia del marsala. Il marsala poteva essere buono, ma nel
letto dell'ospedale faceva venir in mente il prete con l'olio santo. In tutto
questo tempo non era stato possibile farle trangugiare un cucchiaio di brodo. E
quando non si mangia, cattivo segno. I medici venivano tutte le mattine, le
toccavano il polso e passavano agli altri letti dopo avere guardata la
temperatura ascellare sulla tabella.
Si raccolsero nelle spalle per frenare lo spavento che correva loro
nella schiena. Era un'altra prova palmare che non bisognava lasciarsi mettere i
ferri addosso. I ferri ammazzano i disgraziati come le bestie. Tutte le donne
che circondavano il letto di Luigia erano unanimi nel credere che i dolori
sciatici non si curano all'ospedale. Se la Luigia si fosse consultata con la Scavalcatetti, la povera donna non si troverebbe in quello stato. A Cassano! a
Cassano! le avrebbe gridato. E a Cassano si guarisce. La sua padrona della Ripa
di porta Ticinese, prima di andarvi, aveva fatto di tutto e si era persino
fatta mettere in un forno ardente. Se ne ricordava perché era stata là lei a
aiutarla, a resistere fino allo svenimento. Il corpo le gocciolava come un gran
pezzo d'arrosto allo spiedo e i capelli le cadevano bruciati. Dovevano scusarla
se le ritornavano i brividi a pensarci. Rinvenuta, i dolori le ritornavano più
acuti di prima. Finalmente si decise per Cassano. Ah, se la gente avesse del
giudizio! La Luigia non si sarebbe lasciata squartare in quel modo. Pazienza. La Marianna, la quale serviva le famiglie più ricche del suo quartiere, sapeva di molte
guarigioni. Donna Laura, una signora d'alto bordo, in quindici giorni di
Cassano era diventata quasi più bella. Bentoni approvava e aggiungeva che vi
andavano anche i signori primarii e i signori medici degli ospedali, se
volevano guarire. Non c'era uno solo fra loro che non avesse avuto un amico o
un'amica a Cassano. Era una cura facile e poco dispendiosa. Perché la donna che
possedeva il segreto non domandava nulla. Se gliene davano, se li metteva in
saccoccia; se non gliene davano, li salutava con Io stesso sorriso e augurava
loro il buon viaggio.
La donna di Cassano guariva in un modo semplice. Applicava un
vescicantone al calcagno della gamba addolorata, ve lo lasciava trentasei o quarantotto
ore a lavorarglielo e a squarciarne la pelle, lo tirava via medicandone la
ferita infocata con delle semplici foglie spalmate di burro, lasciava che dalla
squarciatura uscisse tutta l'acqua che appestava l'aria, e in quindici o venti
giorni rimetteva in piedi la persona sana come una quercia. Si raccontava che
degli uomini e delle donne ch'eran stati portati di sopra a braccia dai
facchini, perché non sapevano reggersi, erano usciti dall'osteria degli
sciaticosi pochi giorni dopo, come gente che non avesse mai avuto niente. I
nostri vecchi, aggiungeva Marianna, non sapevano neanche cosa fossero i ferri.
E stavano più bene, ribadiva la Scavalcatetti. Sicuro che stavano più bene, aggiungeva la Gigia. Lei non avesse i capelli grigi, grazie a Dio. Ma aveva sempre sentito dire che nei
tempi andati si vedevano per la strada dei vecchi simpatici, coi capelli
bianchi come la neve che facevano venir voglia di baciarli. Adesso, ripigliava
Marianna, morivano via come le mosche. Non c'erano più vecchi. Era molto se si
riusciva a toccare i quarant'anni, l'età in cui si dovrebbe incominciare a far
vita buona.
La discussione perdeva d'interesse. Gli amici e le amiche si guardavano
negli occhi senza trovare un argomento che incitasse la loro parlantina. Si
voltavano a destra e a sinistra, e si fermavano con la faccia sulla faccia
dell'ammalata. Pareva che il silenzio li mettesse tutti d'accordo che il caso
della mamma di Zaccaria fosse dei più disperati.
Dirimpetto a lei c'era una donna lunga con le spalle larghe e la testa
grossa che faceva piangere tutti quelli che le stavano intorno al letto. Suor
Cecilia, agile come una fanciulla, con la testa nascosta nella cappellina
bianca dalle ali che agitavano l'aria, passava da un letto all'altro con una
parola di consolazione, incoraggiando l'ammalata a sperare in Dio. Ne aveva
viste guarire di quelle che erano andate fino all'uscio della morte, di quelle
spedite dal primario.
— Abbiate fiducia nel Signore!
Un grido acuto distrasse tutti. Era venuto da un letto dall'altra parte
della crociera, dove erano le operate di ieri e di ieri l'altro. La sala era
tutta cogli occhi dietro le inservienti e le suore che andavano a corsa verso
un letto in fondo. Che c'era? Che cosa avveniva? Nulla. Si tiravano le tendine
e il letto scompariva lasciando il pubblico col punto interrogativo nel
cervello.
La 76 aveva indovinato. Era andata. All'ospedale non si tirano le
tendine che per sottrarre alla vista della gente o delle ammalate la defunta.
La 35 era tra la vita e la morte fino da ieri sera. Le avevano operato uno
scirro alla mammella destra alle nove di giovedì mattina. E dalli con le
operazioni! esclamò Carolina. Se non si pensava a fare qualche cosa, i medici,
che non lavorano sulla propria pelle, avrebbero continuata la strage. La 76
riprese la storia. Il giorno dopo era stata veduta a mangiare un pantrito che
riversò sulle lenzuola mezz'ora dopo. Rimase assopita per delle ore e poi
incominciò a delirare e a battere i denti come una febbricitante. È un brutto
segno, quando si battono i denti! Ieri sera suo marito era là vicino che si
struggeva con dei singhiozzi, chiamandola e scongiurandola di non morire, che
avevano due ragazzini da tirar grandi. La superiora lo accompagnò fuori della sala
con delle buone parole, assicurandolo che il primario le aveva confidato che
non si trattava che di cosa passeggiera. Loro, dell'ospedale, l'avevano mandato
a chiamare d'urgenza perché erano obbligate a far il loro dovere. Ma gli si
ripeteva di avere fiducia in Dio. Dio non abbandona gli afflitti. Stanotte il
medico e l'infermiera di guardia hanno dovuto accorrere due volte per
somministrarle qualche goccia di morfina e farle un'iniezione al braccio per
calmarla e lasciar dormire le altre. Nelle sale delle operate si sta sempre
male. Finiscono tre o quattro di lamentarsi, perché incominciano a star meglio,
e altre operate prendono il loro posto di gridare e dar fuori come matte. Alla
visita di stamane i medici si erano fermati al letto della 35 un po' più del
solito senza ordinarle nulla. Le cose della crociera si sapevano. Ma lei aveva
saputo tutto dall'infermiera. Stamattina il primario le aveva detto inutilmente
di lasciargli vedere la lingua senza che la povera donna cessasse dal tremare come
una foglia e le infermiere non sono mai riuscite ad aprirle la bocca per
costringerla a bere una goccia di marsala, il vino che spaventa tutte le
ammalate. Quando si vede la superiora andare a qualche letto con la bottiglia
di marsala, si incomincia a dire delle avemmarie sotto voce. È segno che la
poveretta non ha più che delle ore da vivere. La 35 è morta di tetano.
— Povera donna! — disse Adalgisa.
E tutti gli amici e le amiche di Luigia ripeterono con voce di
commiserazione:
— Povera donna!
Zaccaria pareva ormai completamente disinteressato. Invece di guardare
la mamma, la sua faccia andava in giro come un ghiottone di donne, incitato da
una vaga idea erotica che lo spingeva di letto in letto alla ricerca delle
malatine bianche come il latte, con la testa imboscata di capelli neri come
l'ala del corvo. Indugiava con compiacenza sulle fughe alabastrine dei colli
venati d'azzurro che uscivano dalle lenzuola fino alle spalle procaci, e
idealmente si rannicchiava sotto la coltre della 56, con delle sensazioni
gaudiose per la nuca, baciandola soavemente sulla bocca schiusa come un
incendio. Le manine diafane gli davano i rapimenti dell'innamorato e usciva
dalla rete sottile delle voglie smodate con degli scotimenti bruschi e furiosi
che lo rinsensavano.
Era il suo vecchio male di donnaiuolo che lo riprendeva. Negli ultimi
mesi era stato bene. Non ci pensava più alle femmine. Aveva potuto sfollare per
la folla delle gonnelle come in mezzo a una folla di uomini, senza essere
obbligato a scappare e perdere di vista la donna che gli pareva lo bevesse su
con gli occhi. Agitato, senza dir nulla, con le mani in tasca, con le palpebre
che gli si sbattevano per togliersi dinanzi la figura che stava per fargli
commettere una indecenza, si mise a correre verso l'uscita senza voltarsi
indietro.
— Zaccaria!
Nessuno aveva capito il dramma che si era svolto tra lui e la 56.
— Zaccaria!
Suor Cecilia era considerata, attraverso l'anno, da un'ammalata
all'altra, un angelo. Aveva nella voce e negli occhi una bontà infinita. La si
poteva chiamare cinquanta volte senza mai metterle nel gesto e nella parola
l'impazienza. Aveva ancora della gioventù nelle mani e sul viso bianco come il
lino che glielo incorniciava. Il suo pensiero era tutto votato a consolare gli
infelici. Talvolta passava da un letto all'altro come una sognatrice letificata
dal bene fatto. Non era mai in riposo. Discendeva prima che l'alba si
snebbiasse, andava al letto delle aggravate a domandar loro come avevano
passata la notte, dava degli ordini alle infermiere, si inginocchiava ai piedi
del Cristo in fondo a dire le orazioni a voce alta e andava subito dopo in giro
coi medici in visita. Era lei che suggeriva la dieta al primario. Non appena
credeva l'ammalata fuori di pericolo, gli diceva che poteva dare alla numero
tale la seconda, col quarto di pollo e col bicchiere di vino, o due uova al
latte, o due fette di cervella nel tegamino delle fritture, con un panino
lucido. E il primario la contentava fin dove poteva, perché l'amministrazione
non permetteva ai malati di mangiar bene che nelle ultime ore della vita. Per
le donne destinate alla operazione suor Cecilia aveva una cura speciale. Le
purgava il giorno prima con un drastico che faceva loro buttar fuori tutto, le
teneva d'occhio perché nessuno desse loro qualcosa da mangiare e alla mattina,
qualche minuto prima che andasse al letto delle operande la carriuola con la
coperta di lana nella quale venivano ravvolte, assisteva l'infermiera, che
mutava loro la camicia, con delle parole che non davano punto importanza alla
operazione che stavano per subire.
— Da che sono in questo ospedale – e sono dodici anni – non ne ho mai
vista una morire. Ormai le operazioni sono meno pericolose del rilassativo che
ti ho dato ieri. Non avere paura. Va là che il primario non è primario per
niente. Col cloroformio non senti neanche la puntura di uno spillo. Piuttosto
dimmi se sei pulita. Se non lo sei, c'è qui la Teresa che ti fa tutto.
E le vedeva, sdraiate o sentone, passare, una dopo l'altra, dietro
l'uscio dai vetri smerigliati, accompagnate dal suo sorriso di confidenza o
dalla sua ultima frase che si perdeva spesso nel rumore delle ruote del
veicolo.
— Non pensarci che non è nulla! Ti aspetto.
Andava al letto della 77, le spiegava il lenzuolo arruffato sulla
coperta e le domandava come si sentisse. Luigia rimaneva immobile, con gli
occhi sempre più vitrei e il colore della bocca paonazzo.
— Con una febbre come la tua non si può star bene in due minuti. Ma non
avere paura che all'ospedale non si muore. I ricchi che si curano a casa
muoiono assai più che i poveri. Lo dice sempre il nostro primario.
Poi si rivolgeva alla folla che la circondava, togliendo i cartocci dal
cassetto e mettendoseli nel grembiale di merinos nero.
— Vedi? I tuoi amici vorrebbero farti morire come i signori che si
curano a casa. A casa c'è sempre qualche anima pietosa che dia loro qualche
cosa. Prova questo dolce che ti farà bene! Assaggia questa ala di pollo! Bevi
questo vino di bottiglia! E a furia di star bene l'ammalato crepa. Il cuore dei
tuoi amici ti farebbe capitare la stessa disgrazia. Fortuna che io voglio che
tu guarisca. Quando potrai mangiarli, sarò io la prima a portarteli.
E le dava un buffetto con garbo e ripassava, sgomitando e raccomandando
loro di guardarsi bene dal dare dolci all'ammalata.
— La uccidereste!
Alle compagne della Scavalcatetti e di Gigia pareva di vedere nella
suora una ladra che sbarazzava i cassetti con dei pretesti per dar tutto alle
sue sorelle. E di questo parere era un po' anche Marianna. Ma Bentoni dissipava
ogni dubbio, assicurandole che il digiuno, quando si aveva la febbre, era
legge. Guai a chi si lasciava imbarazzare lo stomaco. Era quello che diceva
nell'offelleria all'Adalgisa che avrebbe voluto portarle qui una vetrina di
dolci.
— Non è vero?
Adalgisa, distratta, si curvava come una risposta. Anche la 76 diceva
che aveva ragione la suora. Dalla operazione non aveva assaggiato una goccia di
brodo che non le fosse stato ordinato dal medico. Le premeva troppo di
ritornare a casa, per imitare la 35, la quale aveva mangiato, di nascosto, il
pane della sua vicina nella sera dell'operazione.
Adalgisa si era messa a parlare sottovoce, in fretta, nel crocchio delle
amiche, con le spalle voltate alla ammalata che pareva imbecillita. Aveva
qualcosa nel gozzo che la obbligava a sfogarsi. La birbonata che le aveva fatto
la maladonna del cortilone era una azione indegna che si era legata al mignolo
per fargliela pagare, avesse dovuto morire. Ah, sì! Aveva trovato carne per i
suoi denti, quel vaso rotto dove ciascuno aveva fatto quello che aveva voluto!
La donna di tutti si era vendicata facendo dare lo sfratto alla madre. Brutta
carogna! Le potevano barattare il nome se non si fosse presa una rivincita come
si doveva. Non si sarebbe lasciata sorprendere, come il Natale, in mezzo al cortilone,
quando pensava a tutt'altro che a farla fuori a pugni. Ella non era vendicativa
e tutti lo sapevano. Ma c'erano cose che gridavano vendetta in cielo. Anche
vestita di seta, sapeva rimboccarsi le maniche e lasciare il segno delle cinque
dita sulla faccia della villana. Marianna non aveva bisogno del posto
d'ortolana addosso alla muraglia del cortilone, perché, fra non molto, avrebbe
fatto ingiallire dalla bile tutte le maledonne del Terraggio con una bella
bottega a pochi passi sul corso.
Senz'accorgersi le si erano riempiti gli occhi e le lacrime le
scorrevano in bocca a farla singhiozzare. Bentoni, commosso, l'accarezzava e se
la stringeva al fianco, dicendole di essere buona che avrebbe pensato lui alla
mamma. Aveva impegnata la sua parola d'onore e la ripeteva in faccia a tutti,
diavolo. Gigia aiutava a calmarla consigliandola a non sporcarsi le mani con
una donna di quella fatta. C'erano poi la Scavalcatetti, la Senzanaso, la Morettona e le altre che la conoscevano bene fino da quando
andava al fosso a piedi nudi e si sdraiava col primo che le capitava. Era una
donnaccia che bisognava lasciare nei suoi vizii. Il posto adesso era stato
preso dalla mamma di quell'Altieri materassaio che fingeva di avere un grande
sprezzo per tutte le donne. Ah, sì! Come se non si fosse saputo che egli andava
di notte a dormire con quel pitale comune della maladonna del primo piano! Lo
si sentiva, a ora tarda, passare in punta di piedi verso il suo uscio e lo si
risentiva ripassare verso mattina come un ladro. L'altro giorno le era venuto
voglia di dirne quattro a quella smortona di sua madre che fa la madonna e
parla come una devota alla Maria santissima mentre chiude gli occhi sul figlio
che si lascia mantenere dalla mantenuta del padrone di casa! Gli uomini dovevano
avere proprio le fette di salame sugli occhi! Ecco lì un giovine, che potrebbe
essere felice, capace di tirarsi in casa un avanzo della strada se non ci fosse
il padrone pronto a sposarla!
La campana suonava e le infermiere incominciavano a battere le mani per
mettere in cammino la gente che non finisce mai di parlare e che crede sempre
di avere qualcosa da dire.
— Andiamo, signori!
Adalgisa domandava scusa alle amiche. Le erano venute giù le lacrime
perché si era intenerita vedendo un'ammalata che baciava e ribaciava una bimba
che le avevano messa fra le braccia e che baciandola piangeva in un modo da far
piangere. Lei era una ragazza di cuore che le si inumidivano gli occhi ogni
volta che andava a teatro. Le infermiere ribattevano le mani e loro potevano
andare perché già la campana era suonata. La Luigia non aveva bisogno che del riposo, come aveva detto la suora. Le avrebbe fatto un bacio se non avesse avuto
paura di svegliarla. È così difficile riaddormentarsi quando si sta male che
sarebbe proprio un peccato disturbarla. E quel suo Zaccaria che se n'era andato
senza neanche dir loro addio?
E l'una dopo l'altra, con Bentoni alla testa, si avviavano insieme alla
folla, lemme lemme, discorrendo di Candida che la mamma del materassaio aveva
messa al banco a vendere le carote e le verze per tirare i merli nella rete.
Era una ragazza vistosa che aveva messo in vetrina per rubare le famiglie che
serviva la Marianna. Ma non ci sarebbe riuscita, perché in bottega ci sarebbe
stata anche lei, almeno fino a quando l'avesse veduta bene avviata. Bentoni
conosceva tutti e nessuno dei suoi amici gli avrebbe dato il dispiacere di
abbandonare la vecchia ortolana. La Gigia non comperava molto, perché era in
casa sola. Ma non avrebbe mai comperato un porro al banco dell'Altieri. Se
tutto il cortilone avesse fatto come lei, sarebbe morta di fame. Carolina non
comperava che di tanto in tanto dei fagiuoli secchi, perché andava di sopra a
mangiare la minestra dalla 79. Ma per quanto stava in lei, l'Altieri non
avrebbe visto il becco d'un quattrino. Ah no, perdio! E avrebbe fatto di tutto
per impedire anche alle altre di andarvi. Non le era mai piaciuto quel
pappataci del materassaio che guardava in terra quando passava. La gente che ha
paura di guardare in faccia è gente che bisogna schivare. Non si sarebbe fidata
di lui neanche a fare quattro passi. Era lì nella stessa casa, ma nessuno
sapeva dove andava quando usciva alla sera. Andava a donne? Era voce comune che
spendeva il suo tempo nelle case di malaffare. Certo nessuno sapeva niente di
preciso e non era cosa che la riguardava. Ma il proverbio non falla: Dimmi con
chi vai e ti dirò chi sei. E tutti approvavano.
— Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei!
L'8 di settembre 1874 era stata una giornata di commozione generale. Le
quattrocentottantatre famiglie si fregavano gli occhi per paura che non fosse
vero. Chi tirava il fiato dalla soddisfazione, chi si stropicciava le mani con
dei «finalmente!» E chi levava il pugno in alto, cogli occhi sul 12 del primo
piano del blocco C, dicendo apertamente che erano contenti che fosse venuto il
rendimento dei conti per quell'uomo che era stato la tribolazione di tutti. Gli
inquilini leggevano gli avvisi impastati al principio di ogni scala e
all'entrata del portone e parlavano di Fioravanti come della caduta di un
tiranno che aveva disseminato dovunque la desolazione. La gioia era così
generale che coloro, i quali sapevano leggere, leggevano l'avviso a alta voce,
accompagnando le parole con dei gesti che parevano imprecazioni.
|