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Paolo Valera
La folla

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  • 19
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Non c'era uno che non gongolasse di gioia di vedere in terra un sacripante che aveva esercitato le funzioni del prepotente che non capisce se non l'affitto al sabato di ogni stagione. Per lui non ci potevano essere disgrazie, non ci potevano essere angustie, non ci potevano essere temporali. Andava per gli usci con quei suoi occhiacci del colore dell'agata come un poliziotto e pestava i piedi se appena lo si faceva aspettare il tempo di togliere il denaro, che costava tanti sudori, dal cassettone. Bastava lamentarsi degli accidenti sinistri che capitano ai poveri diavoli per vedere i colpi di spalla che traducevano la sua indifferenza. C'era tutto il Casone che poteva far fede della sua bontà d'animo. Il povero Siliprandi era ancora nel sottoscala come un documento. Bisognava essere di sasso per metter fuori dell'uscio un vecchio della sua età, in un inverno in cui gelava il fiato sulle labbra, con delle notti serene che producevano il ghiaccio grosso quattro dita. Il pittore del numero 30, al terzo piano del blocco C, era stato spinto alla morte dal Fioravanti che lo tormentava quando il poveretto non aveva quattrini. Non occorreva una grande memoria per ricordarsi che il collettore d'affitti aveva il cuore della Jena del serraglio in piazza Castello. Le donne l'avevano veduta la sua tenerezza sabato scorso, quando, con quella sua faccia da basilisco, tutto sbracciato, voleva buttare in corte gli stracci della Luigia, morta all'ospedale senza pagare la pigione. Margherita, la 27, discendeva dalla scala e si metteva tra quelle dinanzi il blocco A a ricordare tutto il male che aveva fatto al Tognazzo, un uomo che sarebbe stato incapace di ammazzare una mosca. Gli andava in stanza come una vipera, magari di notte, e gli faceva scenate che svegliavano i vicini. Lei non giurava, perché non si poteva giurare che per quello che si vedeva coi propri occhi, ma aveva una grande paura che il 28 fosse morto dallo spavento di essere, un giorno o l'altro, messo sulla strada. La Giovanna, presente, che era di sopra con lei nel giorno in cui gli avevano posto il crocefisso sul letto, poteva dire se diceva una bugia.

Il Fioravanti usciva dal blocco C, con la sua faccia piatta e sconvolta, e le donne scappavano come se fosse stato un diavolo. Ne avevano abbastanza di quella belva che le aveva fatte tremare per tanti sabati e le aveva tormentate per dei semplici soldi. Lo si lasciava passare dappertutto, senza dargli il buon giorno come le altre volte, quando bisognava tenerlo buono, e si voltavano gli occhi dall'altra parte per disprezzo. La Pina, giù dabbasso con le donne che si pettinavano, diceva che Dio solo sapeva quello che le aveva fatto soffrire il Fioravanti.

C'erano stati momenti in cui aveva dovuto correre dal pignoratario Invernizzi, sul corso, a impegnare le scarpe non ancora finite per toglierselo di casa, nei momenti in cui non voleva andarsene via senza la pigione. Suo marito beveva, e questo non le faceva piacere, ma non toccava a lui dargli dell'imbriaco con la voce del brontolone che mandava il sangue in acqua. E concludeva chiamandolo il boia del Casone.

Fioravanti, che aveva un'intelligenza malvagia, capiva che il suo regno era finito. Udiva alle spalle le mormorazioni della gente che lo considerava il nemico dei poveri che aveva angariato per tanti anni. Anche quelli che gli avevano fatto l'amico fino a ieri lo evitavano come un cane rabbioso. Il collettore se ne meravigliava, come se non fosse stato lui il tirannello che aveva negato la pennellata dell'imbianchino, la riparazione urgente, un po' più d'olio nei lumini per le scale, la scopata all'anno per il Casone e un po' di fiato a chi era caduto in qualche miseria.

Siliprandi era troppo accasciato per diventare terribile. Egli era in terra, nel sottoscala, coi piedi nelle scarpe, che non tenevano più da nessuna parte, fuori sull'acciottolato, con la faccia rincupita dagli ultimi patimenti, coi peli della barba ingiallita dalla sporcizia, senza la forza di agitare il bastone e di alzarsi a fare il rodomonte. Ma, spossato com'era e senza voce, diceva che ora poteva morire contento perché Iddio lo aveva esaudito. Era stato lui a pregarlo ogni giorno di punire il suo carnefice.

— Sono stato io che ho supplicato il Signore di castigarti. Adesso muoio contento.

E rimase assopito, con gli occhi chiusi, con la testa appoggiata al muro, con le labbra semiaperte, come un profeta che ha compiuto l'opera sua.

Fioravanti non si aspettava l'avviso. Giorgio gli aveva tagliato le mani con un colpo netto. Lo leggeva movimentando tutta la pelle della testa come nei giorni in cui la bile lo faceva andare in furia. Parlava tra sé, col gesto esasperato, e tutta la sua figura di vecchio allampanato assumeva il colore della collera verde. Gli passava per la mente la frase che gli diceva sempre il Ghiringhelli, quando andava a portargli i denari: che chi fonda sul popolo fonda sul fango. Lo vedeva bene che cos'era il popolo. Un mucchio d'ingrati. E dicendolo, il bianchiccio intorno le sue pupille pareva si oscurasse per renderlo più truce. Andava su e giù per l'avviso, con gli occhi grossi, senza leggere più nulla, dando addosso al suo cuore che piangeva per i patimenti degli altri, e buttandosi su Giuliano, lo smortone che aveva fatto il morto fino all'ultimo. Lui era cristiano e si trovava soddisfatto a fare del bene, ma qualche volta doveva convenire che si era obbligati a pentirsene. Ai tempi in cui il materassaio stentava a pagare l'affitto, invece di dargli del respiro doveva chiuderlo fuori dell'uscio senza remissione. Ora non sarebbe stato disonorato e non avrebbe avuto il dispiacere di aver covato la serpe col calore della sua compassione. Vedeva come in uno specchio la mano che gli aveva menato il colpo e gli faceva nascere il rimorso di averla risparmiata. Era la mano dell'Annunciata che lo ringraziava di non averla agguantata per il braccio alla morte di Pasquale e trascinata al portone come una cosa malsana che aveva iniziata la decadenza della morale del Casone. Prima di lei c'era la prostituzione aperta, cancrenosa, purulenta che si faceva sentire e vedere dappertutto. Dopo di lei si era insinuata la gonnella modesta, che nascondeva tutto e ingannava tutti. Non era più il vizio sbrigliato nei colori chiassosi. Era il calcolo, era la riflessione, era il sistema. E col pensiero acceso, si voltava verso gli spettatori della sua caduta con la mano indispettita di vedersi ricompensato con tanta ingratitudine. La sua vendetta era nel domani. Domani non avrebbero trovato più il Fioravanti che gridava, perché con gli straccioni bisognava gridare se non si voleva lasciarseli venire sullo stomaco, ma il Giuliano Altieri, il sornione che faceva le cose sottacqua e non aveva coscienza che per il proprio interesse. Il suo difetto era quello di essersi lasciato aprire da tutti come un armadio.

Diceva le cose che aveva di dentro senza paura. E a questo mondo non bisogna essere sinceri, se si vuole vivere in pace. Se si fosse tenuto in bocca quello che pensava della 49, sarebbe morto un buon diavolo del Casone. Se poi l'avesse tenuta da conto, ora non si saprebbe più in che modo salutarlo. Tutti i rivoltosi gli sarebbero cascati ai piedi. Più guardava gli inquilini sparsi per il cortile e più sentiva il ribrezzo di trovarsi in mezzo a una gentaglia che non sapeva distinguere la cosa onesta dalla disonesta. Si staccava dall'avviso più forte, con un concetto più alto di se stesso, convinto che egli aveva perduto il suo tempo a insegnare l'elevatezza dei costumi e la gratitudine alla feccia umana. Volgendo il passo verso la parte più rumorosa del cortilone che serviva di lavorerio, dava ragione a Martino. Le moltitudini che non superavano la linea dell'anestesia morale, nascevano e morivano senza avanzare di un punto. Non era per vantarsi se diceva ch'egli era oramai il più vecchio del Casone. Vi era entrato assai prima che Pasquale Introzzi ne divenisse il padrone e aveva veduto nascere gli inquilini sparpagliati per i numeri delle ringhiere a nidiate. E poteva dire con sicurezza che non si era avanzati di un passo.

Mondo! — diss'egli battendo sulla spalla di Martino. — Avevate ragione di dire che dove manca ogni idea di pulizia e di decenza non vi può essere progresso. Guardate intorno, Martino, e vedrete quante facce mi vorrebbero divorare vivo. Era così il giorno in cui io presi il posto di Piantanida. Dall'oggi all'indomani tutto il Casone gli aveva voltato il dorso.

Mondo!

Martino non era sciocco da lasciarsi commuovere dalla manata di un villanaccio che non gli era mai andato ai versi. Adesso che lo vedevano tutti come il fumo negli occhi andava a domandargli un po' della sua amicizia. Grazie tante, un'altra volta. E senza badare a quello che gli diceva, tirava via a imbiancare la gelosia che aveva sottomano con l'occhio che parlava con quello di Paolino.

Paolino martellava il ferro sull'incudine con grande veemenza, come se avesse voluto far capire a Fioravanti che la sua voce, che usciva malamente da un naso ingorgato alla radice, lo infastidiva. Tra loro non c'era mai stata simpatia. Ma dal giorno in cui il collettore di affitti strascinò giù dalle scale il povero Siliprandi, mortificandolo con tutti i nomi che fanno arrossire la gente in miseria, non lo volle più vedere. Gli pareva di udirlo ancora quando gli dava del pezzente e del ladro in arretrato di sei settimane. Non aveva commesso uno sproposito perché c'era stato qualcuno che lo aveva trattenuto, ma c'era mancato poco.

Ripensandoci, si riscaldava e era obbligato a smettere e andare altrove per paura di dirgli una villania.

Martino, vado dal Battista.

Aspetta che vengo anch'io.

— Avrei capitoriprese Fioravanti con la parola melata — che il signor Giorgio avesse dato la preferenza a voi, Martino. Siete qui da tanti anni...

Tralasciate di inzuccherarmi! — gli disse seccamente Martino con un gesto imperioso della mano. — Io vivo del mio lavoro e non ho tempo di occuparmi degli affari degli altri. Se volete la mia opinione, è che sono contentone che il signor Giorgio abbia scelto un giovinotto come Giuliano. Egli è proprio l'uomo che ci voleva per questo alveare e non ho scrupolo a dirvelo sulla faccia. Io sono sempre convinto che i poveri non possono elevarsi, perché la lotta per l'esistenza è più forte di loro. Ma non sono mica qui a approvare i vostri maltrattamenti. Scusate se sono schietto e lasciatemi in pace.

— Ho parlato bene? — domandò l'inverniciatore a Paolino, mettendogli il braccio sotto il braccio.

— Hai parlato da galantuomo, mio caro. Dammi la mano.

— Non c'è bisogno. Sono anch'io padre di famiglia e so che cosa voglia dire trovarsi in istrada senza un aiuto al mondo. L'affitto bisogna pagarlo, è più che giusto. Ma ci sono casi in cui è inutile ricordare la legge. Si è alla presenza di persone naufragate. Non c'è più che la mano di Dio che possa fare il miracolo. Il padrone che ci conosce bene non avrebbe mai avuto il coraggio di commettere le azioni atroci del Fioravanti.

 




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