Non c'era uno che non gongolasse di gioia di vedere in
terra un sacripante che aveva esercitato le funzioni del prepotente che non
capisce se non l'affitto al sabato di ogni stagione. Per lui non ci potevano
essere disgrazie, non ci potevano essere angustie, non ci potevano essere
temporali. Andava per gli usci con quei suoi occhiacci del colore dell'agata
come un poliziotto e pestava i piedi se appena lo si faceva aspettare il tempo
di togliere il denaro, che costava tanti sudori, dal cassettone. Bastava
lamentarsi degli accidenti sinistri che capitano ai poveri diavoli per vedere i
colpi di spalla che traducevano la sua indifferenza. C'era tutto il Casone che
poteva far fede della sua bontà d'animo. Il povero Siliprandi era ancora nel
sottoscala come un documento. Bisognava essere di sasso per metter fuori
dell'uscio un vecchio della sua età, in un inverno in cui gelava il fiato sulle
labbra, con delle notti serene che producevano il ghiaccio grosso quattro dita.
Il pittore del numero 30, al terzo piano del blocco C, era stato spinto alla
morte dal Fioravanti che lo tormentava quando il poveretto non aveva quattrini.
Non occorreva una grande memoria per ricordarsi che il collettore d'affitti
aveva il cuore della Jena del serraglio in piazza Castello. Le donne l'avevano
veduta la sua tenerezza sabato scorso, quando, con quella sua faccia da
basilisco, tutto sbracciato, voleva buttare in corte gli stracci della Luigia,
morta all'ospedale senza pagare la pigione. Margherita, la 27, discendeva dalla
scala e si metteva tra quelle dinanzi il blocco A a ricordare tutto il male che
aveva fatto al Tognazzo, un uomo che sarebbe stato incapace di ammazzare una
mosca. Gli andava in stanza come una vipera, magari di notte, e gli faceva
scenate che svegliavano i vicini. Lei non giurava, perché non si poteva giurare
che per quello che si vedeva coi propri occhi, ma aveva una grande paura che il
28 fosse morto dallo spavento di essere, un giorno o l'altro, messo sulla
strada. La Giovanna, lì presente, che era di sopra con lei nel giorno in cui
gli avevano posto il crocefisso sul letto, poteva dire se diceva una bugia.
Il Fioravanti usciva dal blocco C, con la sua faccia piatta e sconvolta,
e le donne scappavano come se fosse stato un diavolo. Ne avevano abbastanza di
quella belva che le aveva fatte tremare per tanti sabati e le aveva tormentate
per dei semplici soldi. Lo si lasciava passare dappertutto, senza dargli il
buon giorno come le altre volte, quando bisognava tenerlo buono, e si voltavano
gli occhi dall'altra parte per disprezzo. La Pina, giù dabbasso con le donne che si pettinavano, diceva che Dio solo sapeva quello che le aveva fatto soffrire
il Fioravanti.
C'erano stati momenti in cui aveva dovuto correre dal pignoratario
Invernizzi, sul corso, a impegnare le scarpe non ancora finite per toglierselo
di casa, nei momenti in cui non voleva andarsene via senza la pigione. Suo
marito beveva, e questo non le faceva piacere, ma non toccava a lui dargli
dell'imbriaco con la voce del brontolone che mandava il sangue in acqua. E
concludeva chiamandolo il boia del Casone.
Fioravanti, che aveva un'intelligenza malvagia, capiva che il suo regno
era finito. Udiva alle spalle le mormorazioni della gente che lo considerava il
nemico dei poveri che aveva angariato per tanti anni. Anche quelli che gli
avevano fatto l'amico fino a ieri lo evitavano come un cane rabbioso. Il
collettore se ne meravigliava, come se non fosse stato lui il tirannello che
aveva negato la pennellata dell'imbianchino, la riparazione urgente, un po' più
d'olio nei lumini per le scale, la scopata all'anno per il Casone e un po' di
fiato a chi era caduto in qualche miseria.
Siliprandi era troppo accasciato per diventare terribile. Egli era in
terra, nel sottoscala, coi piedi nelle scarpe, che non tenevano più da nessuna
parte, fuori sull'acciottolato, con la faccia rincupita dagli ultimi patimenti,
coi peli della barba ingiallita dalla sporcizia, senza la forza di agitare il
bastone e di alzarsi a fare il rodomonte. Ma, spossato com'era e senza voce,
diceva che ora poteva morire contento perché Iddio lo aveva esaudito. Era stato
lui a pregarlo ogni giorno di punire il suo carnefice.
— Sono stato io che ho supplicato il Signore di castigarti. Adesso muoio
contento.
E rimase lì assopito, con gli occhi chiusi, con la testa appoggiata al
muro, con le labbra semiaperte, come un profeta che ha compiuto l'opera sua.
Fioravanti non si aspettava l'avviso. Giorgio gli aveva tagliato le mani
con un colpo netto. Lo leggeva movimentando tutta la pelle della testa come nei
giorni in cui la bile lo faceva andare in furia. Parlava tra sé, col gesto
esasperato, e tutta la sua figura di vecchio allampanato assumeva il colore
della collera verde. Gli passava per la mente la frase che gli diceva sempre il
Ghiringhelli, quando andava a portargli i denari: che chi fonda sul popolo
fonda sul fango. Lo vedeva bene che cos'era il popolo. Un mucchio d'ingrati. E
dicendolo, il bianchiccio intorno le sue pupille pareva si oscurasse per
renderlo più truce. Andava su e giù per l'avviso, con gli occhi grossi, senza
leggere più nulla, dando addosso al suo cuore che piangeva per i patimenti
degli altri, e buttandosi su Giuliano, lo smortone che aveva fatto il morto
fino all'ultimo. Lui era cristiano e si trovava soddisfatto a fare del bene, ma
qualche volta doveva convenire che si era obbligati a pentirsene. Ai tempi in
cui il materassaio stentava a pagare l'affitto, invece di dargli del respiro
doveva chiuderlo fuori dell'uscio senza remissione. Ora non sarebbe stato
disonorato e non avrebbe avuto il dispiacere di aver covato la serpe col calore
della sua compassione. Vedeva come in uno specchio la mano che gli aveva menato
il colpo e gli faceva nascere il rimorso di averla risparmiata. Era la mano
dell'Annunciata che lo ringraziava di non averla agguantata per il braccio alla
morte di Pasquale e trascinata al portone come una cosa malsana che aveva
iniziata la decadenza della morale del Casone. Prima di lei c'era la
prostituzione aperta, cancrenosa, purulenta che si faceva sentire e vedere
dappertutto. Dopo di lei si era insinuata la gonnella modesta, che nascondeva
tutto e ingannava tutti. Non era più il vizio sbrigliato nei colori chiassosi.
Era il calcolo, era la riflessione, era il sistema. E col pensiero acceso, si
voltava verso gli spettatori della sua caduta con la mano indispettita di
vedersi ricompensato con tanta ingratitudine. La sua vendetta era nel domani.
Domani non avrebbero trovato più il Fioravanti che gridava, perché con gli
straccioni bisognava gridare se non si voleva lasciarseli venire sullo stomaco,
ma il Giuliano Altieri, il sornione che faceva le cose sottacqua e non aveva
coscienza che per il proprio interesse. Il suo difetto era quello di essersi
lasciato aprire da tutti come un armadio.
Diceva le cose che aveva di dentro senza paura. E a questo mondo non
bisogna essere sinceri, se si vuole vivere in pace. Se si fosse tenuto in bocca
quello che pensava della 49, sarebbe morto un buon diavolo del Casone. Se poi
l'avesse tenuta da conto, ora non si saprebbe più in che modo salutarlo. Tutti
i rivoltosi gli sarebbero cascati ai piedi. Più guardava gli inquilini sparsi
per il cortile e più sentiva il ribrezzo di trovarsi in mezzo a una gentaglia
che non sapeva distinguere la cosa onesta dalla disonesta. Si staccava
dall'avviso più forte, con un concetto più alto di se stesso, convinto che egli
aveva perduto il suo tempo a insegnare l'elevatezza dei costumi e la
gratitudine alla feccia umana. Volgendo il passo verso la parte più rumorosa
del cortilone che serviva di lavorerio, dava ragione a Martino. Le moltitudini
che non superavano la linea dell'anestesia morale, nascevano e morivano senza
avanzare di un punto. Non era per vantarsi se diceva ch'egli era oramai il più
vecchio del Casone. Vi era entrato assai prima che Pasquale Introzzi ne
divenisse il padrone e aveva veduto nascere gli inquilini sparpagliati per i
numeri delle ringhiere a nidiate. E poteva dire con sicurezza che non si era
avanzati di un passo.
— Mondo! — diss'egli battendo sulla spalla di Martino. — Avevate ragione
di dire che dove manca ogni idea di pulizia e di decenza non vi può essere
progresso. Guardate intorno, Martino, e vedrete quante facce mi vorrebbero
divorare vivo. Era così il giorno in cui io presi il posto di Piantanida.
Dall'oggi all'indomani tutto il Casone gli aveva voltato il dorso.
— Mondo!
Martino non era sciocco da lasciarsi commuovere dalla manata di un
villanaccio che non gli era mai andato ai versi. Adesso che lo vedevano tutti
come il fumo negli occhi andava a domandargli un po' della sua amicizia. Grazie
tante, un'altra volta. E senza badare a quello che gli diceva, tirava via a
imbiancare la gelosia che aveva sottomano con l'occhio che parlava con quello
di Paolino.
Paolino martellava il ferro sull'incudine con grande veemenza, come se
avesse voluto far capire a Fioravanti che la sua voce, che usciva malamente da
un naso ingorgato alla radice, lo infastidiva. Tra loro non c'era mai stata
simpatia. Ma dal giorno in cui il collettore di affitti strascinò giù dalle
scale il povero Siliprandi, mortificandolo con tutti i nomi che fanno arrossire
la gente in miseria, non lo volle più vedere. Gli pareva di udirlo ancora
quando gli dava del pezzente e del ladro in arretrato di sei settimane. Non
aveva commesso uno sproposito perché c'era stato lì qualcuno che lo aveva
trattenuto, ma c'era mancato poco.
Ripensandoci, si riscaldava e era obbligato a smettere e andare altrove
per paura di dirgli una villania.
— Martino, vado dal Battista.
— Aspetta che vengo anch'io.
— Avrei capito — riprese Fioravanti con la parola melata — che il signor
Giorgio avesse dato la preferenza a voi, Martino. Siete qui da tanti anni...
— Tralasciate di inzuccherarmi! — gli disse seccamente Martino con un
gesto imperioso della mano. — Io vivo del mio lavoro e non ho tempo di
occuparmi degli affari degli altri. Se volete la mia opinione, è che sono
contentone che il signor Giorgio abbia scelto un giovinotto come Giuliano. Egli
è proprio l'uomo che ci voleva per questo alveare e non ho scrupolo a dirvelo
sulla faccia. Io sono sempre convinto che i poveri non possono elevarsi, perché
la lotta per l'esistenza è più forte di loro. Ma non sono mica qui a approvare
i vostri maltrattamenti. Scusate se sono schietto e lasciatemi in pace.
— Ho parlato bene? — domandò l'inverniciatore a Paolino, mettendogli il
braccio sotto il braccio.
— Hai parlato da galantuomo, mio caro. Dammi la mano.
— Non c'è bisogno. Sono anch'io padre di famiglia e so che cosa voglia
dire trovarsi in istrada senza un aiuto al mondo. L'affitto bisogna pagarlo, è
più che giusto. Ma ci sono casi in cui è inutile ricordare la legge. Si è alla
presenza di persone naufragate. Non c'è più che la mano di Dio che possa fare
il miracolo. Il padrone che ci conosce bene non avrebbe mai avuto il coraggio
di commettere le azioni atroci del Fioravanti.
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