Giuliano Altieri era uscito da un pezzo, perché dal
giorno in cui era divenuto intimo di Filippo Buondelmonti, la sua vita s'era
fatta febbrile in una ordinata distribuzione delle ore di lavoro. Alla mattina
si alzava alle quattro con la mamma che gli preparava il caffè prima di andare
in Verziere, discendeva col sapone e coll'asciugatoio alla pompa, si lavava e
si rinfrescava fino al busto con l'acqua a ondate e risaliva a sorseggiare il
caffè, al suo tavolino di lavoro, rischiarato dalla lampada posta sull'alzata
di legno, fino alle sei e tre quarti. Dopo una lavorata che lo rendeva felice,
accendeva la pipa e salutava le sorelle con dei baci. Alle sette egli era già
col graticcio in ispalla che andava via col suo garzone verso la casa ove era
aspettato, rimuginando ciò che aveva imparato.
Filippo Buondelmonti, un bravo giovine di vent'anni che aveva studiato a
Bologna e che aveva letto molti libri senza laurearsi, si era innamorato della
semplicità e della bontà di Giuliano, il materassaio di sua madre. Invece di
contrariarlo e dirgli che sarebbe stato una pazzia per lui di farsi in quattro
per percorrere una strada che avrebbe dovuto percorrere da ragazzo, si mise a
secondare e quasi a spronare la sua determinazione di volere uscire a ogni
costo dalla moltitudine condannata all'ignoranza. Coi suggerimenti che gli dava
durante la loro conversazione serale gli spianava la via, gli spalancava delle
porte, gli rendeva facili le cose più difficili, senza mai fargli perdere l'amore
per la popolazione alla quale apparteneva. Lo chiamava il Michele Landò del
Casone e gli prometteva di narrargliene, un giorno, la storia.
Gli diceva che il suo sistema di leggere qualunque libro gli capitava in
mano, per andare alla conoscenza dei vocaboli che gli occorrevano per capire ciò
che leggeva, non era il migliore. Il suo sistema era troppo lungo, affaticava
più del bisogno, ingarbugliava una cosa con l'altra, riduceva alla confusione e
sconfortava a ogni minuto che si incespicava nelle parole che parevano opache.
Era necessario essere più modesti, più metodici, più rigorosi. Coloro che si
davano alla pazza gioia di volere abbracciare tutto lo scibile umano in una
volta, arrivavano alla fine del loro viaggio con un grande disordine nella testa
e senza voglia di ricominciare da capo. Paragonava la lingua a una immensa mole
alla quale ciascuna generazione aveva portato il suo materiale. Non si poteva
mettere in piedi l'edificio delle generazioni senza mettere giù le fondamenta.
E le fondamenta di una costruzione così enorme erano nel dizionario.
— Tu, che ne hai uno grosso sul tavolo, incroci le braccia dalla
disperazione. Ti pare un'impresa superiore alle tue forze. Non avere paura —
gli disse con dolcezza Filippo. — L'importante è che tu ti metta nella testa
che la lingua è assolutamente indispensabile per il lettore che desideri fare
qualche conoscenza coi grandiosi magazzini intellettuali. Prendi il vocabolario
che hai sul tavolo. A guardarlo spaventa, non è vero? Pare che la vita di un
uomo non basti a mandarlo a memoria. Tu l'apri e t'accorgi che un ragazzo lo
imparerebbe in pochi mesi. Scartabellalo e vedrai che non c'è pagina senza
parole che tu conosca. Dopo «gabarra», una specie di nave militare degli
antichi, trovi «gabbacompagno, gabbamondo, gabbia, gabbiano», ecc. C'è tutta la
lingua parlata da saltar via. Tutti noi sappiamo il significato di sole,
occhio, acqua, scarpa, tavolo, uomo. Tu leggi da un pezzo. Ed ecco dell'altro
materiale da dedurre. Il dizionario è carico di arcaismi. È tutta zavorra da
buttare in mare. Perché tu non hai bisogno d'imparare il vecchiume inservibile,
se vuoi lasciare un po' di posto alla lingua nuova, alla lingua del tuo tempo,
alla lingua sublime che produce la gente nata dopo il dizionario. Che
t'importa, per esempio, di sapere dalla lingua iperpopolare «interciso», quando
tu hai «tagliato», capito da tutti?
Deduci, deduci e vedrai che in 365 giorni, imparando 60 parole ogni 24
ore, sarai alla fine del tuo dizionario elefantesco e avrai aggiunto al tuo
piccolo bagaglio ventunmila e novecento vocaboli. Il che vorrebbe dire che fra
dodici mesi saresti possessore di una cinquantina di mila parole. E con una
cinquantina di mila parole, mio caro, si può affrontare la perversione del
mondo. Si ha a propria disposizione una miniera. Si è resa più sensibile la
materia grigia sotto la calotta cranica. Si è capaci di fucinare le immagini
più belle e più chiare e si è maturi per la battaglia.
Giuliano pareva sotto l'incubo di un sogno. Ascoltava Filippo
Buondelmonti col cervello inondato di luce bianca. Ogni parola che gli cadeva
nel fitto delle tenebre cerebrali si scioglieva come un razzo che gli
squarciava il buio e gli faceva vedere la linea retta che doveva condurlo alla
emancipazione. Vedeva l'orizzonte del suo avvenire più largo, più promettente,
più sicuro. E tutte le volte che gli ritornavano alla mente le frasi
incitatrici di Buondelmonti, veniva ripreso dalla febbre del lavoro, e si
sentiva incalzato da una voce che lo rianimava e gli gridava: «Avanti! Avanti!»
Dopo sei mesi di questa corsa trafelata che gli aveva acuito la memoria
e lo spirito e lo aveva quasi reso padrone della ortografia, Filippo
Buondelmonti gli andò in casa con un volume di sinonimi.
— Te lo regalo. I sinonimi ti insegneranno la
sfumatura della lingua e ti introdurranno nella fraseologia, preparandoti così
alla stilistica senza accorgertene. Leggendoli, imparerai a distinguere le
finezze del senso tra vocabolo e vocabolo. Tra «mortificati» e «sbaldanziti»,
tra «crepitare» e «scoppiettare». «Crepitare», come tu sai, è un leggiero
strepito. Crepita la legna che arde. «Scoppiettare» è un po' più forte. Perciò
farai scoppiettare le dita, la frusta, e anche la legna e il carbone. Ma terrai
a mente che il suono di quest'ultimo verbo è sempre più sonoro. Nei giorni
della fiaccona, quando si ha voglia di qualcosa di meno massiccio o di più
appetitoso, cibati dei sinonimi. Vi troverai un cibo delicato che ti farà
rinascere. Ti metterà in grado, a tua insaputa, di eliminare le frasi
perplesse, i dubbii sulla esattezza, di adoperare una parola piuttosto che
un'altra, di correggere la pronuncia difettosa o impopolare, e di sentire il
profumo della lingua.
Correva perché era in ritardo. Egli aveva promesso alla signora
Annunciata Introzzi di trovarsi nella corte della sua palazzina in via Goito,
alle sette precise. Uscendo dal Casone s'era incontrato con don Paolo, al quale
sottopose un'oscurità linguistica che il dizionario non aveva saputo
diradargli.
— Dica, don Paolo. Si dice tabernacolo o cappella?
Don Paolo, che aveva in mente i suoi infermi d'anima e di corpo, rimase
lì come fulminato. Non s'aspettava un'interrogazione a bruciapelo di quella
fatta. Ma a poco a poco si riebbe e si mandò su per il naso una larga presata
di tabacco, aspirandosela a più riprese col suo sorriso di gran bonaccione.
— Non hai mica intenzione di rubarmi il mestiere, suppongo? Se io
dovessi scrivere per una popolazione religiosa, è certo che mi servirei del
nome tabernacolo, perché odora assai più di venerando e di sacro. Vi si fiutano
la santità e la maestà del Testamento. Ma se dovessi parlare alle turbe e
volessi descrivere una di quelle nicchie lungo gli stradoni e le stradicciuole
della campagna, ove sono dipinte le madonne, gli angeli e le anime del
purgatorio, non esiterei a dare la preferenza a cappella o a cappellina.
— Grazie, don Paolo.
— Di che, figliuolo mio?
La signora Annunciata Introzzi era nervosa. Aveva paura di passare
un'altra notte orribile. Dopo le due non aveva potuto chiudere occhio. I
materassi, quantunque non fossero ancora vecchi di un anno, parevano di legno.
Le indolenzivano il corpo e la facevano voltare da destra a sinistra senza
trovare requie come se avesse avuto l'argento vivo nella pelle. Sui fianchi o
sulla schiena, subiva l'impressione che nella lana vi fossero miriadi di punte
d'ago. Giorgio, che di solito dormiva come un ghiro, s'era dovuto svegliare tre
o quattro volte per domandarle se aveva bisogno di accendere il lume o di
chiamare la cameriera. E lei aveva rinunciato all'uno e all'altra, solo perché
non le piaceva disturbare la gente che riposava. Non potendo dormire aveva
finito per alzarsi. Alle cinque era già in cucina che si faceva il caffè,
pensierosa. Macinava e le venivano in mente i racconti di coloro che patiscono
l'insonnia. Era un male da bestia. Lasciava lì tutta la notte con gli occhi
spalancati nel buio pesto, stracchi morti, con la testa vuota e la lingua
grossa e biancheggiata da una palticina insipida. E alla mattina si usciva dal
letto prostrati, affranti, snervati dalla tensione notturna. Ma lei non poteva
averlo preso in una notte. Sana com'ella era sempre stata, non trovava altra
causa che nei materassi. Coi tempi cambiati non si poteva più fidarsi di
nessuno. Avevano ordinato tutto al tappezziere della casa Berretta, in Santa
Eufemia, senza parlare di economia, raccomandandogli solo il letto, perché col
letto non volevano scherzi. Si sapeva che c'erano imbroglioni che mettevano
nelle federe la lana frusta sulla quale era magari morto qualcuno. Era ansiosa
di sapere l'opinione di Giuliano. Anche lui le aveva detto una sera che non
c'era molto da fidarsi dei tappezzieri che hanno bottega. Chi voleva essere
sicuro doveva andare dal negoziante, farsi pesare la lana sotto gli occhi,
assistere a insaccarla e tener dietro agli uomini che la portano a casa. Da che
era nato il vapore c'era troppo smania di arricchire. Il materassaio che andava
in giro era forse l'unica persona rimasta onesta. Certo di Giuliano non si
poteva dire che bene. Era un giovine serio, pieno di educazione, che si levava
sempre il cappello quando parlava con le signore e che non accettava mai un
centesimo meno di quello che metteva sui suoi conti, perché i suoi conti erano
del lavorante che non abusa. Chi carica i conti per poi contentarsi di ridurli,
deve essere ladro. Il galantuomo dice sette, perché ne vuole e ne vale sette.
Non capiva perché tardasse tanto. Se non fosse stata in vestaglia sarebbe
andata dabbasso per andargli incontro. Alle volte le sventure capitano senza
andarle a cercare. Ma la scampanellata la mise di buon umore. Era lui.
Le relazioni tra Giuliano e Annunciata non erano mai andate oltre
l'amicizia. L'uno e l'altra si vedevano con piacere, senza affettazioni, senza
sottintesi, senza reconditi fini. Pareva che tutti e due si fossero convinti
che l'una dovesse andare per una strada e l'altro per l'altra. Prima dello
sposalizio, se non s'incontravano, si cercavano, ma senz'altro pensiero che di
scambiare quattro chiacchiere alla buona. L'amore entrava di rado nella loro
conversazione. E se c'entrava, ne parlavano da estranei, per dire che si dava
troppa importanza a una funzione naturale. C'erano persone che non avevano
altra preoccupazione se non del loro romanzo. Si inseguivano, si pedinavano, si
sognavano, si aspettavano e si chiudevano l'uno nelle braccia dell'altra, come
compimento della loro giornata di sospiri. A questo mondo ci doveva essere
qualcosa di più importante da fare che ridurre l'amore a un mestiere. Loro
capivano l'unione dei sessi come un'operazione coniugale che si dovesse
consumare per dei bisogni corporali e delle necessità sociali. Perché senza il
contentamento della bestia gli uomini e le donne si sarebbero aggrediti e
accoltellati per le vie e l'umanità sarebbe lentamente scomparsa. Ma non
potevano convenire che la simpatia diventasse passione e che l'amore dovesse
essere la dominante della esistenza. «Ah, si starebbe freschi se si dovesse
tessere eternamente di questa tela!» le diceva sovente Giuliano. La vita vera,
la vita reale, la vita che si vive ogni giorno è fatalmente più piatta di
quella che si svolge nei romanzi dagli ambienti artificiali. Glielo aveva detto
Buondelmonti. Non si passa da una situazione drammatica all'altra, senza
rifarsi delle forze perdute. L'amore che perde il suo carattere di funzione
normale diventa parossismo. È la sbornia dei sensi.
Il disaccordo tra loro era nell'avvenire. Annunciata più che nella
previdenza, credeva nella provvidenza. Lasciar andare le cose come venivano,
voleva dire abbandonarsi alla volontà del Signore. Con la mano di Dio
dappertutto, il domani non le aveva mai fatto paura. Gli uccelletti erano i
suoi testimoni. Volavano senza un pensiero per il loro vitto. Ci voleva un po'
di fede. Con la fede si poteva andare in capo al mondo con le tasche vuote. Se
non fosse stato così ella sarebbe morta cento volte. Cento volte le era
capitato di trovarsi senza i denari per il sapone del fosso. E pure era lì
ancora indipendente, senza debiti, senza obbligazioni con chicchessia, con la
fronte vergine dei baci a pagamento. Gli è che c'è qualcuno che veglia su noi.
Ella lo sentiva, lo aveva sentito sempre. E in questo qualcuno aveva fede più
che in se stessa. Ecco la sua forza.
Giuliano non voleva contrariarla, ma dimenando la testa si diceva
mentalmente che la forza di Annunciata era la forza dell'incosciente che si
mette in balia dei venti. Chi non si protegge o non si difende, perisce. La
società è costituita in un modo che nessuno può essere il fabbricatore del
proprio destino. Chi cessa di lottare, cessa di vivere. Il volere è potere, era
una fiaba dei filosofi. Tutto il Casone era là a dimostrare l'inutilità dello
sforzo personale. C'erano famiglie sobrie, che andavano alla fabbrica un giorno
dopo l'altro, che mangiavano lungo l'anno pane e minestra e minestra e pane con
la volontà di aggiungere un po' di benessere e di ammansare la lotta che li
svigoriva. Ma non erano riuscite che a inasprirla. Perché le loro braccia si
frustavano e valevano meno. Il volere è potere glielo aveva spiegato l'amico
Buondelmonti.
— Sai che cosa vuol dire? Vuol dire di essere più agguerriti degli
altri. Vuol dire di essere più astuti, più avveduti, più adattabili, più
insensibili ai dolori dei vinti. Con un capitale intellettuale o finanziario o
con tutti e due uniti si può forse farsi largo, si può forse tener testa contro
i concorrenti al posto degli arrivati. Ma soli, con la sola forza di lavoro, si
soccombe. Il tuo Dio è impotente. La volontà individuale è impotente. Nella
società moderna non c'è che il numero; non c'è più che il numero grosso dei non
arrivati che possa misurarsi col numero piccolo degli arrivati. Non c'è che
l'aggregazione degli individui che sia capace di contribuire alla elevazione
del proletariato. Ricordatelo.
E ogni giorno Giuliano scaldava il proprio pensiero col pensiero di
Buondelmonti, lavorando e rilavorando l'idea fissa del proprio padre, che era
quella di radunare i lavoratori di uno stesso mestiere sotto la bandiera
dell'operaio che fa da sé. Studiava indefessamente, perché aveva veduto che
senza studio non si poteva iniziare nulla. Le idee potevano essere buone,
giuste e grandiose, ma desse non uscivano dalla persona che le aveva concepite
se non a condizione di saperle sviluppare. Il segreto era nel calamaio.
Bisognava saper mettere il nero sul bianco. Spiegare agli altri quello che si
sentiva, quello che si voleva, quello che si portava nella testa. E spiegarlo
bene. Perché le idee, infagottate nella prosa pesante, subiscono la sorte degli
appestati. Rimangono senza il contatto dei lettori. Le idee della società
futura devono avere un profluvio di lettori. E correndo verso l'Annunciata, il
graticcio gli era diventato di carta. Non se lo sentiva più sulle spalle.
Andava via come portato dalla cooperazione. Vedeva un mestiere che si
inanellava con l'altro fino alla federazione dei mestieri. E la sua anima si
sprigionava dal solito ambiente pitocco ed esulava in una specie di terra
promessa. Egli aveva trovato. La cura per la malattia sociale che incancreniva
il corpo era quella. Era l'associazione, l'associazione delle associazioni, la
confederazione delle associazioni. Era la solidarietà del popolo minuto, il
debole protetto dal forte. Non c'era altro. Lì dentro era la fine della
tribolazione, la fine dei patimenti, la fine delle ingiustizie. Lì dentro erano
il necessario e il superfluo. Ah sì, era tempo di dare un po' di superfluo a
coloro che non avevano mai avuto abbastanza del necessario. Nel superfluo egli
vedeva la gioia di vivere. E Giuliano voleva vivere, voleva che tutti
vivessero, che ciascuno avesse la sua parte di godimento. Lavorare senza
distruggere il piacere della vita, doveva diventare l'ideale di ogni società
fondata sull'uguaglianza economica.
— Non è all'87? — gli domandò il garzone.
Fu come se una mano lo avesse scosso nel cuore del sogno. Si trovò
sorpreso, disorientato.
— Che bestia! Quando si è in ritardo capitano tutte.
L'87 era una palazzina fatta fabbricare da Giorgio, senza vicini, con
l'entrata chiusa, circondata dalla muraglia di un giardino che l'isolava
completamente dagli altri fabbricati. Ci si stava da principi. Pareva la
residenza di un musicista che avesse avuto bisogno di una pace immensa.
L'entrata era di ferro. Si premeva il bottoncino e le due cancellate coperte di
lastre si disgiungevano automaticamente e ammettevano il visitatore in uno
spazio inquadrato dai cancelli pure coperti di ferro. Il custode non apriva che
alle persone che si potevano ricevere. Alle altre diceva che non c'erano in
casa e richiudeva l'usciuolino a catenaccio con garbo, senza ascoltare che cosa
volessero. Egli era un originale che non poteva soffrire i poveri. Li
considerava della melma che lascia le tracce dove passa. E a lui piaceva la
casa pulita. Bastava dare una capatina nella sua abitazione a fianco del
cancello, completamente staccata dall'edificio signorile. I cristalli
fiammeggiavano, il pavimento di marmo faceva sdrucciolare chi non era abituato
a camminare sul levigato e dappertutto, dabbasso, in cucina, nel salotto, a
pianterreno, nelle stanze di sopra si sentiva che si era in casa di un uomo che
aveva per religione la pulizia. Dinanzi i padroni si piegava in due per un
rispetto cresciuto con lui. Con loro non capiva che l'ubbidienza cieca. Ma
esigeva lo stesso dagli inferiori. La scala sociale non l'aveva fatta lui. Se
era andato più in alto di qualcuno, la colpa non era mica sua. Quando le donne
di casa mettevano in dubbio la sua importanza, chiudeva loro la bocca dicendo
ch'egli era l'occhio della casa. Era lui che doveva saper tutto, veder tutto,
tener calcolo di tutto. La responsabilità di ogni cosa era sulle sue spalle.
Prima del matrimonio vedeva l'entrata di Annunciata come il mastino
l'intruso. Con la testa bassa, con gli occhi che spiavano, col rancore nei
brontolii sordi che avrebbero voluto esplodere. Dopo il contratto nuziale
accettò il fatto compiuto. Non c'era alcuno più devoto di lui. La riveriva
coll'inchino corretto e aveva abituato la servitù a chiamarla donna Annunciata.
Non permetteva il frizzo. Chi alludeva al passaggio della padrona dal Casone
alla palazzina, arrischiava di essere denunciato. Le sue orecchie non volevano
partecipare alla maldicenza. Coloro che avevano qualcosa da dire potevano
andarsene. La porta era libera. Giuliano era diventato il suo miglior amico,
appunto perché non l'aveva mai udito, neppure lontanamente, alludere al passato
della signora. Se giungeva quand'ella era in giardino aveva gusto di vederlo
andare verso la padrona col cappello in mano e con la curva del gentiluomo. E
se l'udiva parlare di lei provava un vero compiacimento. Perché Giuliano diceva
bene, sempre bene di lei, senza dimenticare mai di aggiungere il «donna», come
aggettivo illustrativo.
Fisicamente Gustavo era proprio il custode della casa di lusso. Faceva
piacere a vederlo coi capelli spartiti con precisione da una leggiera
incavatura bianca che gli andava giù fino in fondo alla parete posteriore e coi
tiracuori altezzosi accarezzati e mantecati alle fosse temporali. La sua faccia
era quella dell'uomo contento. Una faccia piena, carnosa, lucida, colorita alle
sporgenze, senza baffi, con gli occhioni bonarii, con le basette nere, monde,
regolate dalla forbice, con le labbra turgide, coi denti puliti come l'avorio,
colla pozzetta al mento che perdeva il benessere.
— Come stai, Giuliano? Sai che ti fai aspettare? Donna Annunciata ha
mandato qui tre volte a domandare di te. Corri, che io ti preparo un puncino
coi fiocchi.
— Grazie.
Annunciata era nel suo gabinetto di toeletta con la cameriera che le
sfaceva i papillons della notte.
— Fallo entrare, Cristina.
Indossava una vestaglia rosa chiara, col risvolto sul petto di pizzo
crudo, con le maniche larghe ornate dello stesso pizzo all'avambraccio e con i
grandi bottoni di madreperla che le andavano fino ai piedi. Si buttò un po' di
polvere di riso sulle guance per nascondere il pallore della notte inquieta e
si strappò gli ultimi due papillons per non fargli vedere i segreti delle
donne.
— Bravo, ha fatto bene a venire, Giuliano, perché avevo proprio bisogno
di consigliarmi.
E gli narrò la sua notte spasmodica. Pareva sulla brace. Si voltava
senza trovare requie. Spesso le pareva di essere punta, succhiata, trafitta.
Forse erano le zanzare. Ma le zanzare non potevano andare nella lana senza
farsi schiacciare. E poi il loro letto aveva la zanzariera. Era una molestia
che la teneva con gli occhi aperti. Il suo dubbio era tutto nella lana. Da che
mondo è mondo ella aveva sempre sentito dire che i materassi andavano fatti in
casa. Le vecchie ne sapevano più delle giovani. Il tappezziere di casa Berretta
poteva essere benissimo un galantuomo, ma poteva anche essere un fior di
birbone. Sul conto dei tappezzieri ne sapeva di cotte e di crude. Erano fatti a
posta per far denari sulla pelle degli altri. Non era un anno che aveva udito,
con le sue orecchie, che marito e moglie erano morti di una malattia contagiosa
presa dormendo sulla lana di un defunto. Quando si è in fin di vita non si sa
mai di che male si muore e la lana dopo, anche se purgata e ripurgata, rimane
pericolosa. Giorgio si era già alzato e lui poteva andare nella loro stanza
senza riguardi a prendere i materassi e i cuscini. Giù dabbasso, al chiaro,
avrebbe potuto indovinare di che si trattasse. Così, già, erano divenuti
impossibili. Ella non voleva mica passare un'altra notte infernale. Piuttosto
sarebbe andata a dormire sul tavolo lungo e largo in cucina. E vedendo che
rimaneva incantato, cogli occhi fissi nella grande lastra che li rifletteva tutti
e due al naturale, gli disse:
— Vada, dunque!
Giuliano era troppo occupato per badare alla donna. Ma vedendola nel
costume mattinale che aderiva con tanta grazia alle forme perfette, provava una
perturbazione indefinita. L'odore della carne viva e giovine gli passava nel
cervello come un fluido tepido che gli desse una sensazione piacevole. Fu il «dunque»
che lo distolse dall'intontimento.
— Vado, signora!
E se ne andò verso la stanza matrimoniale, sorpreso di quel fiat in cui
gli parve di essere stato sommerso nell'odore di lei. Che cosa era avvenuto?
Non se lo sapeva spiegare. Egli era in piedi, con gli occhi perduti sulla
immagine riflessa, con un vago desiderio che gli andava fino alla testa. Se ne
vergognava come di un pensiero abbominevole. Il tradimento lo rivoltava. Il
matrimonio poteva essere quello che si diceva. Ma l'adulterio è dei criminali
che nascondono la loro libidine nei pretesti. È la forma più vile dell'inganno.
È il veleno versato nella tazza di chi ascolta le parole dolci d'amore. Non gli
entrava il tranello. Tradire un uomo o una donna col quale o con la quale si
passano le notti e i giorni e si dividono le gioie e i dolori della vita gli
pareva un delitto. E nell'impeto delle parole oneste si caricava sulle spalle
il materasso e discendeva per le scale, tenendoselo con tutte e due le mani,
felice di aver trionfato sulla turpitudine.
Scucito il materasso, non gli fu difficile di trovare la ragione
dell'inquietudine di Annunciata. La mano della speculazione aveva appesantito
la lana con la polvere e col capecchio. Bastava metterla sottosopra per vedere
nel sole il polverone che faceva tossire e tirar su i polmoni. Con dei clienti
che pagano i conti a occhi chiusi, si poteva essere meno ladri. Così il suo
progetto di accomunare gli interessi dei lavoranti gli si rivelava sotto un
aspetto al quale non aveva pensato prima. La cooperazione di tutte le braccia
avrebbe frenato non solo l'ingordigia del padrone, ma avrebbe corretta o
moralizzata la vita industriale. Il commercio e l'industria, allargando la loro
base di operazione, perdono l'avidità individuale e diventano, si può dire, più
umani. E mentre faceva trepidare la lana sul graticcio e volare per l'aria i
fiocchi che le sue bacchette buttavano in alto, vedeva, nel nuovo sistema di
produzione, scomparire lentamente la povertà e l'ignoranza delle classi
lavoratrici e aumentare il benessere nazionale. Il guadagno non poteva essere
dubbio. C'erano migliaia di persone che vivevano mollemente nel lusso per il
solo fatto di avere impiegato un capitale in un'azienda commerciale o
industriale. Gli esempi delle fortune venute su a vista d'occhi rigurgitavano
in ogni angolo cittadino. Non si poteva passare da un quartiere senza trovare a
ogni passo un padrone di se stesso divenuto rapidamente padrone degli altri. In
pochi anni i padroni di se stessi che andavano per le vie col carretto o con la
corba della propria produzione non uscivano più che in carrozza. Il tugurio era
diventato un palazzo signorile. Dalla vitaccia del padrone in lite col marengo
era venuta fuori una ricchezza sfondolata. Come si spiegava la sproporzione tra
chi aveva lavorato e chi aveva fatto lavorare? In un modo semplice. Il capitale
aveva fatto da sé. Non si era associato, non aveva diviso, aveva imperato.
Sotto la sua dominazione di ferro, il valore delle braccia era rimasto al puro
costo del vitto. Come rimediarvi? E le bacchette che fremevano sul graticcio
traducevano la letizia del suo pensiero d'avere finalmente trovato il bandolo
della matassa ingarbugliata tra lavoro e capitale. Il rimedio era nella
cooperazione. Non c'era difficoltà. Lui stesso avrebbe potuto organizzarla con
la sola adesione degli interessati. E la sua mente si perdeva nei particolari.
In Milano c'erano, a dir poco, seimila fra tappezzieri, fabbricatori di mobili
e materassai. Ogni operaio di questi mestieri affini si associava e si
obbligava a pagare una lira la settimana, per tre anni. Era un sagrificio
enorme, lo sapeva. Ma bisognava farlo se si voleva abbandonare l'abitazione
malsana, nauseabonda, pestilenziale. Moltiplicando le seimila lire per il
numero delle settimane, si raccoglievano, in un anno, trecentodiciottomila
lire. In tre anni, cogli interessi e gli interessi degli interessi, i
cooperatori sarebbero stati padroni di un milione. Un milione! C'erano dei
padroni milionarii che avevano incominciato con qualche centinaio di lire e con
del semplice credito. Con un milione versato, il credito non si sarebbe fatto
chiamare due volte. Si sarebbe anzi presentato col cappello in mano. Il milione
poteva duplicarsi, triplicarsi, quadruplicarsi a piacere. E battendo la lana
col cic ciac frenetico che lo surreccitava, gli pareva di vedersi fuori
dell'utopia. Sì, sì, egli avrebbe vinto. Coi padroni senza operai, il capitale
poteva andare a dormire. Poi, con un'altra sfuriata che portava in alto la lana
divenuta leggera e candida, vide l'errore grossolano del suo progetto.
Senz'accorgersene, stava edificando sul terreno borghese. Il credito non poteva
venire che dalla borghesia. Il che voleva dire che il capitale cacciato dalla
porta rientrava dalla finestra. Ah, no! Bisognava riflettere, studiare bene
questo nemico che aveva dato le vertigini a tante generazioni per tanti secoli!
Non c'era fretta. Non ci voleva tanto a precipitare la cooperazione dove l'avevano
precipitata tanti altri. La cooperazione, per essere tale, deve essere del
lavoro, tutta del lavoro, di nessun altro che del lavoro. Se la quota non
basta, bisogna vedere di raddoppiarla a ogni costo. Ma è necessario evitare di
cadere in bocca al lupo.
Da un pezzo il custode vociava che il puncino andava raffreddandosi.
Valeva proprio la pena di scomodarsi per un uomo che lasciava parlare come i
matti. Giuliano non udiva. Ruminava la rigenerazione umana. Il suo progetto lo
assorbiva completamente. Avrebbe voluto che ci fosse stato Buondelmonti a farlo
passare fra gli scogli che gli si drizzavano in piedi minacciosi. Dove i
cooperatori andrebbero a prendere il materiale di lavorazione? La sua mente non
trovava uscita. La società era il lavoro di tanti secoli. Non la si poteva
capovolgere in un giorno. Non si poteva fare che un passo alla volta. Era
doloroso, ma era così. L'importante, per loro, era di comperare tutto a
contanti e tutto di prima mano. Il legname alla segheria, le stoffe alla
fabbrica, la lana sul dorso del gregge o nelle capanne dei tosatori. Aprire dei
grandi magazzini, migliorare la mano d'opera, elevare la morale commerciale col
rispetto al contratto, dare a ciascuno il suo, all'operaio una mercede che
inchiuda il superfluo e al compratore del lavoro che non senta della
speculazione.
— Se non vieni a bere il punch te lo porto qui e te lo butto in faccia,
parola d'onore! Non è così che si fa con chi ti usa delle gentilezze. Ci ho
messo i cinque sentimenti e poi me lo lasci lì come una bevanda da lavandino.
Vieni via, andiamo, ti dico che è buono e che ti farà bene. Ce n'è anche per il
garzone. So bene che il padrone non ti chiama filantropo per nulla. I tuoi
principii non ti permetterebbero di berlo da solo. Anch'io ho contratto un po'
del tuo vizio. È un vizio cardiaco. Ma è meglio avere del cuore che essere come
il mio padrone di una volta. È morto anche lui, sai? Con tutte le sue ricchezze
ha lasciato qui tutto, anche quello che mi avrebbe dovuto con una mesata
decente. È crepato. Dio lo abbia in gloria. Era un accidentaccio che avrebbe
fatto denari sui pidocchi. Alla servitù misurava i bocconi di pane, figurati
poi il vino!
— E perché non te ne sei andato?
— Ingenuo! Fai il filantropo e non capisci che bisogna mandare giù dei
bocconi amari, molto amari, sotto gli altri. Tu non sei mai stato a servire
nelle case. Provati e vedrai che ci vuole dello stomaco. Non parlo di questa.
Sarei una canaglia se dicessi male del signor Giorgio e di donna Annunciata.
Ah, se i domestici fossero degli scrittori! Mio caro, c'è tanta biancheria
sporca in casa dei signori, da spaventare anche gente come noi, che ne ha
vedute di tutte le razze. Bocca, taci! La depravazione dell'ambiente signorile
è tale da imbiancarti i capelli in una notte. Se tu sapessi! Non vi trovi che
l'intrigo e la menzogna. La moglie ha la maschera, il marito ha la maschera e i
figli e le figlie, se sono grandi, sono più libertini del padre e della madre.
Le frasi insaldate e i modi gentili sono per gli estranei, che devono andar via
con l'idea che il santuario domestico sia una grande istituzione. Per noi
domestici c'è il linguaggio brutale. C'è la verità vera che distrugge tutte le
illusioni. Boccaccia, taci! Se tu trovi una cameriera che sia andata via da una
casa come vi è entrata, ti regalo la mia pensione di due lire al giorno. Quando
non c'è il padrone o il padroncino, c'è il servitore. Sì, ho una pensione. Ma
me la sono guadagnata. Ho servito una signora che mi ha fatto fare di tutto.
Non mi piace dir male dei morti. Ma, a nominarla come viva, era una porca, una
porcona. Ricca come era, non aveva vergogna di farmi alzare di notte a tutte le
ore per andare in cerca del suo uomo, il quale era sempre l'uomo del momento.
Perché cambiava spesso. Ogni due o tre mesi si vedeva alla sua tavola una
faccia nuova. Mi dava carta bianca. Questo è vero. Potevo spendere quello che
volevo. E anche di questo non la ringrazio. Avrei voluto vedere che mi avesse
lesinato i denari! Dovevo prendere una carrozza, correre per i caffè che l'individuo
del momento frequentava o per i suoi ritrovi o andare a casa sua a dirgli che
la signora stava male e aveva bisogno assoluto di vederlo subito, subito. Oh
che porca! a nominarla come viva. Senti se non mi sono guadagnata la pensione.
Una volta mi è toccato di farne alzare uno che era a letto con un'altra. Quando
aveva dei capricci, si contentava anche degli avanzi. Se rincasavo senza il
maschio che si era ficcata nella testa, era capace di darmi degli schiaffi. Nei
momenti di furore non era più una signora. Era una donna tormentata dallo
spasimo. Mi veniva sulla faccia con parole da far arrossire una prostituta.
Vedo la tua smorfia. Ti meravigli che io abbia fatto il ruffiano. Io mi
meraviglio di te. Dammi il nome del servitore o della cameriera che non lo
abbia fatto. Non si può far diversamente che cambiando professione. Sono tutti
impastati di una pasta. C'è chi sa salvare le apparenze più di un altro. Ma la
cloaca rimane tale e quale. Bocca taci, taci! Se tu vuoi conoscere i vizii
delle case senza miseria, parla con noi, che ti possiamo narrare gli orrori
delle famiglie dorate. Gli stessi padroni ignorano il fango delle loro
residenze. Prima perché l'uomo spesso non sa quello che fa la donna, poi perché
la passione turbolenta che li agita impedisce loro di vedere fin dove sono
discesi. Salvo poche eccezioni, non è che l'abito che li distingue dalla folla.
Il loro linguaggio, quando non è banale, è violento come quello della
fruttivendola, come quello del facchino. Mi ricordo dei terzultimi miei padroni.
Marito e moglie erano sempre sotto. Lui dava della puttanaccia a lei, e lei
dava del mantenuto a lui, magari alla presenza del servidorame vile. Nelle
giornate della furia si buttavano alla testa quello che loro capitava nelle
mani. A tavola soli non finivano mai il pranzo senza avvelenarselo con degli
insulti atroci. Farabutto! Carogna! Prostituta! Lenone! Noi di casa? Non
dicevamo niente. Le loro sudicerie avevano finito per non interessarci più.
Sapevamo che l'uno valeva l'altra. Il marito andava con delle donne, la moglie
con degli uomini. Non fare l'incredulo. Ti dico che la moglie l'ho vista io
parecchie volte, attraverso il buco della serratura, adagiata sull'uomo o in
braccio all'uomo o sotto l'uomo. Tu sei occupato ed io ho qualcosa da fare. Ma
se vieni a trovarmi di sera ne parleremo ancora. Fammi una visita quando i
signori sono a spasso o al mare o in campagna. T'invito a pranzo. Qui è come la
mia reggia. Posso dire di essere in casa mia. Non c'è che donna Annunciata che
venga a darci un'occhiata per puro capriccio. Le piace di vedere questo luogo
che non sente di femmina. Non temere, amico mio, che le donne non hanno presa
alcuna su me. La è finita. Guarda se non ho i capelli brizzolati. E chi nega
che non ci siano delle eccezioni? Anzi ci devono essere. Ma nel tuo ambiente,
caro. Mi hanno detto che i poveri sono più virtuosi. E lo credo. L'immoralità è
un lusso. Bisogna avere del tempo e del denaro per essere immorali. Io ho
sempre vissuto coi ricchi. A dodici anni ero groom della casa Vittone e me ne
andai a diciassette che non avevo più nulla da imparare. Donna Elena mi ha
licenziato professore. Ti dicevo che negli ambienti ricchi c'è tempo e denaro.
Sentimi bene. Ti parlo come se fossi moribondo. La donna che ho conosciuto io
attraverso le mie padrone è bugiarda, è corrotta, è triviale. Non è mai
sincera. Mai! Mai! Mai! Se fossi giovane, con tante disillusioni, me ne
dispererei. Non mi piace l'agguato. La donna che ti bacia o ti abbraccia
pensando all'altro. Siamo veri con noi stessi. Tu sei un uomo. Sì, c'è una
donna che non mentisce. Ma non è nel mio, e neanche, forse, nel tuo ambiente.
Vive altrove. Vuoi sapere chi sia? Te lo dico sottovoce. È la donna che si
vende, la donna prezzolata, la donna del bordello. Ti sembro esagerato, lo so bene.
La verità è sempre esagerata per qualcuno. La donna, attraverso le mie padrone,
non può esser migliorata che colla fantasia. Mi si dia pure del pazzo. Ma io
nego a chiunque di parlare della virtù delle nostre signore, senz'essere stato
domestico. Indossate, o signori increduli, la nostra livrea, passate degli anni
sotto il tetto dell'abbondanza e poi venite a darmi del maiale, se potete. Va,
va pure. Ne parleremo un altro momento con più comodo.
E il custode non si dava pace neppure dopo che Giuliano si era rimesso
al lavoro. Continuava a parlare tra sé e a dire che, dopo tutto, non aveva
torto neppure il materassaio. Certe cose non si potevano credere che vedendole.
Il nostro senso si rivolta dinanzi certi quadri. Non voleva ricordarsi di donna
Elena, la moglie di Massimo Vittone, perché era morta. Ma avrebbe voluto vedere
Giuliano in casa del marchese Stangoni, padre di Elena, quando c'era lui a
diciotto anni. Tutta la casa era un vaccaio. Donna Elena, della quale era stato
il confidente e il portalettere, non era che una volgare adultera. La madre
aveva i vizii più raffinati. La donna dei suoi trasporti era una paesanotta di
ventidue anni, in casa a fare i mestieri di grosso. La marchesa, sdraiata nuda
sul tappeto, come il giorno che era nata, si faceva insultare come la più
svergognata delle donne della strada. Nessuno, vedendola, poteva supporre
ch'ella discendesse negli abissi della intemperanza carnale. Perché c'era in
lei il chic della matrona. Rideva senza affettazione, senza mai rivelare
neppure la punta della sua lascivia. Il marchese aveva più di cinquant'anni, e
non si fidava che del suo cameriere privato, ora in pensione con tre lire al
giorno. Ah, se volesse parlare Frustavino! Il mondo, a un certo momento,
sarebbe obbligato a tapparsi le orecchie. Una sera che era brillo, e che era
appena tornato da Parigi, ove andava sovente col padrone, gliene raccontò una
che era più ridicola che sconcia. Il padrone andava a Parigi a scaricarsi della
impurità una volta al mese. Partiva il ventisette ed era di ritorno al trentuno
o al primo. Non vi si fermava che una notte o due. A Parigi alloggiava in casa
di una di quelle alte mezzane che vivono benone sulla depravazione dei gusti.
Era la sola cosa che spiaceva a Frustavino. Gli rincresceva di mangiare e di
dormire in una casa del carnimonio. Il marchese non aveva però la stessa
ripugnanza. Tutte le volte che vi arrivava, la megera gli procurava una ragazza
ch'ella diceva vergine come una madonna. Gli uomini maturi bevono tutto quello
che si dice loro delle donne. Frustavino non era così facile, non credeva una
parola di quello che diceva la ruffiana. Le ragazze che aveva veduto gli
avevano sempre fatto l'impressione che non fossero delle intruse ai mercati
notturni. Sulla verginità delle ragazze era inutile insistere. L'importante era
tutto nella storia di Frustavino.
— Sai — gli disse Frustavino prendendolo sotto il braccio — che non mi
meraviglierei se il nostro padrone diventasse pazzo?
— Ha certi occhi!
— Se tu glieli vedessi durante la baldoria! Gli diventano di un'oscenità
spaventevole. L'ultima volta... Promettimi il segreto. Sono confidenze che non
si fanno che agli amici. Sai perché ho paura che impazzisca? Gli è venuto il
ticchio di fare la bestia.
— Non ti capisco.
— Lo so bene. Per capire certe cose bisogna vederle. Il padrone si
sveste e fa la bestia. Va intorno per la stanza camminando coi piedi e colle
mani. Fa dei versi che ora terrorizzano e ora fanno smascellare dalle risa.
Qualche volta sembrano latrati di un cane legato alla catena, o versacci sordi
della iena che inferocisce sulla vittima che divora. Io stavo per entrare,
sfondando la porta. Credevo che lo si ammazzasse. La vecchia mi trattenne
dicendomi ch'ella vi era abituata. Da un pezzo i vecchi si eccitano in quel
modo. Ritornai alla toppa un po' più quieto. Il padrone ruggiva. Non aveva più
nulla di umano. Sudava, si disperava voltato sulla schiena, agitando le gambe e
le mani come un disgraziato sul braciere.
— Ma perché faceva tutte queste smanie?
— Puoi bene immaginartelo!
— Era egli solo?
— Era con lui...
— Basta.
— E non potrei dirti altro. Mi si sono chiusi gli occhi. Non ho voluto
più vedere per non impazzire io stesso.
Annunciata discese a salutare Giuliano. Avrebbe voluto tenerlo a
colazione, ma c'era Giorgio che stava poco bene. Quel suo stomaco di carta dava
da fare a tutti come non si poteva immaginare. Era l'oppressione della casa.
Perché l'inappetenza lo rendeva malinconico e taciturno. Ah, se avesse potuto
dargli un po' del suo appetito! La cuoca non sapeva più cosa inventare. Le
zucchette coll'arrosto che si danno ai moribondi gli pesavano come del piombo.
I medici ridevano se essa parlava di paure, ma lei non poteva a meno di esserne
impensierita. Se era permesso fare un paragone con un suo vecchio orologio che
non sapeva più dove era andato a finire, doveva confessare che il povero
Giorgio stava più male di quello che si sospettava. L'orologio che aveva fatto
aggiustare centinaia di volte, le era venuto a costare più che nuovo. Aveva un
bel dirle l'orologiaio che si trattava di un remontoir che valeva il suo
prezzo. Il castello si fermava per delle inezie. O perché non lo aveva caricato
alla stessa ora, o perché l'aveva deposto sul comò invece di appenderlo... Oh
che orologio! Lo stomaco di Giorgio era sempre nelle mani dei dottori, ma come
l'orologio... Era una pena. Ah, se avesse potuto dargli un
po' del suo appetito! Lo avrebbe veduto più gaio, più ilare, più forte. Anche
quando l'abbracciava ella sentiva tutta la mollezza dell'uomo fiacco, dell'uomo
infiacchito da uno stomaco che non voleva digerire.
Giuliano aveva giurato che non sarebbe caduto vittima della carne.
Voleva unicamente il godimento artistico, l'estasi cerebrale, la voluttà che si
consuma nella contemplazione di una bella statua. Ma la voce di Annunciata, che
aveva udita tante volte come tante altre voci, ora lo commuoveva fin in fondo
alle viscere. Gli andava per i tessuti calda, carezzosa, morbida. Se la sentiva
ormai sui nervi come una titillatura che si scioglieva nella gola in un'ondata
di dolcezza. Egli l'ascoltava come sotto il fascino di una armonia. Le parole
di Annunciata non avevano per lui il significato dei pensieri che
rappresentavano. Ma un doppio senso, un senso intimo, il senso di un'anima che
si rivela a un'altra anima. Il disastro dello stomaco di Giorgio gli diventava
un dramma. Racchiudeva il dramma delle sofferenze infinite, il martirio della
moglie che ha il marito senza avere l'uomo. E la donna, ch'egli vedeva nel sole
vermiglio, ravvolta nella seta rosa e floscia che lascia supporre tutta la
bellezza delle forme senza disegnarle, gli si elevava come una donna che
piange, come una donna infelice, come una giovine naufragata in uno stomaco
disfatto. Nei materassi c'era la polvere, c'era la materia liscosa della
speculazione, ma la sua inquietudine era altrove. Le mancava l'esplosione degli
affetti che infutura l'esistenza in un'altra esistenza. Non aveva la vita, le
mancava la vita, voleva la vita!
E con la passione che gli si era scatenata con tanta furia, avrebbe
voluto dirle ch'egli aveva capito, intuito, sognato.
— Sì, sì, tu hai ragione, o povera donna. Tu languivi ed io ti lasciavo
languire. Non piangere. Eccomi tuo, eccoti la mia bocca. Bacia, ribacia,
dissetati. La mia gioventù è tutta tua. Suggi. Ancora, ancora, ancora! Tu non
devi soffrire, non voglio che tu soffra. Nelle notti il mio seno sarà il tuo
capezzale. Abbracciami, abbraccia l'uomo che vuol farti sua per sempre. Tu
sarai la mia vedova. Il tuo marito non sarà più che uno stomaco per le
medicine.
Annunciata gl'interruppe il dramma, pregandolo di salutare la mamma e le
ragazze.
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