I ciechi dovrebbero morire. Fanno paura. Danno a quello
che dicono un senso profetico e assumono il fare degli antiveggenti. Ogni
domenica che vado da Bernardino a prendere l'affitto, mi vengono i brividi. Non
appena sente i miei passi tutto il suo essere diventa sensibilissimo. Protende
il collo, drizza le orecchie e alza le mani come se temesse qualche sventura.
L'impressione del suo viso pare quella di un uomo che vada giù a leggermi nel
cuore. E quando ode la mia voce che gli dà il buon giorno, le sue larghe
occhiaie con in fondo la gelatina schiacciata e lucida si atteggiano a una
immobilità tragica e mi rimangono addosso, come se volesse sprofondarmi o
inghiottirmi.
— Siete voi, Giuliano — mi risponde con una voce di rimprovero. —
Felicita, pagagli l'affitto!
Mentre la moglie va a cercare i danari, io deploro che non ci sia una
legge che sopprima tutti questi errori della vita dalla vita. Portateceli via!
perché ci impietosiscono e ci disgustano. Portateceli via! perché ci ricordano
l'infelicità dell'esistenza e il cuore sociale! Oh, come siete teneri! Guardate
qui, in questa stanza. Preferite fargli mendicare il pane nella strada, con la
mano tesa, piuttosto che dargli un asilo che non sia un reclusorio, che non lo
mantenga come un pezzente, che non lo costringa a invocare la morte come un
beneficio. E non spendereste di più, sapete. Perché, ricoverati o non
ricoverati, la comunità non può evitare di nutrire i ciechi. Isoliamoli, dando
loro tutta l'agiatezza del ricco.
Annita Tampini mi ha fatto piangere. Non ho voluto l'affitto. È la donna
più pitocca del Casone. È venuta su senza un vero mestiere. Tutta la sua
gioventù è stata spesa a lavare bottiglie d'estate dal birraio Darma, fuori di
porta Magenta, e a cucire sacchi d'inverno, negli studii dei piccoli negozianti
di seta del Broletto. Non ha mai superata la giornata di una lira e non è mai
discesa fino a quella di trenta centesimi. Il marito, un sellaio, prese l'uscio
dopo averla ingravidita una seconda volta. Sola, povera, con un bimbo nella
culla e uno nel ventre, non si dolse e non domandò mai nulla a nessuno. Venuta
la maturanza, andò, come la prima volta, a sgravarsi nella pia Casa delle
partorienti di Santa Caterina alla ruota, e ne uscì portandosi via il suo fanciullo
e allattandoselo essa stessa. Profuse il suo amore ora sull'uno, ora
sull'altro, adorandoli tutti e due, senza mai ricordarsi del padre e mandandolo
via con una frase sdegnosa il giorno in cui tentò di rientrarle nelle grazie.
— Vattene dove sei stato fino adesso!
I fanciulli curati, allattati, tirati grandi a carezze e a dolci, quando
poteva comperarne, divennero i suoi idoli. Lavorava come una bestia da soma per
non lasciarli patire. Di notte si vedeva illuminato il suo finestrino e si
pensava alla madre buona che si era consacrata al bene dei figli come poche
donne. A casa faceva le mutande che le dava un'altra vicina che lavorava per
una ditta d'abiti fatti. La vicina che andava a prenderli e a riportarli si
contentava d'un centesimo di guadagno. E Annita riusciva a cucirne dodici paia
in due notti e a guadagnare cento e otto centesimi in dodici ore consumate al
lume della lucerna. Alla mattina preparava tutto per i ragazzi che ella mandava
a scuola, e poi correva alla fabbrica, raccomandando alla vicina di vedere che
il suo Attilio e il suo Romeo non mancassero di qualche cosa. A sera rincasava
e se li godeva a vederseli d'intorno coi loro libri di lettura ch'essa non
poteva capire. L'uno e l'altro crescevano sani, bellocci, forti come torelli.
Mise Attilio, il maggiore che amava sopra ogni cosa il disegno, a fare il
meccanico, convinta che sarebbe divenuto uno dei primi operai, e Romeo a fare
il tessitore, perché aveva una speciale predilezione per i lavori del telaio. I
figli ricambiavano l'affezione materna con lo stesso affetto. Uscivano dagli
stabilimenti e correvano a casa a baciare la mamma, come fanno i figli dei
signori. Il giorno in cui Romeo e Annita dovettero staccarsi da Attilio, fu un
giorno triste, inconsolabile. Singhiozzavano, piangevano e si disperavano con
dei bacioni lacrimoni, degli abbracci stretti stretti, delle promesse infinite
di non dimenticarsi, di continuare a volersi bene e di scriversi sempre,
sempre!
— Addio, mamma! Addio, Romeo!
La madre, che aveva preveduto il giorno fatale della coscrizione, aveva
nascosto nella calza tutto quello che i bisogni quotidiani le avevano lasciato
risparmiare.
— Non patire, figlio mio — gli disse con la gola piena di pianto. — Io e
Romeo te ne manderemo degli altri.
— Addio! Addio!
Non si videro più. Il ragazzo fu tra i soldati che rimasero feriti dalle
poche palle papaline che volevano impedire l'entrata degli italiani in Roma.
All'indomani della breccia di Porta Pia venne divorato da una febbre che gli
faceva sussultare una mascella sull'altra con una violenza che annunciava la
catastrofe.
I suoi di casa seppero otto giorni dopo che il povero figliuolo era
morto all'ospedale.
Romeo divenne taciturno. La madre, che non poteva vivere senza la sua
affezione, era obbligata a sgridarlo per farlo smettere di piangere.
— Farai morire anche me di crepacuore, e tutto sarà finito!
Ma il fratello dimagrava, scoloriva, diventava terreo. Qualche mese dopo
tossiva come se i suoi polmoni fossero stati scavati dai bacilli esecrati che sfioriscono
tante bellezze e portano via dal Casone tante speranze.
La mattina che lo portarono al camposanto la povera donna pareva
impazzita. Non è stata più lei. Non ricuperò più la ragione. Non può più vedere
un soldato. Basta un tamburo o una tromba militare per darle i tremiti o per
vederla scappare per il blocco della casa come se avesse paura che venissero
un'altra volta a prendere il suo Attilio.
È diventata cupa, malinconica, lavora a sbalzi, è indifferente al bene e
al male e non sa più concepire che un pensiero: «Hanno ammazzato il mio
figliuolo!»
E quando don Paolo la rimprovera di non andare più in chiesa, essa si
asciuga gli occhi con la cocca del grembiule, e gli risponde commossa:
— Iddio deve essere molto ingiusto se può punire così terribilmente una
povera madre che non aveva mai cessato di pregarlo in ginocchio!
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