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Paolo Valera
La folla

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È un pezzo che non prendo la penna in mano. Il colera non me ne ha dato tempo. Che giornate! Sudo a pensarci. Ci sono state notti senza riposo. Sembrava il finimondo. Dappertutto si aveva bisogno di noi. Parlo di donna Annunciata, di Buondelmonti e di me. Abbiamo fatto il nostro dovere senza chiasso, gareggiando l'un l'altro a nostra insaputa. La fortuna dei nostri ammalati è stata di avere il Buondelmonti, il quale pareva una illustrazione medica stata in India a studiare il morbo. Conosceva tutto, indovinava tutto, ordinava tutto. I due medici mandati dalle autorità sanitarie facevano anch'essi il loro dovere, ma da salariati. Il denaro rende burocratici. Si può dire che venivano a constatare gli insuccessi. Buondelmonti dava loro la relazione di quel che era avvenuto e se ne andavano salutandoci. E noi ci rimettevamo al lavoro senza paura e senza pensare che avremmo potuto rimanere tra le vittime. La spensieratezza era la nostra poesia. Annunciata ha illustrato la donna che dedica se stessa alle sventure sociali con esempi di abnegazione che ci rivelarono il tesoro degli affetti umanitarii del suo cuore. Non sentiva che la religione dell'altruismo. Andava da una stanza all'altra, vestita di cotone rigato, col grembiale che le girava sui fianchi gagliardi, con la scopa e coll'inaffiatoio di acqua fenicata. Scopava, lavava, disinfettava, cambiava la biancheria sporca, mettendovi della sua pulita, distribuiva bicchierini di cognac Martello ai sani per mantenere alto lo spirito degli inquilini, impediva che mangiassero le zucche, i poponi, i melloni e tutti i legumi che potessero disturbare il ventre, abituava le donne a bere il thè olandese caldo senza zucchero, con delle semplici gocce di cognac eccellente o di laudano, se la bevitrice aveva dei dolori ventrali o delle diaree prodromali.

Nel Casone non si è mai mangiato così bene. Ogni mattina giungeva il carro del macellaio con due chilogrammi di carne per ogni famiglia, vale a dire per ogni stanza. L'individuo solo metteva i suoi due chilogrammi nella caldaia comune appesa al bastone di ferro col braccio a uncino che avevano piantato in un angolo pulito del cortilone. Ella passava e raccomandava di tenersi caldi, di mangiare senza ingordigia e cose leggere, di avvertirla se mancavano di qualche cosa e di andare da lei se si sentivano la testa pesante, la lingua asciutta, dell'oppressione allo stomaco, della rigidezza nelle gambe, degli impeti di vomito o qualche movimento che potesse lasciar credere a una colica.

Era instancabile. L'abbiamo veduta in ginocchio, con le maniche rimboccate a lavare il suolo con secchi d'acqua che contenevano tanto acido fenico da ammazzare tutti i miceti che i colerosi avessero potuto perdere. Si fermava al letto dei colerosi senza ricordarsi del pericolo, strofinava la pelle dei sofferenti con degli irritanti o del cloroformio e assisteva alle scariche diarroiche senza impallidire. Guai a dirle di andare via. Pestava i piedi e andava in furia. Perché non voleva che le si spaventassero gli ammalati e perché diceva che la paura era il morbo nero del colera sporadico.

Signor Buondelmonti, mi protegga. Non è vero ch'ella mi ha dato l'incarico di tranquillare il Casone e far credere agli inquilini che non si tratta che di una malattia comune?

Faceva anche quello che le infermiere fanno con disgusto. Prendeva in mano il pitale delle deiezioni, le inondava di acido fenico, le faceva vuotare dabbasso nella buca inaffiata della stessa soluzione acquosa e aiutava l'infermo a raccomandarsi nel letto, coprendolo bene e facendogli trangugiare due o tre pillole oppiate.

Era la prima a entrare dove c'erano dei cadaveri. Il giallo degli occhi e il paonazzo delle labbra dei morti non la facevano tornare indietro. Ordinava ai becchini di incassarli, si impadroniva del materiale lettereccio, lo mandava al rogo e si dava al lavoro della stanza, disinfettandola, facendone scrostare e imbiancare le pareti e riammobigliandola con un tavolo, delle scranne, dei letti e delle stoviglie, cose tutte che asciugavano il pianto delle donne desolate e vedovate dal contagio.

Il giorno in cui le vittime passarono le dieci la tranquillità apparente del Casone si convertì in un panico più spaventevole del colera. Il cognac e l'acquavite avevano perduta la virtù di rianimare la gente rassegnata al destino. Le mogli non facevano che accendere candele alle madonne per le scale e abbandonarsi a quell'accasciamento che lascia paralizzati o incita ad abbandonarsi alle esclamazioni di terrore. «O Signore benedetto! O Madonna santissima! Salvate tanta povera gente

Gli uomini, costretti a rimanere nel Casone perché all'ingresso le guardie ne impedivano l'uscita, restavano nel mezzo del cortile, intorno ai bracieri che vi mandava il Taschini ogni due o tre ore con delle corbe di pane fresco tutte le volte che dovevano mettersi ai pasti. La cassa che vedevano sulle spalle dei becchini faceva loro battere i denti e li metteva in un orgasmo che rasentava la costernazione. Se non fosse stato per la vergogna, si sarebbero messi a piangere. C'erano di quelli che si facevano pregare a bere il bicchierino per il quale, in altri momenti, si sarebbero fatti in quattro. La morte del pettinaio Andreoli diffuse l'avvilimento. Lo avevano veduto andare e venire con la pipa in bocca a canzonare tutti quelli che svenivano a parlare dell'epidemia entrata nel Casone, e in poco meno di due ore era già nel cataletto, con la faccia stravolta dalle contorsioni che lo avevano torturato. Non si scherzava. Si poteva avere del coraggio, ma gli inquilini morivano via come le mosche in un freddo autunno. Era morto anche Antonio, l'epilettico ritornato da Caravaggio con la grazia. Dalla guarigione era divenuto affabile e verboso, lieto tutte le volte che poteva narrare a qualcuno la voce divina che aveva udito nel momento in cui pregava con l'anima estasiata la Madonna miracolosa di ridargli la salute. «Alzati, Antonio» gli disse la madre di Dio «e va' a casa contento. Il Signore Iddio ha accolto la tua preghiera». E dopo essere stato guarito, è morto. Sua madre non sa darsi pace.

— Ah! dunque — diceva giorni sono — non c'è giustizia in cielo!

Il cielo non ha proprio avuto compassione di Antonio. Egli è morto come un dannato. I crampi allo stomaco durante il raffreddamento del corpo erano così inesorabili che nel delirio il povero diavolo si scarnificava il petto con le unghie. Buondelmonti non ha potuto salvarlo neppure coi clisteri di etere solforico. È spirato con la pelle del ventre nelle mani, colle gambe piegate dai dolori atroci, con l'occhio vitrescente e con la faccia tutta corrugata e rossastra, come se avesse subite le convulsioni di un delirio violento.

— Ah, dunque non c'è giustizia in cielo!

No, non c'è giustizia in cielo. Il cielo non ha avuto pietà neppure di Agata Maddaloni, la donna più feconda del cortilone, la madre dai fianchi spettacolosi, che aveva undici figli vivi e un marito ernioso e sbevazzone.

O don Paolo, voi che mi parlate sempre della bontà del Dio dei cristiani, ditemi perché Dio non è clemente, perché Dio, che è in ogni luogo, assiste alla strage dei poveri, che lo adorano in ginocchio con tanta indifferenza? So la vostra risposta a memoria: mistero!

— Tu non sai — mi diss'egli un giorno in cui sentivo il dubbio — che san Pietro ha pianto per trenta anni l'errore di avere rinnegato il Signore uscendo dalla cena?

Sappiatelo, buon sacerdote, io non piangerò un minuto. Se Dio è potente e nulla può resistergli perché non mi colpisce in questo attimo in cui il mio edificio religioso è crollato? Ah, me ne ricordo. Voi mi avete detto che anche Pascal, il grande Pascal dopo l'orgia col demonio, è ritornato alla fede della grazia, alla fede del mistero, alla fede del sovrano del cielo. Ma voi non mi avete mai detto che Pascal, il grande Pascal, dai diciotto anni non fu che un povero ammalato. Un ammalato, si capisce, disprezza la scienza e si prostra all'ignoto. L'ignoto è l'ultima sua speranza. Basta, basta di mistero! non ne voglio più, grazie. La mia anima religiosa è in frantumi. Non ho più fede, non credo più, non posso più credere che il Dio dei miseri sia così spietato, così inumano, così crudele con la gente che ha sofferto, che ha patito, che non ha mai avuto una giornata di sole! Dio di vendetta, ti scaccio dal mio cuore, vergognoso di averti dato i miei entusiasmi giovanili!

La mia rivolta fu la rivolta di un minuto. Le grida dei figli che imploravano la grazia divina per la madre che moriva, mi hanno sgiogato, completamente sgiogato da una religione impotente come gli uomini a salvare le moltitudini dai disastri della vita. Annunciata mi mise la mano sulla bocca per impedirmi di pronunciare la parola della mia emancipazione. Ma era troppo tardi. La mia fede era infranta.

Forse barcollava anche quella di Annunciata. Essa aveva veduto che il Dio che avevamo chiamato tante volte in aiuto era rimasto sordo, implacabilmente sordo. Buona Annunciata, tu sì che sei una vera madonna, una madonna di carne, una bella madonna che si commuove e lenisce le miserie umane! Ho detto che è vile l'adulterio. Ma io ti amo, io ti voglio bene, io mi sento attratto verso la tua bella bocca piena di promesse. Ho perduto una fede moritura e ne ho trovata una immortale: l'amore. Non c'è che l'amore di vero, di grande, di sublime. Tu sì che esisti. Tu sì che sei possente. Tu sì che allacci e imparadisi. Io sarò uno dei sacerdoti che celebrerà la tua gloria con sfuriate di baci, con abbracci infiniti, con passione, con ardore, con voluttà, con trasporto indicibile. Agata Maddaloni, non ti dimentico, non sarai dimenticata. La tua sciagura è connessa al momento più eroico e più fortunato della mia vita. Ti ricordo, ti potrei descrivere. Il morbo ti aveva lasciata sul letto informe, con tutte le tracce di essere stata abbattuta dalla violenza. Il tuo corpo, qua e lividastro, qua e nerastro, faceva paura. Le tue mammelle ampollose sembravano state svuotate e lasciate sul seno come vesciche aggrinzate dalla furia di un'atmosfera ardente, coi capezzoli flosci nel largo della chiazza azzurrastra.

I tuoi ragazzi e le tue ragazze si disperavano con un pianto che schiantava il cuore, e si buttavano sul tuo cadavere in disfacimento con le esclamazioni della ambascia che li soffocava. La scena rappresentava tutto ciò che c'è di lugubre, di tragico, di spaventevole. Annunciata fu il balsamo che passò sui loro cuori sanguinolenti. Li raccolse, li baciò, li sottrasse allo spettacolo del cadavere mostruoso che non suscitava in loro disgusto e ritornò per la disinfezione.

Non volli, mi opposi. Nel mio pensiero era mia, nel mio pensiero avevo diritto di bloccarle la via che conduceva alla morte, a una morte così orribile. Ella taceva, spingendomi dolcemente da una parte per inaffiare la stanza col disinfettante.

— No, no, tu non passerai! Non voglio che tu muoia. Tu sei mia. Io ti abbraccio, io ti bacio.

E le fui con le labbra sulle labbra, premendomela tutta calda con le mie braccia, e suggendola avidamente senza spegnere la mia sete urente.

Senza ch'ella pronunciasse una parola mi sentii padrone del mio bottino.

Il suo corpo, vinto, s'era abbandonato dolcemente sul mio e non ci slacciammo che quando sentimmo il passo pesante di Buondelmonti.

 




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