È un pezzo che non prendo la penna in mano. Il colera
non me ne ha dato tempo. Che giornate! Sudo a pensarci. Ci sono state notti
senza riposo. Sembrava il finimondo. Dappertutto si aveva bisogno di noi. Parlo
di donna Annunciata, di Buondelmonti e di me. Abbiamo fatto il nostro dovere
senza chiasso, gareggiando l'un l'altro a nostra insaputa. La fortuna dei
nostri ammalati è stata di avere il Buondelmonti, il quale pareva una illustrazione
medica stata in India a studiare il morbo. Conosceva tutto, indovinava tutto,
ordinava tutto. I due medici mandati dalle autorità sanitarie facevano
anch'essi il loro dovere, ma da salariati. Il denaro rende burocratici. Si può
dire che venivano a constatare gli insuccessi. Buondelmonti dava loro la
relazione di quel che era avvenuto e se ne andavano salutandoci. E noi ci
rimettevamo al lavoro senza paura e senza pensare che avremmo potuto rimanere
tra le vittime. La spensieratezza era la nostra poesia. Annunciata ha
illustrato la donna che dedica se stessa alle sventure sociali con esempi di
abnegazione che ci rivelarono il tesoro degli affetti umanitarii del suo cuore.
Non sentiva che la religione dell'altruismo. Andava da una stanza all'altra, vestita
di cotone rigato, col grembiale che le girava sui fianchi gagliardi, con la
scopa e coll'inaffiatoio di acqua fenicata. Scopava, lavava, disinfettava,
cambiava la biancheria sporca, mettendovi della sua pulita, distribuiva
bicchierini di cognac Martello ai sani per mantenere alto lo spirito degli
inquilini, impediva che mangiassero le zucche, i poponi, i melloni e tutti i
legumi che potessero disturbare il ventre, abituava le donne a bere il thè
olandese caldo senza zucchero, con delle semplici gocce di cognac eccellente o
di laudano, se la bevitrice aveva dei dolori ventrali o delle diaree
prodromali.
Nel Casone non si è mai mangiato così bene. Ogni mattina giungeva il
carro del macellaio con due chilogrammi di carne per ogni famiglia, vale a dire
per ogni stanza. L'individuo solo metteva i suoi due chilogrammi nella caldaia
comune appesa al bastone di ferro col braccio a uncino che avevano piantato in
un angolo pulito del cortilone. Ella passava e raccomandava di tenersi caldi,
di mangiare senza ingordigia e cose leggere, di avvertirla se mancavano di
qualche cosa e di andare da lei se si sentivano la testa pesante, la lingua
asciutta, dell'oppressione allo stomaco, della rigidezza nelle gambe, degli
impeti di vomito o qualche movimento che potesse lasciar credere a una colica.
Era instancabile. L'abbiamo veduta in ginocchio, con le maniche
rimboccate a lavare il suolo con secchi d'acqua che contenevano tanto acido
fenico da ammazzare tutti i miceti che i colerosi avessero potuto perdere. Si
fermava al letto dei colerosi senza ricordarsi del pericolo, strofinava la
pelle dei sofferenti con degli irritanti o del cloroformio e assisteva alle
scariche diarroiche senza impallidire. Guai a dirle di andare via. Pestava i
piedi e andava in furia. Perché non voleva che le si spaventassero gli ammalati
e perché diceva che la paura era il morbo nero del colera sporadico.
— Signor Buondelmonti, mi protegga. Non è vero ch'ella mi ha dato
l'incarico di tranquillare il Casone e far credere agli inquilini che non si
tratta che di una malattia comune?
Faceva anche quello che le infermiere fanno con disgusto. Prendeva in
mano il pitale delle deiezioni, le inondava di acido fenico, le faceva vuotare
dabbasso nella buca inaffiata della stessa soluzione acquosa e aiutava l'infermo
a raccomandarsi nel letto, coprendolo bene e facendogli trangugiare due o tre
pillole oppiate.
Era la prima a entrare dove c'erano dei cadaveri. Il giallo degli occhi
e il paonazzo delle labbra dei morti non la facevano tornare indietro. Ordinava
ai becchini di incassarli, si impadroniva del materiale lettereccio, lo mandava
al rogo e si dava al lavoro della stanza, disinfettandola, facendone scrostare
e imbiancare le pareti e riammobigliandola con un tavolo, delle scranne, dei
letti e delle stoviglie, cose tutte che asciugavano il pianto delle donne
desolate e vedovate dal contagio.
Il giorno in cui le vittime passarono le dieci la tranquillità apparente
del Casone si convertì in un panico più spaventevole del colera. Il cognac e
l'acquavite avevano perduta la virtù di rianimare la gente rassegnata al
destino. Le mogli non facevano che accendere candele alle madonne per le scale
e abbandonarsi a quell'accasciamento che lascia lì paralizzati o incita ad
abbandonarsi alle esclamazioni di terrore. «O Signore benedetto! O Madonna
santissima! Salvate tanta povera gente!»
Gli uomini, costretti a rimanere nel Casone perché all'ingresso le
guardie ne impedivano l'uscita, restavano nel mezzo del cortile, intorno ai
bracieri che vi mandava il Taschini ogni due o tre ore con delle corbe di pane
fresco tutte le volte che dovevano mettersi ai pasti. La cassa che vedevano
sulle spalle dei becchini faceva loro battere i denti e li metteva in un
orgasmo che rasentava la costernazione. Se non fosse stato per la vergogna, si
sarebbero messi a piangere. C'erano di quelli che si facevano pregare a bere il
bicchierino per il quale, in altri momenti, si sarebbero fatti in quattro. La
morte del pettinaio Andreoli diffuse l'avvilimento. Lo avevano veduto andare e
venire con la pipa in bocca a canzonare tutti quelli che svenivano a parlare
dell'epidemia entrata nel Casone, e in poco meno di due ore era già nel
cataletto, con la faccia stravolta dalle contorsioni che lo avevano torturato.
Non si scherzava. Si poteva avere del coraggio, ma gli inquilini morivano via
come le mosche in un freddo autunno. Era morto anche Antonio, l'epilettico
ritornato da Caravaggio con la grazia. Dalla guarigione era divenuto affabile e
verboso, lieto tutte le volte che poteva narrare a qualcuno la voce divina che
aveva udito nel momento in cui pregava con l'anima estasiata la Madonna miracolosa di ridargli la salute. «Alzati, Antonio» gli disse la madre di Dio «e va'
a casa contento. Il Signore Iddio ha accolto la tua preghiera». E dopo essere
stato guarito, è morto. Sua madre non sa darsi pace.
— Ah! dunque — diceva giorni sono — non c'è giustizia in cielo!
Il cielo non ha proprio avuto compassione di Antonio. Egli è morto come
un dannato. I crampi allo stomaco durante il raffreddamento del corpo erano
così inesorabili che nel delirio il povero diavolo si scarnificava il petto con
le unghie. Buondelmonti non ha potuto salvarlo neppure coi clisteri di etere
solforico. È spirato con la pelle del ventre nelle mani, colle gambe piegate
dai dolori atroci, con l'occhio vitrescente e con la faccia tutta corrugata e
rossastra, come se avesse subite le convulsioni di un delirio violento.
— Ah, dunque non c'è giustizia in cielo!
No, non c'è giustizia in cielo. Il cielo non ha avuto pietà neppure di
Agata Maddaloni, la donna più feconda del cortilone, la madre dai fianchi
spettacolosi, che aveva undici figli vivi e un marito ernioso e sbevazzone.
O don Paolo, voi che mi parlate sempre della bontà del Dio dei
cristiani, ditemi perché Dio non è clemente, perché Dio, che è in ogni luogo,
assiste alla strage dei poveri, che lo adorano in ginocchio con tanta
indifferenza? So la vostra risposta a memoria: mistero!
— Tu non sai — mi diss'egli un giorno in cui sentivo il dubbio — che san
Pietro ha pianto per trenta anni l'errore di avere rinnegato il Signore uscendo
dalla cena?
— Sappiatelo, buon sacerdote, io non piangerò un minuto. Se Dio è
potente e nulla può resistergli perché non mi colpisce in questo attimo in cui
il mio edificio religioso è crollato? Ah, me ne ricordo. Voi mi avete detto che
anche Pascal, il grande Pascal dopo l'orgia col demonio, è ritornato alla fede
della grazia, alla fede del mistero, alla fede del sovrano del cielo. Ma voi
non mi avete mai detto che Pascal, il grande Pascal, dai diciotto anni non fu
che un povero ammalato. Un ammalato, si capisce, disprezza la scienza e si
prostra all'ignoto. L'ignoto è l'ultima sua speranza. Basta, basta di mistero!
non ne voglio più, grazie. La mia anima religiosa è in frantumi. Non ho più
fede, non credo più, non posso più credere che il Dio dei miseri sia così
spietato, così inumano, così crudele con la gente che ha sofferto, che ha
patito, che non ha mai avuto una giornata di sole! Dio di vendetta, ti scaccio
dal mio cuore, vergognoso di averti dato i miei entusiasmi giovanili!
La mia rivolta fu la rivolta di un minuto. Le grida dei figli che
imploravano la grazia divina per la madre che moriva, mi hanno sgiogato,
completamente sgiogato da una religione impotente come gli uomini a salvare le
moltitudini dai disastri della vita. Annunciata mi mise la mano sulla bocca per
impedirmi di pronunciare la parola della mia emancipazione. Ma era troppo
tardi. La mia fede era infranta.
Forse barcollava anche quella di Annunciata. Essa aveva veduto che il
Dio che avevamo chiamato tante volte in aiuto era rimasto sordo,
implacabilmente sordo. Buona Annunciata, tu sì che sei una vera madonna, una
madonna di carne, una bella madonna che si commuove e lenisce le miserie umane!
Ho detto che è vile l'adulterio. Ma io ti amo, io ti voglio bene, io mi sento
attratto verso la tua bella bocca piena di promesse. Ho perduto una fede
moritura e ne ho trovata una immortale: l'amore. Non c'è che l'amore di vero,
di grande, di sublime. Tu sì che esisti. Tu sì che sei possente. Tu sì che
allacci e imparadisi. Io sarò uno dei sacerdoti che celebrerà la tua gloria con
sfuriate di baci, con abbracci infiniti, con passione, con ardore, con voluttà,
con trasporto indicibile. Agata Maddaloni, non ti dimentico, non sarai dimenticata.
La tua sciagura è connessa al momento più eroico e più fortunato della mia
vita. Ti ricordo, ti potrei descrivere. Il morbo ti aveva lasciata sul letto
informe, con tutte le tracce di essere stata abbattuta dalla violenza. Il tuo
corpo, qua e là lividastro, qua e là nerastro, faceva paura. Le tue mammelle
ampollose sembravano state svuotate e lasciate sul seno come vesciche
aggrinzate dalla furia di un'atmosfera ardente, coi capezzoli flosci nel largo
della chiazza azzurrastra.
I tuoi ragazzi e le tue ragazze si disperavano con un pianto che
schiantava il cuore, e si buttavano sul tuo cadavere in disfacimento con le
esclamazioni della ambascia che li soffocava. La scena rappresentava tutto ciò
che c'è di lugubre, di tragico, di spaventevole. Annunciata fu il balsamo che
passò sui loro cuori sanguinolenti. Li raccolse, li baciò, li sottrasse allo
spettacolo del cadavere mostruoso che non suscitava in loro disgusto e ritornò
per la disinfezione.
Non volli, mi opposi. Nel mio pensiero era mia, nel mio pensiero avevo
diritto di bloccarle la via che conduceva alla morte, a una morte così
orribile. Ella taceva, spingendomi dolcemente da una parte per inaffiare la
stanza col disinfettante.
— No, no, tu non passerai! Non voglio che tu muoia. Tu sei mia. Io ti
abbraccio, io ti bacio.
E le fui con le labbra sulle labbra, premendomela tutta calda con le mie
braccia, e suggendola avidamente senza spegnere la mia sete urente.
Senza ch'ella pronunciasse una parola mi sentii padrone del mio bottino.
Il suo corpo, vinto, s'era abbandonato dolcemente sul mio e non ci
slacciammo che quando sentimmo il passo pesante di Buondelmonti.
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