CAPITOLO
UNDECIMO.
Un mistero
svelato.
Benchè
la mattinata fosse assai frigida, piovigginosa, pure la via del
Senato, il cortile del palazzo Elvetico e la vasta Sala della Corte
d'Assise, ove già seguivano le solennità scolastiche
dei Collegio Elvetico, erano straordinariamente affollate di gente
avida di assistere al dibattimento della bella guantaia, la quale
malgrado il suo delitto, si era acquistata una simpatia generale.
L'accusata
comparve dinanzi alla Corte, vestita di nero, col velo tradizionale,
sotto cui spiccava la sua faccia bianca, illuminata dai grandi occhi
azzurri, nei quali eravi un'espressione di sofferenza, di stanchezza,
da non potersi dimenticare.
Ella
teneva alta la testa, ma quell'apparenza di orgoglio era temperata da
un mesto sorriso, che sembrava riflettere i dolori dell'anima.
Nel
momento in cui Maria veniva introdotta nel banco degli accusati,
appariva dall'altra parte, il conte Ercole Patta.
Egli
non sarebbe comparso fra i testimoni, ma non aveva potuto resistere
alla curiosità di vedere la giovane, che lo preoccupava più
di sua figlia Adriana, perchè non sapeva spiegarsi il contegno
di lei, il suo strano modo di agire con chi aveva contribuito a
perderla.
Bisogna
anche aggiungere che il conte temeva che al momento supremo, dinanzi
alla Corte, la bella guantaia facesse qualche imprevista rivelazione.
E sebbene egli pensasse che distrutte quelle carte non aveva più
nulla a temere, pure non si sentiva tranquillo, ed al lividore del
viso, aggiungeva un'inquietudine nervosa, che gli faceva in certi
istanti fin battere i denti...
La
vista di Maria gli produsse una sensazione non mai fino allora
provata. Gli pareva di aver veduta altra volta quella figura
slanciata, piena d'alterezza, quel viso di un pallore diafano, che
portava le traccie dei lunghi patimenti sofferti in silenzio, quei
grandi occhi glauchi, che si fissavano nel vuoto, senza nulla
vedere... Ma dove? Quando?
Ad
un tratto fece un balzo come se si destasse repentinamente, il cuore
gli si strinse in una crispazione spaventosa, un'esclamazione pazza
gli salì alla gola e per rattenerla, fece uno sforzo così
violento, che i pomelli delle sue gote, s'infiammarono, negli occhi
ebbe una specie di barbaglio...
Egli
tremò ancor più sentendo la voce dell'accusata, che
ripeteva la confessione fatta al giudice istruttore, senza aggiungere
o togliere una sola parola...
-
Insistete a dire che eravate sola col marchese Diego nella villa di
Cernusco, dove egli stesso vi condusse? - esclamò il
presidente. - Continuate ad affermare che avete colpito per
difendervi?
-
Affermo ed insisto, perchè è la verità. Avevo il
desiderio di punire colui che mi straziò l'anima, mi coprì
di vergogna, ma vi giuro che non l'avrei fatto, se egli stesso non mi
avesse spinta.
Parlava
con voce chiara, che aveva talvolta delle vibrazioni dolci,
armoniose; tal altra diveniva amara, convulsa, stridente.
Quando
ebbe finito sedette, senza dare alcun segno di stanchezza, di
sofferenza.
Dopo
di lei fu udito il servo del defunto marchese. Con sorpresa del
presidente e degli altri, ritirò quanto aveva ammesso durante
l'istruttoria, disse che quel giorno per il dolore della morte del
padrone aveva perduta la testa, che non sapeva quello che si dicesse,
ma la verità si era che nella notte dell'assassinio, il
marchese l'aveva con un pretesto lasciato a Milano, perchè
forse voleva condurre a Cernusco la bella guantaia. Aggiunse che
spinto da un tristo presentimento non seppe resistere di rendersi
disobbediente al padrone, ma non fu in tempo di recarsi alla villa,
prima che l'assassinio fosse compiuto.
Si
capì che quel servo, dall'aria furba e cinica, era stato
comprato per indurlo a ritirare all'udienza la sua deposizione. Ma
come scoprirlo? Malgrado le ingiunzioni severe del presidente, la
minaccia della pena severa per falsa testimonianza, il domestico
giurò di nuovo che ormai diceva la verità, tutta la
verità, nient'altro che la verità!
La
sfilata dei testimoni non fu lunga, nè importante, tuttavia
per ultimo, quando la voce formidabile dell'usciere, annunziò
l'Annetta Durini, la madre dell'accusata, un mormorio, un fremito si
sparse nell'uditorio, mentre il viso di Maria esprimeva la più
grande costernazione...
Sua
madre testimone? Che avrebbe detto? Aveva dunque ricuperata la
parola? Era guarita?
Il
cuore le batteva fino a spezzarsi, perdette la sua presenza di
spirito, tremò, ebbe paura del primo sguardo di quella madre
offesa, oltraggiata nell'onore, che tanto aveva sofferto, pianto per
cagion sua.
La
popolana entrò portata sopra una sedia da due robusti
infermieri dell'ospedale.
La
sua fisonomia mostrava l'impronta di tutti i dolori provati,
esprimeva ad un tempo l'angoscia e la pietà. Le guancie
incavate, le narici emaciate, le rughe profonde delle tempia e della
bocca, gli occhi spenti, i capelli incanutiti, tutto le dava un
aspetto da stringere il cuore.
La
folla che aveva accolta la sua entrata con un mormorio di
compassione, quando vide brillare sul petto di lei la medaglia al
valore e conobbe di aver dinanzi un'eroina delle famose cinque
giornate, scoppiò in un formidabile applauso.
Il
Presidente ottenne a stento il silenzio.
Annetta
appariva vivamente commossa e prima ancora di prestare il giuramento,
volse uno sguardo ansioso, vivissimo verso Maria e con voce tremante:
-
Così dovevamo rivederci - balbettò - ah! povera...
povera fanciulla!
Grosse
lacrime scorrevano sul viso di Maria. Ah! cosa era mai la morte in
confronto allo strazio orribile, che soffriva in quel momento. Pareva
che le lacerassero il cuore a brani, sentiva un cupo ronzio negli
orecchi, la lingua attaccata al palato.
-
Mamma... mamma, - disse con voce strangolata, stendendo verso di lei
le manine bianche, affilatissime.
Passato
quel primo momento di suprema commozione, la popolana si rimise,
chiese scusa per aver domandato di presentarsi al pubblico
dibattimento come testimone, ma non avendo potuto essere interrogata
prima in causa della sua grave malattia, dalla quale non si era
ancora perfettamente ristabilita, aveva creduto però suo
dovere di venire a difendere la fanciulla, trovandosi in grado di
parlare, esprimersi chiaramente.
E
dopo la formola del giuramento, la popolana rispose con precisione
alle domande fattele intorno al suo nome, cognome, e domicilio.
Non
si udiva il più lieve respiro nella sala: pareva che la folla
avesse sospeso il fiato per ascoltarla.
Solo
quando dichiarò che ella non aveva avuto figli, si udì
un mormorio subito represso, mentre il Presidente le chiedeva:
-
Di chi è dunque l'accusata, alla quale deste il vostro nome?
-
Ve lo dirò, signor Presidente, ormai è inutile il
mistero.
Ed
allora la popolana ebbe uno sfogo: le parole le vennero alle labbra
impetuose, tronche, gemebonde. Rifece la storia di quei giorni di
sollevazione, di terrore, narrò le rapide peripezie a lei
succedute, parendole rivivere in quei tempi, rievocandoli, raccontò
la morte del marito, e il ritrovo di quella creaturina... coperta di
sangue, svenuta, che ella aveva rianimata a forza di baci, di
carezze, sentì subito d'amare come se l'avesse portata in
seno...
Ridire
la commozione che provava il pubblico a quella narrazione
inaspettata, sarebbe impossibile...
Ma
due persone sopratutto sembravano in preda ad un'eccitazione
straordinaria: il come Patta e Maria.
Il
primo continuava a stropicciarsi colla mano destra la fronte, che
l'ansia, l'angoscia fortemente increspava; l'altra come colpita da
atonia, teneva gli occhi sbarrati sulla popolana, chiedendo a se
stessa se non sognava, se era la verità che le si rivelava
dinanzi, spietatamente, in quel momento.
Tutti
gli sguardi erano fissi su Annetta. Il Presidente le chiese se non
aveva fatte indagini per scoprire a chi appartenesse quella
fanciulla.
-
Ho cercato per più mesi, ma inutilmente - rispose la popolana
- allora supposi che la bambina fosse scampata per miracolo
all'eccidio di qualche famiglia signorile, che i suoi parenti fossero
tutti morti o fuggiti e mi convinsi che non apparteneva al mio ceto
dalla biancheria finissima che indossava e da un medaglioncino che
teneva al collo, raffigurante una testa di morto... attaccata ad una
microscopica catena d'oro.
La
popolana si interruppe. Un grido improvviso echeggiò
nell'ampia sala, seguito dal rumore di un corpo che cadeva
pesantemente e da più voci, che dicevano:
-
Presto... un medico...
Vi
fu un momento di tumulto indescrivibile...
-
Che cosa succede?
-
È il conte Patta, che è svenuto...
-
Forse l'emozione, il caldo, è stato un'imprudenza la sua
recarsi qui...
-
Lo trasportano fuori.
-
Non sarà cosa grave...
Queste
ed altre esclamazioni si udivano nell'aula. Chi si mostrava
contrariato, chi impietosito, chi curioso...
Il
nome del conte Patta era giunto agli orecchi dell'accusata,
producendole una sensazione profonda, mettendole nelle vene un
brivido di angoscia, di paura. Le risuonavano in quel momento alle
orecchie le parole pronunziate da Diego, allorchè rivelava a
sua moglie, l'infamia del padre...
«Una
spia, un traditore della patria, che il popolo milanese nei giorni
memorabili della sollevazione, aveva giurato ammazzare. Egli è
riuscito a fuggire, ma abbandonando alle furie dei ribelli, che ne
dovettero far strazio, una moglie giovane e bella, un'innocente
bambina.»
E
se fosse lei quella bambina? Qualche cosa le diceva che non
s'ingannava! Quel grido straziante che le risuonava in cuore, l'aveva
ferita fin nelle viscere, non era l'appello di un uomo che sveniva
per il troppo calore o l'emozione, ma l'evocazione disperata di un
padre, che ritrovava la sua creatura!
Ecco
perchè qualche cosa maggiore della sua stessa volontà,
l'aveva spinta a distruggere quelle carte, che potevano perdere il
conte. Era la voce del sangue che parlava in lei! Era Dio stesso che
la guidava, per non dare al mondo lo spettacolo mostruoso di una
figlia che perdeva, condannava il proprio padre...
Al
conte Patta doveva la vita, ed ella aveva salvata la sua; ma sentiva
che giammai avrebbe potuto amarlo...
Pensava
invece con strazio a quella madre, che egli aveva abbandonata in
preda al furore popolare. Forse quella sventurata, sebbene coperta di
ferite, era giunta a porla in salvo presso la casa della generosa
popolana, ed era quindi fuggita, per andare a morire altrove, onde
non scoprissero che quella creaturina era sua figlia, la
risparmiassero.
Lacrime
ardenti scorrevano sulle guancie di Maria, di quelle lacrime che
anzichè riuscire di sollievo, dilaniano il cuore.
Intanto
nella sala si era ristabilita la calma. Si seppe che il conte
rinvenuto quasi subito, aveva detto essere stato preso da un senso di
soffocamento per il troppo calore e sebbene si sentisse meglio, non
si trovava più disposto ad assistere all'udienza ed era
ritornato al proprio palazzo.
Annetta
potè riprendere la sua narrazione; ma ormai si era così
affaticata, che le parole uscivano a stento, mozze dalle sue labbra,
e potè appena protestare che Maria era innocente, che se aveva
commesso il delitto, la colpa era del marchese Diego, il seduttore,
l'infame, che l'aveva disonorata; poi si piegò affranta sulla
seggiola, mormorando:
-
Rendetemela... rendetemela; se Maria viene condannata, che io lo sia
con lei: la sua separazione è la mia morte.
L'udienza
fu per quel giorno terminata. All'indomani, la folla aumentò
ancora. Si trattava di sentire la requisitoria del Pubblico
Ministero, la difesa ed il verdetto. La sorte fu favorevole
all'accusata: il Pubblico Ministero si mostrò assai
indulgente, mite per lei; l'avvocato la difese con tanto calore, che
persino i giurati avevano le lacrime agli occhi. Onde allorchè
ritornati dalla Camera di deliberazione, il Capo di essi, pronunziò
con voce vibrata:
-
No: l'accusata non è colpevole...
Si
udì nella sala un lungo mormorio di approvazione, che scoppiò
in un applauso fragoroso, allorchè riapparve Maria...
Questa
si sosteneva a stento in piedi: le pareva di soffocare, si sentiva
piegare le gambe ed appena il Presidente le ebbe annunciato che era
assolta, libera, non potè balbettare una sola parola di
ringraziamento, perchè si svenne.
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