CAPITOLO XVI.
Quello in cui a C... si
ballava, era stato palazzo dei feudatari; e abitato ai dì nostri da una
famiglia per bene, sorge a piè della roccia, dalla cui vetta il castello in
rovina pare lo guardi imbroncito; quasi chiedendo se sia cosa giusta, ch'egli
debba stare lassù a disfarsi alla pioggia e al gelo, mentre il palazzo sta
ritto qual era nell'età fiera, in cui di ribalderie fatte dai loro padroni ne
videro entrambi d'ogni colore. Sullo scorcio del secolo passato, vi
alloggiavano le genti del Re di Sardegna, messe a guardia del confine tra il
regno e la repubblica di Genova; e però il borgo fioriva pel molto spendere
degli uffiziali di quelle milizie, dei quali alcuni lasciarono le ossa e il
nome alle sepolture della chiesa parocchiale; altri le sembianze sull'insegna del
caffè di Marocco, rimasta salda sugli arpioni molti anni dopo che il povero
caffettiere era morto, ed ora buttata ai tarli in non so quale solaio.
Per accedere alle scale
ampie ed agiate, che di certo furono fatte per non affannare il petto alle
baronesse; bisognava attraversare una sorta d'atrio, che di costa aveva un
cortile lungo quanta era la facciata dell'edifizio. Da quel cortile parecchie
viti, accompagnate nei loro serpeggiamenti da mano amica, s'erano arrampicate
così alte, che tra balcone e balcone, formando bellissimi tralciati, toccavano
colle vette le gronde del palazzo, a recarvi chi sa se noia o diletto alle
rondini, che vi appiccavano i nidi. Bell'e in mezzo al cortile v'era una
cupoletta leggiadra, assiepata da gelsomini rigogliosi; ma i fiori d'alcune
aiuole ben disposte qua e là negli angoli, perchè il sole vi poteva poco, erano
pallidi come visi di monachelle, che se anco belline hanno sempre sulle guance
i segni dell'aria morta del chiostro. Di là dall'atrio si pigliavano le scale,
che mettevano ad un ampio ambulacro, e più oltre ad un uscio, i cui stipiti e
l'architrave erano stati condotti con gran maestria in marmo persichino, cavato
dalle montagne di quelle parti. E l'uscio poneva in una di quelle sale vaste,
le quali, ad entrarvi da soli, danno un po' di sgomento; e l'uomo vi si trova
piccino e così leggero di panni, che per istarvi bene avrebbe proprio mestieri
d'essere vestito di ferro. L'altezza della volta era molta sfogata, e aveva nel
mezzo uno stemma recante aquila bicipite, carro e cimiero, ad alto rilievo; e
quando la sala era illuminata scarsamente, e il venticello delle finestre
faceva ondeggiare le fiamme, alla luce ricevuta di sotto in su, quell'aquila
dai rostri e dagli artigli dorati, pareva muoversi come cosa viva e pronta a
spiccare il volo. Di là da questa v'erano due altre sale, ed oltre e sopra per
lunghi giri, stanze e corridoi d'ogni conformità; di chè il volgo accostumato a
vivere ammucchiato nelle sue catapecchie, aveva mille ubbìe su quell'edificio
così vasto, e lo guardava quasi con paura. Le femminette compativano i poveri
soldati, costretti ad abitare in quel luogo malurioso; e quando fu accesa la
guerra in su quel di Nizza, e le milizie lo lasciarono vuoto; parve a quelle
semplicione, che l'andare ai patimenti dei campi, e forse a morire per man dei
Francesi feroci, fosse meno peggio dello stare là dentro, a farsi guardare nei
sonni dagli occhi ardenti dei fantasmi, uscenti la notte dai trabocchetti.
Gli uffiziali Alemanni,
volendo far onore alla sposa ed al loro compagno d'armi; avevano stimato che il
palazzo fosse il luogo più acconcio ad una festa da ballo; perchè vi si poteva
invitare quanta gente per bene viveva nel borgo e nei dintorni. E già alla una
di notte ne erano piene le stanze. Chi giocava, chi conversava, chi si
confortava ad una copiosa credenza: mentre nella sala grande si ballava così di
voglia, che non pareva d'estate.
Le pareti di quella
sala, quasi coverte di quadri antichissimi, rappresentanti caccie e tornei;
erano a tratti adorne di specchi posati su certi arpioni, che reggevano
doppieri formati di molte torce. E la luce riverberata dalle spere, si
diffondeva in ogni lato sì vivida, che si sarebbe potuto raccattare di terra
una spilla; e i cavalieri e le dame vedute e moltiplicate in quelle, parevano
migliaia. Qual festa per gli spiriti folletti, abitatori di quel palazzo! Che
sì, che quella notte delle burlette ne avranno fatte di belle, alle madri
sedute a vedere le figlie ballare, o passeggiare di su di giù con quegli
Alemanni, vestiti di magnifiche assise! Le donnicciole delle casette vicine,
potevano quella notte dormire tra due guanciali se gli avessero avuti, chè
nessuno di questi spiritelli si sarebbe tolto da tanta delizia d'acconciature,
di gale, di code, per venirle a fastidire; nè i mulattieri discesi all'alba ad
arnesare, avranno trovato i bardotti o le mule colle criniere intrecciate da
doverne ammattire. O che avranno detto i ritratti dei due Monarchi Carlo VI
d'Austria e Filippo V di Spagna, incorniciati sopra gli architravi di due usci,
l'uno di faccia all'altro, e posti in modo che parevano sbirciare le donne e i
cavalieri, quali fossero le più belle ed i più cortesi? Quei due ritratti erano
fattura d'un pittore del borgo, che gli aveva dipinti dal vivo l'anno 1702; e
si vedeva dalla scritta che i due sovrani avevano dormito dai Marchesi Scarampi
proprio in quel palazzo. Un figlio del pittore, divenuto musico riputato molto,
sedeva quella sera sul palco a dirigere i suonatori: e rammentando d'avere
udito dal proprio padre le meraviglie dei due monarchi; guardava, suonando, i
loro ritratti, come se aspettasse di vederli sorridere, cavar di sotto le
corazze una pizzicata di monete d'oro, e chiedere a lui notizie del babbo che
gli aveva dipinti, pover'uomo morto da lunga pezza.
Chi fosse stato a quella
ed a qualunque festa da ballo di quei tempi; e volesse farne paragone con
quelle dei nostri, direbbe che gli avi si accontentavano di cose, alle quali
noi piglieremmo gusto, proprio come a dormire su d'un monte a bocca aperta quando
tira vento. Eppure ballavano i nostri vecchi meglio di noi: ballavano
gagliardamente, per mantenere agile la persona e l'animo lieto; e passi di
terza e di sesta erano segni di buona gamba. Più era stimato chi sapeva meglio
trinciar cavriolette, fare riprese, roteare a battuta: si ballassero
monferrine, furlane, gagliarde o correnti, bisognava aver petto sano per non
trafelare; e smettere prima dell'ultima nota dei suonatori, sarebbe stato farsi
canzonare da donne e da fanciulle. Le quali a vederle reggersi colla punta
delle dita un po' di gonna, tanto che i piedi ne uscissero scoperti fin sopra
la noce; e col capo chino vezzosamente, strisciarne uno innanzi e l'altro
volgere di lato, modeste, agili, rapidissime a fare da un lato all'altro le
sale, dovevano essere un desìo; e quello era ballare davvero.
Di balli a C... dopo la
venuta degli Alemanni, se ne erano visti molti; ma niuno si rammentava d'aver
ballato con estro, come in quella sera. La mezzanotte era passata da un pezzo;
e a quest'ora Giuliano e i quattro giovani, scampati all'ira del padre
Anacleto, giunsero alla porta del palazzo, e si misero dentro.
Giuliano combattuto da
desideri e da paura, si fermò peritoso nell'atrio; lasciando che i compagni
salissero quelle scale, echeggianti di festoso bisbiglio. E forse pentito,
avrebbe dato di volta, per ripigliare la via che aveva a fare; ma sul
muricciolo del cortile stavano cavalcioni alcuni giovani popolani: i discorsi
dei quali si mescolarono, come già tante altre cose strane, nei fatti suoi.
Essi godevano accidiosi quel po' di festa che potevano vedere attraverso i
balconi aperti; parevano anime del Limbo tormentate dalla vista d'un lembo di
cielo; e alla luce che loro pioveva addosso, parlavano basso, quasi timorosi
d'essere colti a godere di cosa non fatta per loro. Ed uno diceva:
«E vedi la sposa, la
sposa! Ci ho badato, e dei balli non ne ha tralasciato neanco uno!
«Sfido io! - rispondeva
un altro: - o che vuoi che si mostri di gamba malata?
«E chi s'era mai accorto,
- entrava a dire un terzo - chi s'era mai accorto che fosse così bella! Quando
noi si tornava da far legna, e la si incontrava con la sua zia, mi pareva un
digiuno comandato.
«Hai a dire, che ne'
suoi panni d'allora, pareva una santa che parlasse cogli occhi! Così
rinfronzita somiglia una di quelle statue che portiamo in processione, tutte
trine, nastri, oro e che non dicono nulla.»
A queste parole, dette
da quel popolano, Giuliano si mosse e salì le scale con passo sicuro. Rocco che
nulla si curava di quegli spettacoli, e forse voleva andare sconosciuto anche a
C...; vedendo che il padrone saliva di sopra, si sdraiò nell'atrio e si
appisolò un tantino.
«Dov'è questa sposa? -
chiese Giuliano ai compagni, i quali s'erano fermati sull'uscio della sala,
aspettando che fosse finita una gavotta gaia, spedita, vorticosa, che pareva un
visibilio: e sfolgorante di bellezza, di sdegno, di dolore, guardò. I suoi
occhi videro, il suo cuore provò uno squasso, e le mani gli si contrassero
fieramente.
Vestita di raso candido,
cangiante in un azzurro oltremarino leggerissimo, che le rialzava la
carnagione; Bianca ballava in mezzo a quella folla d'ebbri felici, più ebbra di
tutti. Una bustina color di rosa le stringeva la vita, e le reggeva il seno
tumido, voluttuoso, appena coperto d'una modestina a trafori, che ne velava e
non ne velava la sommità. Le braccia ignude fino più in su del gomito,
agitavano le trine cadenti in moltissime pieghe dagli sgonfietti delle ascelle;
e le smaniglie ai polsi, e il monile di gemme, mostravano come quella fanciulla
sapesse d'essere bella, e quanto fosse venuta innanzi nella via delle vanità. I
geni della innocente e timida adolescenza si erano tutti partiti da lei; e gli
occhi e le labbra avevano già appreso l'arte dei sorrisi vezzosi. Che cosa
erano quei capelli acconciati in falsi cirri, e impolverati come di donna
invecchiata nei festini? E quel diadema scintillante in cima della fronte; e
quella penna candida, che innestata alle trecce insieme al velo aereo diffuso
sulle spalle, le ondeggiava superbamente sul capo? Colei dunque era Bianca?»
Giuliano arrossì; sentì
dentro un rimescolamento, come se qualcosa vi si struggesse, qualcosa vi si
ricomponesse; ma gli parve di aver più sciolto il respiro, e potè reggere a
guardare quella donna a lungo.
Il signor Fedele, che
aveva visto il giovane apparire sulla soglia improvviso, mentre che egli era
lungi cent'anni dal pensarvi; tremò che fosse per accadere del torbido: e date
di qua di là colla mente parecchie capate, cercava modo di parare qualche gran
colpo. Non trovò nulla di meglio che avvicinarsi ai musici, e accennare che
suonassero con quella già incominciata l'ultima danza. Lo sposo di Bianca,
sebbene fosse coll'animo in luogo sì alto, da non poter badare a tutte le cose
che avvenivano; tuttavia vide il turbamento del suocero, e fattoglisi vicino a
chiedergli che avesse, potè indovinare che l'apparizione del giovane forastiero
gli metteva addosso la smania. Le occhiate che colui dava alla sua sposa, gli
fecero corrugare la fronte, e fu lì per andargli a domandare che cosa avesse a
vedere in quella signora; ma appunto allora i musici mutarono la gavotta in una
monferrina rapida e clamorosa, che doveva metter fine alla festa.
La monferrina era
stimata per quei tempi una danza forastiera e di gala; ma qualunque si fosse
all'ultima suonata, si soleva mutarla in una ridda, nella quale tutti venivano
travolti come foglie in un vortice, anche coloro che stavano a vedere, giovani
e vecchi. E quasi a mostrare che non si smetteva dalla stanchezza, ognuno
badava a strepitare per sette; dond'avveniva uno scambiarsi di danzatori e di
danzatrici, un passar come razzi da un capo all'altro, un turbine, un
tramestio, da far tremare le volte, e da schiantar i pavimenti.
Giuliano non ebbe tempo
d'accorgersi di quella bufera, che agguantato coi quattro amici, fu trascinato
nel ballo, spinto, rapito da catena a catena; finchè, quasi lo si avesse voluto
schernire, gli fu posta nella sua la mano di Bianca.
Era la prima volta che
quelle due mani si toccavano ma ohimè! in qual guisa, e quanto diversa da
quella vagheggiata dal giovane sventurato! E Bianca come fosse invasa dal genio
d'una baccante, non si avvedeva di lui, se a sentirlo restio, non gli avesse
dato uno sguardo. Parve alla bella donna, di sentirsi una fiamma accesa tra
ciglio e ciglio; e un sorriso arido, amaro, spuntò sulle labra di Giuliano. Il
quale non mosse piede; si tenne ritto e severo: e come l'ultime note dei
clarini scompigliarono quella ridda finale; fuggì frettoloso, scese a
precipizio le scale; e passando vicino a Rocco che subito levandosi gli tenne
dietro, uscì in sul piazzale.
«Signorino - gli disse
Rocco vedendolo uscir di là dentro come ne lo avessero scacciato - se le hanno
fatto qualche torto, sono qua io...
«O Rocco!» - rispose Giuliano,
stringendosi al collo del contadino; e forse avrebbe detto qualcosa, ma un
bisbiglio, un rumore di passi veniva giù dalle scale del palazzo; tutta quella
gente lieta del festino, a coppie, a brigate, si versava nel piazzale; e là
auguri, e risa, e promesse; cortesie infinite che accompagnarono gli sposi sino
alla casa del signor Fedele.
«Va - pensò il giovane
guardando dietro al corteo: - va pure..., tu, le tue nozze, le tue gioie, tutte
cose funebri da scolpirsi sopra i sepolcri bugiardi...! O madre, amor mio, tu
hai detto il vero; questi sono luoghi da fuggirli per sempre!»
Così dicendo si mosse; e
Rocco dietro di lui, andava non più come un servitore devoto, ma come uomo
messo a guardia d'un infelice, cui stesse per dar volta il cervello. Credeva che
il signorino si avviasse per uscire dal borgo, ma stupì vedendolo pigliare per
un vicolo che menava proprio nel mezzo di questo. E tuttavia non osò dirgli che
forse sbagliava la via. Giuliano non la sbagliava punto; ma camminava diritto
per andare in casa a Don Marco, dirgli addio, forse parlargli di quel che aveva
visto, e averne conforto di quelle parole di cui soltanto il buon prete
conosceva il segreto. Giunto a quella porta, agguantò il martello e fu lì per
battere; ma si sentì rimordere di venire a destare un vecchio a quell'ora, e
non lo fece. Intanto gli fuggì un'occhiata in su alla casa del signor Fedele,
ch'era di contro; e vide illuminarsi la finestra di Bianca, quella finestra
ch'egli non aveva mai osato di varcare colla fantasia, dalla tema d'offendere
la fanciulla che vi dormiva dentro. Ed ora...? Ebbe uno schianto di cuore non
mai provato; mai neanche quando aveva inteso che Bianca s'era sposata: lasciò
il martello, e senza dir nulla, ripigliò la via per allontanarsi. E a questa
volta uscì davvero dal borgo, e sarebbe andato innanzi chi sa quanto muto; se
Rocco mosso da grande curiosità, non gli fosse entrato della via che voleva
tenere, e a poco a poco anche del padrone di quella casa, cui aveva voluto
battere poco prima. A tutte le dimande del colono, Giuliano rispondeva breve
come chi ha altro da pensare; ma a quest'ultima il suo cuore si aperse, e quasi
provando un gran sollievo a pronunciare il nome di cui Rocco chiedeva, rispose:
«Oh... quella è la casa
d'un giusto... è la casa di Don Marco...!
«Don Marco! Lo conosco,
è un santo che ha fatto tanto bene alla mia Tecla.
«A Tecla? - disse
Giuliano mostrandosi ora voglioso di udire i discorsi di Rocco.
«Appunto, - rispose
questi - una sera di questa state, quasi mi vergogno a dirlo, essa ci era
sparita di casa...: uno spavento! si figuri...! e chi la voleva morta, chi
rapita dagli Alemanni, chi annegata... ma coll'aiuto di Dio la trovammo laggiù
al passo del guai, proprio a piè della croce, sa...?
«E dove voleva andare?
«Ma...! quel giorno il pievano
era venuto a dire a sua mamma, che ella era stata messa in prigione a Torino.
«E Tecla che
c'entrava...?
«Ma... voleva venire a
Torino a liberare lei: teste piccine di donne...!
«Narratemi ogni cosa,
Rocco; - disse Giuliano pigliando lena - perchè non mi avete mai detto questi
fatti...?
«Ma... » - rispose
Rocco; e cominciò la storia di quella notte, che se non era Don Marco poteva
costare a Tecla assai più lacrime che essa non aveva versate. Giuliano
ascoltava camminando a capo chino, ora tocco nel vivo del cuore dalla pietà;
ora sdegnato, come quando udì che Don Apollinare voleva che Tecla fosse
stregata. E così pei sentieri più foresti, un tratto in riva alla Bormida, un
tratto in mezzo ai campi, cansando le pattuglie Alemanne; s'affrettarono verso
il confine.
In un punto dove quattro
mura mozze paiono ruine, e invece sono d'una cappella rimasta costrutta a
mezzo, forse perchè fu chiarito che la Madonna, cui si voleva dedicare, e che
si diceva comparsa in quel sito, non era stata che qualche villanella vestita
da festa; il giovane si fermò, e voltosi a Rocco, parlò in guisa che a costui
parve di non aver più a fare col padrone, ma con un figliuolo,
«Rocco, fa giorno e
potete tornare. Dite a mia madre che io sono uscito dalla terra libero,
tranquillo, e desideroso di trovar presto quella casetta, nella quale vivremo
con essa tutta la vita. Direte a Marta che abbia cura di mia madre; e voi se mi
volete bene, andate a Santa G...: riconducete subito la vostra Tecla a casa;
meglio che sotto i vostri occhi, non istarà in niun luogo. Ve la raccomando...
ma tanto...»
E data una stretta di
mano e alcune monete al pover'uomo, lo piantò sulla via e tirò innanzi.
Rocco, strologando su
quel pensiero che il signorino si pigliava di Tecla, stette a guardarlo sin che
gli uscì di vista, poi tornò addietro. Di là ad un'ora ripassava per C..., dove
la gente era già fuori per le vie, con quella gaiezza mattutina che i giorni di
festa fa belli i villaggi. Le donne scopavano dinanzi alle case; gli uomini
s'affacciavano allacciandosi al collo la camicia di bucato, e chiedendosi da
finestra a finestra, a qual'ora fosse finito il ballo degli sposi; su certi
balconi le madri pettinavano i bimbi per mandarli netti a messa; e su certi
altri le fanciulle spiccavano garofani dal vaso, per farne un mazzolino al
damo.
Il buon uomo vide queste
cose, traversando il borgo, e di là dal ponte trovò che gli Alemanni in
sull'armi, ascoltavano devotamente la messa; celebrata sopra un poggiolino in
mezzo ad un prato. Egli avrebbe voluto fermarsi a sentirla; ma oltre che la era
già innanzi di molto, detta così all'aperto gli parve cosa troppo da soldati; e
tirò diritto col proposito di udirne una al Convento dei Minori Osservanti,
dove per andare a Santa G.... a pigliar la figliuola, aveva a passare.
Colà era giorno di
grandi preghiere e di grande solazzo, in onore della Madonna degli Angeli; e se
dall'architrave della porta maggiore della chiesa, pendeva la tabella
dell'indulgenza plenaria; nella selva e nei prati intorno v'erano ridotti e
baracche da potervi mangiare, cioncare, fare alle pugna, dopo aver data una
ripulita all'anima, con un po' di perdonanza e un po' d'elemosina fatta al
convento.
La via che menava a
quella volta, era tutta una processione; e più s'avvicinava più uno stupiva
delle numerose brigate, che facevano pei campi e pei colli un pittoresco
vedere. Rocco si lodò d'essere partito da casa vestito da festa; perchè quanti
incontrava avevano indosso i meglio panni del loro vestiario. Le donne giovani
o vecchie, se maritate portavano la veste di sposa; che allora, bell'usanza,
serbavano per le festività di tutta la vita: le zitelle, quasi tutte,
costumavano gonne d'indiana azzurra carica, che davano un po' più sotto della
mezza gamba; e questa si vedeva chiusa in calzette grigie, o il piede calzato
di scarponcini, cui niuno badava se fossero o no grossolani, perchè le
fanciulle s'aveva a guardarle modestamente in viso. Un casacchino di tela
casereccia stretto alla vita, ornato alle ascelle di crespe o sgonfietti; un
fazzoletto in capo, rosso o giallo; un grembialetto anch'esso d'uno di questi
colori; era tutto il loro vestire. Vezzi non usavano portarne, oltre un par di
campanelline agli orecchi; contente delle perle che avevano in bocca, e delle
sincere e copiose capigliature. Belle su tutte erano le boscaiuole della riva
destra della Bormida, che si vedevano qua e là guadare il torrente ai varchi
più agevoli, per andare alla sagra. Erano e sono tuttavia il miglior sangue di
quei monti; bianche come latte, e ben colorite, spigliate di forme, e in tutto
da non parere gente povera e mal pasciuta. Ma le sono mattiniere, e visitando
le selve a palmo a palmo, e non per diletto; trovano forse il fiore misterioso
di cui si tingono, come nessun pittore saprebbe fare alle donne delle città. Degli
uomini poi, non accade dire quali fossero le fogge dei loro panni; ma si vuol
lodare chi fu primo a smettere quei codini, quei giubboncelli, quelle brache
corte: sebbene queste sarebbero da ritornarsi un tratto in onore, tanto che la
gioventù badasse a crescere a modo e men molle, per non andare derisa di troppo
povere polpe.
Tanta adunque era quel
giorno la folla, che la sagra pareva un giubileo; e sott'essi i pergolati del
convento, già sin dal mattino era una briga di mercanti d'ogni generazione, i
quali si davano attorno a porre i loro banchi, bisticciandosi alla buona tra
loro. Nel piazzale della chiesa, giocolieri, storiai, vinai, contendevano per
un posticino; ed il cerretano che ogni anno soleva venirvi, già faceva gente
strombazzando di su un tavolino, avuto a presto dal frate dentista del
convento, il quale si mostrava pronto a fargli servizio per non parere
invidioso. Più in là, dietro l'edificio, nel prato che sembrava fatto a posta,
avevano formata una sorta di lizza, e ad un palo pendevano guanti e palle di
cuoio di parecchie grandezze, segni di sfida tra i giuocatori dei contorni.
Poco discosto, su d'un'impalcatura, all'ombra d'una quercia, i suonatori d'un
ballo campestre cominciavano ad accordare gli strumenti. In fondo al prato poi
sorgevano le baracche, formate di lenzuola e di frasche; e gli osti stavano a
certi fornelletti cuocendo i polli, che le loro fantesche sbuzzavano, pelavano,
abbrustiavano, frettolose e tuttavia bestemmiate per pigre. Fra tanta folla,
che cresceva ognor più, i frati andavano colle labbra e colle tabacchiere
aperte a dar pizzicate e sorrisi: per taluno avevano parolette d'invito a farsi
vedere in cucina o in refettorio, e il fortunato era di certo un benefattore
campagnuolo; o tale su cui la frateria, aveva messo gli occhi e le speranze.
Rocco fattosi via fino
alla porta della chiesa potè entrare e udir la messa. E pagato così il suo
debito al Signore, tornò fuori colle mani nelle saccoccie delle brache,
tastando le monete avute da Giuliano. Accortosi d'aver fame, tirò il conto
delle miglia che gli sarebbe bisognato fare per giungere a Santa G.... e non
gli tornando bene al ventre nè alle gambe, s'avviò passo passo ad una baracca.
Ivi, si davano spasso
bevendo e chiacchierando parecchi avventori; i quali dopo aver mangiato non
facevano segno nè di voler pagare nè d'andarsene. L'oste non osava dir loro
nulla, essendo essi miliziotti e soldati. I primi (armati di lunghi schioppi,
che alle canne e ai fregi apparivano di fattura spagnuola, raccattati forse sui
campi di battaglia di quelle parti, meglio che mezzo secolo prima); erano stati
di quello stormo levatosi in armi il maggio di quell'anno. E avendo pigliato
diletto di vivere randagi, si soffriva dal magistrato che andassero armati;
perchè bisognando, facevano ufficio di guide agli Alemanni, e campavano di
questa professione e di picciole rapine. I soldati poi erano gente dei vecchi
reggimenti Sardi, pronti di maniere e soverchiatori, ma rispettabili par ferite
delle quali portavano i segni ancor freschi, e stavano a guarirsi nel borgo.
Essi avevano combattuto contro i Francesi più d'una volta, sull'Alpi marittime;
adesso colle gomita sulla mensa bevevano alla salute dei vivi e alla memoria
dei morti; giurando clamorosamente sugli scapolari che avevano di sotto i panni,
molli di sudore e anneriti. E colle dita intrise di vino, descrivevano sulla
tovaglia i campi e le ordinanze in cui avevano combattuto. A udirli, questo era
il colle di Raus, quest'altro quello di Milleforche; qui il capitano Zin co'
suoi cannoni, aveva mandati i sanculotti ruzzoloni giù pei dirupi come sacca di
carbone; là era caduto il capitano Maulandi, venerato da quei valorosi che
l'avevano veduto morire, e ne cantavano i versi scritti da lui sulle montagne
ove cadde, poeta e soldato. S'accendevano in viso parlando di lui, come si sarà
acceso il Botta scrivendone le lodi in una mesta pagina della sua storia:
rammentavano le rive del Tanarello e della Saccarda, di Colle Ardente e di
Saorgio, i vili e i traditori: e qui uno di que' soldati trovandosi ritto nella
foga del dire, data una vigorosa palmata sulla mensa, e guardando a cera
prepotente quanti erano nella baracca; giurava che il Re era tradito, e che se
i Francesi trovavano la via men aspra dell'anno prima, sebbene le valli fossero
zeppe d'Alemanni; accadeva perchè da Torino insino all'ultimo villaggio del
regno, v'era in ogni casa un traditore.
«Lo giuro! - sclamava
egli invelenito su quell'idea, e si rimboccava, dicendo, la manica fino
all'ascella, scoprendo un viluppo di muscoli poderosi: - questo braccio fu
ferito, ma è forte ancora, e se mi capitasse innanzi un Giacobino lo spaccerei
con questo, fosse mio padre. Chi è quà dentro che non vuol gridare viva il Re?
«Evviva il Re! -
urlarono quaranta o cinquanta gole mezzo ingozzate di lasagne: e all'urlo tenne
dietro un rompere di tossi, di sternuti, di singhiozzi per contrazione; mentre
il soldato sorridendo a tutti, chiamando tutti amici, andava attorno toccando
col suo gli altrui boccali. Giunto a Rocco, che mangiava rincantucciato in
fondo alla baracca, e si sentiva tremare il cuore; il soldato gli si piantò
dinanzi: «E voi - gli disse - che fate costì solo, che mi parete un volpone
sotto una cesta? venite qua in buona compagnia!» - E pigliato il piatto, i
pani, il boccale del poveretto; lo tirò a quella mensa dov'egli e i suoi
facevano quel tanto baccano. Là Rocco dovè rimettersi in loro; mangiò e bevve
come essi vollero; chiese licenza d'andarsene parecchie volte, ma gli tocco
fare più di mezzogiorno; ora in cui potè uscire libero, pagando lo scotto di
quei soldati, e ancora gli parve una grazia.
Quando fu fuori di quel
passo, trovò che la folla era divenuta così fitta, da non potersi muovere, uno
che avesse fretta, a suo agio. Il ballo campestre ferveva sotto la sferza del
sole, e le foresi danzando coi loro dami gighe e gavotte, si struggevano in
sudore. Ma al caldo ci badavano punto. E bisognava vedere quei garzoni, come
finita una danza, facevano a chi fosse più spedito a ripigliar il posto sullo
spazzo, affollando il festaiuolo, empiendogli di spiccioli le mani. Ed egli
pigliava e ringraziava per sè e pel convento, cui doveva pagare la decima; poi
diceva ai musici che tornassero a suonare, e significava ammiccando che egli
voleva suonate corte e frequenti.
La vista di quel ballo
era la cosa più ghiotta della sagra, e i signori vi si disfacevano dalle risa.
Essi vi adocchiavano le belle campagnuole, imparando a conoscere i loro amori.
Onde accadeva sovente, che dopo quella e altre feste compagne, qualcuno di essi
si mettesse di mezzo a far parentadi, tra giovani veduti appassionarsi in
quegli strani convegni: e allora il più delle volte, virtù addio!
Mosso da curiosità,
Rocco volle avvicinarsi a quello spettacolo; e a forza di gomiti fattosi un po'
di passo, ecco a quale incontro inatteso egli riusciva.
Il zio di Tecla, che non
era giunto a cavare a questa quattro parole, in ventiquatt'ore dacchè l'aveva
in casa; messosi in testa di darle un po' di svago, s'era accompagnato con essa
ad alcuni vicini, uomini e donne; capitando al convento, forse un po' prima,
forse un po' dopo di Rocco. Fatte le divozioni e pigliati anch'essi i ristori,
in una delle tante baracche; i montanini avevano finito per mescolarsi alla
folla che faceva corona al ballo; e alcune giovinette della comitiva presero a
danzare, mentre alcune altre, modeste e quasi mortificate, stavano a vedere; e
tra queste Tecla.
Essa si teneva in mezzo
alla calca, colle mani alla vita, una sull'altra, guardando co' suoi grandi
occhi l'agitarsi delle danzatrici; e si sarebbe detto che ne provasse
compassione. Ed era là forse da mezz'ora, stretta, pigiata; ma non si avvedeva
di non aver più allato nè le compagne, nè il zio col quale era venuta in quel
luogo. E neppure aveva badato al mutar di piedi che le era bisognato fare,
spinta lentamente ora indietro, ora di lato; sicchè discostata a poco a poco
anche dai danzatori, non ne scopriva più che le teste. Ma badavano bene ad essa
due giovani signori del borgo di C..., i quali, avendole posti gli occhi
addosso sin da principio, s'ingegnavano a quel modo, per trarla fuori della sua
compagnia; di certo coi disegni che sanno fare i vili fortunati, che un tempo
della loro vita spendono a svergognar donne; un altro tempo a rifare gli averi
ponendo le mani nella roba altrui; e vecchi finiscono in chiesa a biascicare i
salmi penitenziali. I due avevano la fanciulla in mezzo, e sebbene giovani, un
pittore avrebbe potuto fare dei loro visi i due vecchioni cotticci di Susanna.
Già si rallegravano colle occhiate del buon termine cui speravano condurre chi
sa che ribalderia; quando s'udì un grido tra la folla, un grido come d'uomo che
tastandosi sotto i panni si trovi rubato.
«Tecla! Tecla! - e un
volgere di teste, un mareggiare della gente, un moto di braccia tenne dietro a
quel grido; percossa dal quale, Tecla si riscosse, e vedendosi allato i due
sconosciuti, pieni gli occhi di non sapeva qual fuoco, si sentì al viso le
vampe, e potè appena rispondere; «Son qui!»
Colui che l'aveva
chiamata era lo zio, accortosi improvvisamente di non averla più vicina; ma
primo a romperle attorno la calca fu Rocco, il quale capitando appunto, aveva
riconosciuta la voce del cognato e quella della figliuola.
«Largo! largo! - gridava
egli lavorando di braccia; - cognato, Tecla son qua io! - E si mostrava di
subito così indraghito che guai a chi si fosse avvisato di rattenerlo; guai a
chi aveva fatto male alla fanciulla; guai a quei due, che non la stringevano
più, ma che non si poterono cansare, quando egli per disopra le loro spalle
potè porle la sua larga mano sul capo, gridando: «è mia!»
«O chi ve la vuol
mangiare? - sclamò uno dei giovani dalle male voglie, vedendosi guardato da
Rocco a squarciasacco.
«So dir che sì! -
rispose Rocco, cui l'istinto paterno ammoniva del vero; ma ravvisando colui per
uno dei quattro, che la notte innanzi, fuggendo dalla cella del padre Anacleto,
s'erano imbattuti in lui e nel signorino: «lei, - soggiunse - lei, lo so che
cosa è buona a fare... ma...! - e si morse la lingua, perchè il giovane era di
casato da fargli sudar le tempia. Baciò come si suol dire il bastone; e gli
parve un bel che, poter uscire di quel passo colla figliuola.
La tirava così per mano
fuori della folla, pallida che metteva compassione; e il cognato veniva dietro
trovando scuse, ed egli a rimproverarlo con aspre parole.
Bisticciandosi, andavano
verso il convento; quando a stornarli nella loro lite, videro la gente sul
piazzale della chiesa far largo, e udirono sussurrare; «gli sposi! gli sposi!»
Era Bianca, era l'Alemanno, con parte dell'allegra accompagnatura del giorno
innanzi; che avendo desinato nella palazzina del signor Fedele, venivano adesso
strascicando in quel luogo, la festa nuziale.
Tecla vide, e intelletto
d'amore le fece indovinare chi fosse quella donna felice. Osò guardarla in
viso, e le parve bella, ma non più della bellezza di cui aveva inteso parlare,
tra la signora Maddalena e don Marco. Ne gioiva la povera giovinetta, e in
quella un frate fattosi dal portichetto del convento ad incontrare la comitiva,
salutò la sposa con dimestichezza, e fu da tutti salutato reverentemente:
«padre Anacleto!»
Padre Anacleto! Rocco si
tastò se era vivo, vedendo gaio quel frate, udito a predicare in D..., e che di
certo doveva essere l'istesso, di cui aveva inteso la storia dai quattro capi
scarichi la notte innanzi... Ma più fu turbato quando vide sopraggiungere di
quei quattro, i due che poco prima s'erano messi ai panni della sua figliuola;
e tutti inchini e rispetti a quella dama, avere da essa e dal frate strette di
mano e sorrisi; come gente dabbene. A quei portamenti non potendo più reggere
fu a un pelo di correre dal padre Anacleto, gridando:
«Oh che razza di frate è
ella mai, che tutti i cattivi cristiani che sono al mondo gli ha per amici?»
Senonchè in un uomo del
popolo com'egli era, gli sdegni generosi nascevano sì, ma subito si
rincacciavano in cuore; e Rocco rattenendosi anche questa volta, tirò via con
Tecla, accommiatandosi dal cognato, dolente di vedersela tolta in quella
dispettosa maniera.
La fanciulla camminava
dietro del padre, paurosa d'essere ricondotta a casa, di spiacere alla signora
Maddalena, e d'incontrarvi Giuliano; di cui non sapeva che era partito; e
Rocco, pensando a quei giovani, alla propria collera della notte innanzi, al
fatto del padre Anacleto; combatteva con un dubbio che sulla santità dei
sacerdoti, gli voleva entrare nel cuore; nè per quanto fu lunga la via gli
venne detta parola.
Così giunsero a D...,
nell'ora in cui la signora Maddalena aveva costume di sedere in sala, al
balcone che guardava dalla banda ond'essi arrivavano; perchè vi si godeva una
bella vista, e il sole non vi poteva, e un venticello che pareva mosso
dall'acqua del torrente, vi recava una deliziosa freschezza.
Essa stava là appunto,
donde non si era mossa in tutto il giorno, piena ancora dello sgomento,
cagionatole dagli Alemanni la notte innanzi. E vedendo i due apparire, si levò
coll'anima tutta negli occhi.
«Ha passato il confine
che appena era l'alba - disse Rocco arrivando sul piazzale.
«Iddio lodato! - sclamò la
signora; e togliendosi dal balcone venne nell'atrio a incontrare il colono, che
si fece passare la figliuola dinanzi.
«E per via non aveste
incontri? - chiese essa, tirandosi Tecla in casa col padre.
Egli, avvicinando nella
sua mente la fanciulla e Giuliano, per le raccomandazioni avute dal giovane,
proseguiva: «Passò franco come una doppia di Spagna; e mi disse che fra pochi
giorni avrà trovata la casetta: e prega lei di andarlo a raggiungere
subito.....»
La signora ruppe la
parola in bocca al pover'uomo con un sorriso; perchè a udir rammentato quel suo
desiderio d'una casetta in riva al mare, fece come l'uccello che migra, se
giunto a scoprire la terra del suo riposo, misuri le forze, e non le trovi da
poterla arrivare. Ma non aggiunse parola a quel mesto sorriso, da mostrare la
speranza così languita: bensì voltasi a Tecla:
«O Tecla, - diceva -
dunque tu sei tornata...? Noi ripiglieremo le nostre usanze, le nostre letture,
le nostre penne... nevvero? Perdonami sai, se t'ho fatta andare a Santa G...;
hai fatto bene a tornare, Marta ci darà da cena, tu rimani qua.... Rocco, voi e
vostra moglie verrete a mangiare con me un boccone, e mi racconterete
tutto....»
Tecla sempre colla mano
nelle mani di lei si sentiva tremare il cuore, e ringraziava il cielo che Giuliano
non fosse a casa.
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