I
AL «PONTE»
Una brezzolina diaccia
gonfiava i camiciotti dei muratori riuniti su quel crocicchio del
corso di Porta Garibaldi, detto da essi, per antica tradizionale
abitudine, «il Ponte».
Era l'ultimo lunedì di
marzo, e la temperatura si manteneva frigida specialmente in quelle
prime ore del giorno.
Gli uomini fumavano con le
loro pipe di viola, di terracotta o di gesso; o masticavano l'orrida
cicca, camminando in su e in giù per non intirizzirsi. I
ragazzi tentavano di fare un pochino il chiasso, ma senza lena e
ancora mezzo addormentati.
La schiera aumentava di minuto
in minuto. Muratori, manuali, badilanti, garzoncelli, arrivavano da
tutte le parti, dal fondo di Porta Vercellina e di Porta Vittoria,
più ancora dal popoloso Borgo degli Ortolani e dalle campagne
circostanti.
Venivano al «Ponte»
per una usanza antica, per mettersi in mostra, come schiavi al
mercato. Non mancavano se non quelli che avevano il lavoro fissato
per parecchio tempo; gli addetti a qualche capomastro, e quelli che
sogliono fare la lunediana, vale a dire che, avendo troppo bevuto la
domenica, restano in casa il dì appresso a smaltire il vino, o
continuano a gozzovigliare.
I convenuti aspettavano
l'arrivo dei capimastri e accollatari, che sarebbero arrivati a
momenti per fare la loro scelta. Si potevano notare le faccie
tranquille dei bravi lavoratori, sicuri del proprio valore; gli
sguardi vagamente smarriti degli sfiduciati resi timidi dalla
sventura; il sorriso protervo o fatuo dei viziosi semicoscienti e
degli inetti tuttavia baldanzosi. In complesso però tutti
speravano di andare a posto, perchè del lavoro ce n'era per
tutti. Oltre il quartiere del Lazzaretto, dove le case venivano su
come soffiate, si fabbricava un po' da per tutto, e si parlava già
di nuovi quartieri da ricostruire o da creare di sana pianta.
I muratori dunque potevano
stare allegri. Eppure, allegri non erano. Molti si lagnavano delle
condizioni insostenibili in cui li mettevano i capimastri. Non solo
erano pagati poco e dovevano lavorar molto, ma i disastri avvenivano
con una spaventevole frequenza, per il cattivo materiale impiegato,
per la fretta eccessiva e per tutto il sistema della speculazione
esagerata che ogni cosa sacrifica alla minore spesa e al maggior
guadagno.
- Mangiar male e rischiar la
vita a tutte le ore, ecco la nostra sorte! - diceva uno dei più
corrucciati.
Un vecchio dai capelli
bianchi, vestito poverissimamente, sebbene fosse un vero maestro
dell'arte sua, uno di quelli a cui si affidano i lavori più
difficili, sospirò a quelle parole.
- Ah! povero Berini! - esclamò
un giovinotto che lo conosceva, additandolo agli altri. - Povero
Berini, ha ragione di sospirare. Ha perso un figliuolo l'anno
passato, quando rovinò il primo piano di quella casa a Porta
Venezia: la casa del Brandi, ve ne ricordate?
- Eh! eh! - risposero
parecchie voci in coro, - altro che ricordarcene.
- Ebbene, il figliuolo di
questo pover'uomo ci lavorava là dentro e rimase sotto!...
Bisognava vedere che bellezza di giovine. Povero Berini, ha ragione
di sospirare.
Il vecchio ebbe negli occhi un
lampo di gratitudine per quel giovinotto che parlava con tanto
affetto del suo figliuolo morto; poi soggiunse asciugandosi una
lagrima:
-... E m'ha lasciato la vedova
con sei piccinini... E non hanno che me!...
Udendo queste parole del
vecchio, molti gli si accostarono; si formò intorno a lui un
circolo di amici e di curiosi.
Egli parlava adagio, con voce
fioca. Aveva finito di lavorare il sabato, alla casa di campagna di
un signore, dalle parti di Sesto; un bravo signore, che faceva a meno
dei capimastri, intendendosela addirittura coi maestri muratori. Oh!
se ce ne fossero stati molti di così ben disposti, la sarebbe
andata meglio!
Tutti approvarono.
Sicuro!... Se i signori che
facevano fabbricare si fossero intesi direttamente con loro, senza
ricorrere ai capimastri, i signori avrebbero speso meno e i poveri
muratori non avrebbero patite tante angherie.
- Ma non si fidano di noi! -
gridò con voce rauca un uomo ancora giovine, ma già
segnato in volto dai patimenti e dagli stravizi e il cui alito
tradiva l'acquavite. - I signori, ah! ah! preferiscono spendere di
più e essere imbrogliati in piena regola, pur di trattare con
impresari e capimastri, perchè questi sono borghesi, non
popolaccio come noi.
- Oh, Tamburini! - esclamò
il giovinotto che aveva parlato prima, ed era un certo Zanforgnino,
del Mantovano. – Come mai tu sei qua stamattina?
- Perchè non dovrei
esserci?
- Perchè è
lunedì e tu sei un gran devoto di questo santo.
L'osservazione dello
Zanforgnino provocò una risata. Il Tamburini fece una
mossaccia, ma finì col ridere anche lui.
Il muratore anziano, che
mostrava sempre un grande buon senso, disse:
- Non è perchè i
capimastri sono borghesi che i signori preferiscono di trattare con
loro, ma perchè in questo modo hanno, o credono di avere, meno
fastidi e una garanzia...
- Sì, bella garanzia! -
gridò uno.
Ma fu interrotto a sua volta.
Arrivavano i capimastri. I
capannelli si scioglievano; nessuno pensava più a discutere,
nella preoccupazione di trovar lavoro e di fare un discreto
contratto. Le cose si sbrigavano assai rapidamente.
Ogni capomastro aveva, oltre
alla propria maestranza stabile, un certo numero di operai ben
conosciuti per averli fatti lavorare altre volte; e per lunga
esperienza sapeva generalmente distinguere i lavoratori intelligenti
e solidi dai fiacchi e abbrutiti.
D'altra parte, la grande lotta
per le tariffe e le ore di lavoro era appena all'esordio, né
esisteva ancora la Società Cooperativa, fondata soltanto
nell'aprile del 1887 da tredici muratori. I muratori erano dunque
senza difesa e i contratti si stringevano quasi sempre col vantaggio
del più forte; sul mutuo consenso, come usavano dire, quel
mutuo consenso che può sussistere tra un capitalista e un
branco di affamati. Intanto, essendo giorno fatto, la città si
svegliava. Una processione interminabile di operai d'ogni genere
traversava il Corso. Erano uomini e donne d'ogni età, e molti
ragazzi sotto ai quindici anni. Venivano dai quartieri lontani, dai
sobborghi, dalle vecchie case corrose e ammuffite nelle viuzze
oscure; andavano a guadagnarsi il pane della giornata negli
stabilimenti industriali, o nelle botteghe, o nelle famiglie.
Passavano frotte di ragazze
vestite in percallo di colori vivi, a capo scoperto, o con uno
scialletto di lana fatto a maglia, ben pettinate, svelte, sorridenti,
belloccie, spesso provocanti e pronte a ribattere lo scherzo salace
dei giovinotti. Gli uomini avevano quasi tutti la pipa, o un
mozzicone di sigaro, e molti entravano dal liquorista a berne un
bicchierino per scaldarsi lo stomaco. Anche certe donne bevevano.
In mezzo alla massa dei
giovani apparivano di tratto in tratto scialbe figure di donne
invecchiate prima del tempo; di uomini consumati dalle fatiche, dei
quali non si sarebbe potuto dire da dove sbucassero, tanto parevano
strani; né che mestiere facessero. Camminavano adagio adagio,
strascicando i piedi; la testa bassa, malcoperta da un cappello
rudimentale, il collo avvolto in un cencio di fazzoletto annodato
sotto il mento. Passavano dei fanciulli di dieci o dodici anni, non
abbastanza cresciuti per la loro età, magri, pallidi, già
mezzo rovinati da malattie ereditarie, dall'aria viziata degli
stambugi dove dormivano, dal cattivo nutrimento e dal lavoro
eccessivo, o peggio. E tutte, o quasi tutte, queste creature così
diverse e così uniformi, queste macchine viventi, questi
nutritori male nutriti del grande movimento industriale, della grande
attività civile, portavano impresso nel volto, come un marchio
incancellabile, il disamore e il fastidio del lavoro a cui si
avviavano, come un gregge guidato dalla fame e dall'abitudine: perchè
quasi tutti andavano a un lavoro monotono, ridotto a semplice
movimento meccanico, del quale soltanto pochi intendevano la ragione
e lo scopo: o ad un lavoro che mai li avrebbe fatti avanzare né
migliorare nel loro stato, e alla cui crescita rimanevano
necessariamente indifferenti.
Un osservatore avrebbe potuto
riconoscere dalla espressione dell'occhio, dal portamanto, da tanti
piccoli indizi, quei fortunati ai quali il mestiere scelto, od altre
favorevoli circostanze, concedevano un interessamento intellettuale o
finanziario all'opera cui davano il loro tempo e le loro forze.
I muratori avevano parecchie
conoscenze e taluni anche dei parenti nelle file dei lavoratori
condannati a fare tutte le mattine la stessa strada. Tra le due
schiere correvano cenni, saluti, sorrisi.
Due bambinette che si recavano
a un negozio di bianche ria, tenendosi per la mano, due belle
creature dai capelli castagni, dai grandi occhi azzurri nei volti
rosei e delicati, inviarono da lontano un sorriso di conforto al
vecchio Berini, che le ricambiò con un cenno pieno di
malinconia e di tenerezza.
- Le mie nipotine, - disse,
indicandole ad un muratore meno che trentenne e di aspetto molto
simpatico, che si era messo vicino a lui. - Così piccinine
lavorano bene e guadagnano una lira la settimana.
Il «Ponte» si
spopolava. I muratori impegnati si allontanavano, gettando un saluto
o un augurio a quelli che rimanevano.
Una crescente inquietudine
agitava il Berini.
- Mi vedono vecchio, coi
capelli bianchi..., hanno paura che non lavori abbastanza!...
Un profondo sospiro gli gonfiò
il petto.
- È ancora presto, -
mormorò l'altro: - lei può sperare ancora; io no!
- Perchè?
- Eh! - fece il giovine con un
sorriso amaro. - È un mese che vengo qua tutte le mattine, e
ormai mi conoscono e mi sfuggono.
- Ma perchè? Cosa ha
fatto?...
- Sono stato in prigione.
Il Berini trasalì e
fissò con una espressione di angoscia il viso pallido del suo
giovine compagno.
Questi crollò la testa.
Non doveva prenderlo per un farabutto! Era stato in prigione, sì,
diciotto mesi, per aver graffiata la pelle a un vigliacco che se
l'era cavata con quindici giorni di letto; mentre lui portava ancora
la cicatrice della ferita ricevuta.
E, arrovesciata la manica del
camiciotto, mostrò sul braccio destro, alcuni centimetri sopra
il polso, una cicatrice tuttavia rossa. Ma! c'erano entrate due
guardie che lo pedinavano da un certo tempo come socialista e che lui
nel tafferuglio aveva picchiate un pochino. Così, l'altro, un
garzone dell'oste che doveva essere una spia, fu carezzato e
compianto; lui, invece, accusato di provocazione e giudicato nel modo
più severo. Se avessero potuto massacrarlo sarebbero stati
contenti...
- Ehi! Bitossi! - chiamò
il Cattaneo avvicinandosi insieme al Tamburini. - Hai visto quanti ne
ha presi il Randani?...
- Quella faccia di boia
laggiù?...
- Sì, quello, quello. È
uno dei maneggioni che hanno fatto il gruzzolo al tempo dei grandi
lavori nel centro di Milano. Io me ne ricordo benissimo perchè
era già qualche anno che portavo la secchia. E meglio di me se
ne deve ricordare il nostro Berini, vero eh?
Il vecchio abbassò il
capo in segno d'affermazione. Se ne ricordava fin troppo. Fortuna,
che a lui non avevano mai osato imporre di far certe figure, perchè
lo conoscevano. Ma ce n'erano di quelli, notati e pagati come
lavoranti a una qualche grande fabbrica in piazza del Duomo, che non
vi avevano neppure toccata una pietra. Avrebbe potuto nominarne
parecchi. Entravano la mattina, davano il nome e uscivano dalla parte
opposta per andar a lavorare laggiù a Porta Vittoria, a Porta
Romana, o sa il diavolo dove, per conto del capomastro A, o del
capomastro B...
- Perdio! - gridò il
Cattaneo interrompendolo.
- Io andavo appunto in Porta
Vittoria giù dal fosso, per quello lì! Ma non solo i
lavoranti facevano quella strada; bisognava vedere i carichi di
mattoni, di legname, di tutto, che, entrati in una fabbrica da una
parte, uscivano dall'altra... non ci entravano neppure e figuravano
soltanto nei conti.
Il Tamburini raccontò a
sua volta di aver sentito, sere addietro, il capomastro Riva vantarsi
apertamente di non avere speso un centesimo per la sua bella casa
costruita in quel tempo, e si giustificava dicendo: «Rubavan
tutti: sarebbe stata una sciocchezza a non approfittarsene».
Un altro muratore entrò
nel discorso. Era un certo Ripamonti, piccolino, sulla cinquantina,
un po' storto.
- Riva?... È quello
delle lastre di rame?
- Che lastre?
- Ma!... saprà lui.
E il piccolino, che aveva un
tic comicissimo all'angolo sinistro della bocca ed era quasi sempre a
spasso, si mise a raccontare con molti lazzi l'astuzia di un
capomastro, il quale dovendo coprire con lastre di rame la cupola di
una chiesa, tirò partito di un furioso uragano notturno, per
far credere ai signori della fabbriceria, che il vento gli aveva
portate via le lastre appena posate sulla cupola. Mentre invece erano
al sicuro... nella sua cantina.
Una risata scoppiò
fragorosa, propagandosi di bocca in bocca, fino all'ultimo
portasecchie che rideva senza sapere di che.
Erano circa una cinquantina
fra muratori, manovali e garzoni, oramai sfiduciati di trovar lavoro
per quella settimana, ma inchiodati lì da un'ultima, ostinata
speranza; e tutti aggruppati al Berini, al Bitossi e al Cattaneo,
operai istruiti e di una certa autorità.
- Qui si ride! - esclamò
una voce sonora e grassa di uomo sano e contento. - Qui si ride, e
gente allegra il ciel l'aiuta!
Tutti si voltarono verso la
parte donde la voce veniva, e un uomo di bassa statura, ma tarchiato
e nel vigore degli anni, si mostrò ai loro sguardi con un
largo sorriso sulle labbra carnose, ornate da un grosso paio di baffi
biondastri.
- Il capomastro Piloni! Il sor
Piloni... - mormorarono gli operai salutandolo.
Era una strana figura Lorenzo
Piloni, così corto e grosso, con una giacchettona di panno,
sempre sbottonata, sur un gilè a grandi fiori, e i larghi
calzoni rigati color caffè e latte; con un cappellaccio da
bandito che gli ombreggiava la faccia rubizza, dominata da un grosso
naso, in cima al quale parevano toccarsi due occhietti grigi,
beffardi.
- Questo è una
volpaccia! - ghignò il Tamburini dando nel gomito a Bitossi.
Berini, rianimato da un soffio
di speranza, alzò la testa e guardò il capomastro negli
occhi. Lo conosceva anche lui: aveva lavorato una volta sotto i suoi
ordini in qualità d'assistente... Il Piloni allora non
fabbricava per proprio conto ed era sorvegliato da un bravo
ingegnere. Tuttavia si diceva che ne facesse...
- Ma io non ho visto niente -
concludeva Berini ripigliandosi, disposto a chiudere un occhio per la
necessità in cui si trovava di accettare qualunque condizione,
pur di non rimanere a spasso neanche una giornata.
Il Piloni, intanto, era
entrato nel circolo dei lavoratori e andava discorrendo
famigliarmente con questo e con quello. Con raffinata astuzia egli
nascondeva l'istinto di belva rapace sotto un'apparenza bonaria e
piacevolona. Per tal modo egli riusciva più facilmente nei
suoi intenti. Nel caso presente nulla di più semplice per lui
del convincere quei poveri diavoli, che oramai non avrebbero trovato
di meglio quella settimana e dovevano perciò accontentarsi di
un prezzo ridotto. Così avendo ottenuto ancora un ribasso su
quelle mercedi già così scarse, egli andava promettendo
più larghi compensi per l'avvenire, felicitandosi in cuor suo
del buon affare che faceva.
Quando si trovò di
fronte a Francesco Bitossi, il quale aspettava in silenzio, lo
squadrò attentamente.
- È un pezzo che ti
vedo a spasso!... Come mai, con quell'aria di lavoratore che sa il
fatto suo e con quelle spalle robuste, non trovi da metterti a posto?
Bitossi sostenne con faccia
sicura e fredda l'impertinente esame del suo superiore; ci era
avvezzo. Finalmente, mal reprimendo il sorriso sarcastico che gli
errava sulle labbra, rispose:
- Esco di prigione, come lei
sa.
- Ah! sì, sì...
Ma com'è stato? Non ricordo bene!
- Ricorda il mio nome però?
- Mi pare... Aspetta.
Bartossi?
- Bitossi... Francesco.
- Vedo vedo. Si è
trattato di socialismo, minaccie di scioperi; vi fu una grossa lite
in un'osteria e tu hai menato il coltello e picchiato due guardie...
Mio cugino me ne ha parlato. Conosci mio cugino, il delegato Piloni?
- Sì, signore...
- Bene. Sai? Io ti prendo. Sei
contento?... Voglio mostrarti che non siamo poi tanto cattivi, noi
altri...
Bitossi arrossì
leggermente.
- Eri soprastante quando
lavoravi sotto al Baritozzi?
- Sì, signore.
- Va bene, sarai soprastante
anche con me. Quanto alla paga c'intenderemo facilmente... Avanti
ragazzi! Al Lazzaretto, sull'angolo a sinistra del piazzale, la
seconda fabbrica, Piloni e Piola. I badilanti hanno già
preparati gli scavi per le fondamenta; per San Michele dobbiamo
essere al coperto.
Senz'altro attendere, i
muratori s'incamminarono di buon passo e il capomastro li seguì
discorrendo con Bitossi e Berini.
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