III
MADRE E FIGLIA
La vecchia casa dove abitavano
le Terragni era di quelle destinate a sparire nel caso preveduto di
un prossimo riordinamento delle vie e dei chiassi che si stendono e
s'incrociano dal Ponte di Porta Vittoria alla vecchia chiesa di San
Pietro in Gessate. Essa teneva presso a poco il centro della via a
cui la chiesa dà il nome; e a prima vista non pareva brutta
con la sua facciata di tre piani e il portoncino discretamente largo.
Ma l'interno era uno scompiglio. La corte pareva piuttosto un
vicoletto serpeggiante in un gruppo di casupole, qua alte, là
bassissime, con finestre e ringhiere d'ogni forma e d'ogni livello.
Bastava un'occhiata per
accorgersi che diverse costruzioni si trovavano riunite, e come
appiccicate al corpo di fabbrica anteriore, assai più recente
e destinato a servire da insegna bugiarda come tante insegne - a
quella merce putrefatta.
Dieci o quindici anni addietro
il Piloni aveva rilevati quei ruderi da un giovine buontempone, come
rimborso di un credito da usuraio, nicchiando sul buon affare che
faceva.
Il capomastro era allora agli
esordi della sua carriera d'imbroglione, ma già furbo quanto
altri mai. E da furbo aveva riattate alla meglio quelle casupole, e
alzato il davanti fino a tre piani, pensando al lauto guadagno che ne
avrebbe ricavato allorchè il Municipio gliene avesse imposta
la cessione per ragioni di utile pubblico.
Disgraziatamente le cose
andavano per le lunghe, e la via rimaneva imperterrita nella sua
muffa. Senonchè, nei quindici anni, il Piloni aveva certo
quintuplicato il suo capitale, appigionando quelle stanzaccie alla
povera gente, che alloggia male e paga, proporzionalmente, assai più
caro dei ricchi.
All'infuori di un oste, di un
pizzicagnolo, di un materassaio e di qualche altro piccolo
commerciante, i pigionali della casa erano quasi tutti operai; e tra
questi non di rado parecchi muratori, specialmente di quelli addetti
alle fabbriche del proprietario. Anche il portinaio era un vecchio
muratore reso inetto al lavoro da una caduta.
Il Piloni lo proteggeva,
perchè il povero diavolo, intontito dalle disgrazie, aveva una
sottomissione a tutta prova, da cane bastonato.
La camera delle Terragni
apparteneva alla miglior parte della casa, quella alzata dal Piloni;
ma era voltata verso corte e dava con uscio e finestra sopra una
lunga ringhiera al secondo piano. La luce che vi entrava era appena
bastante a rischiarare una metà della camera, fonda, stretta e
piuttostobassa.
Dalla penombra del fondo
emergeva, con la sua coperta bianca, un largo letto di noce, ultimo
avanzo di lontana agiatezza. Virginia Terragni, madre di Luisina,
giaceva inferma in quel letto.
Era una sera di sabato;
Luisina stirava presso alla finestra.
Una lunga tavola coperta da un
lembo di tappeto da pavimento, sul quale la stiratrice aveva steso un
lenzuolo vecchio piegato in quattro, occupava quasi tutta la
larghezza della camera, lasciando appena un mezzo metro di spazio per
il passaggio.
La stiratrice aveva fretta. Il
mucchio della biancheria inamidata o semplicemente inumidita che
occupava uno dei capi della tavola era molto alto ancora.
Rappresentava certo due buone ore di lavoro.
- Ho sete! - mormorò
l'inferma, rivoltandosi nel letto.
Luisina si mosse, depose il
ferro sopra il fornello pieno di carbone acceso e corse al letto,
presso alla sua mamma.
- Oh! ti ritorna la febbre!...
- No!...
- Altrochè! Scotti come
una bragia. Dio mio! Dio mio!... Sta quieta, ti Prego. Bisognava che
ti avessi dato il chinino a metà giornata. L'ho
dimenticato!...
Sospirò e voltò
via la faccia.
Non se n'era scordata no; le
erano mancati i denari; e il farmacista, che le avanzava una discreta
somma, non le dava più nulla in credito.
La Virginia alzò la
testa ossuta, dal viso distrutto – forse bellissimo un tempo -
e, afferrato con la mano tremolante il bicchiere pieno di limonata
che sua figlia le porgeva, bevve avidamente con la smania penosa dei
febbricitanti.
Luisina rimase alcuni momenti
presso al letto, accarezzò la povera malata come una bambina;
la baciò e ribaciò; poi tornò al fornello, prese
il ferro più caldo, lo pulì con cura e ricominciò
il suo lavoro.
Stirava bene, con molta
attenzione, assai più che non meritassero realmente le camicie
e gli altri cenci rattoppati della sua clientela. Oh, non poteva
vantarsi di avere una clientela ricca ed elegante; no davvero. Ma non
era colpa sua: la casa dava poco di meglio.
Il meglio sarebbe forse venuto
col tempo. Per adesso le toccava di accontentarsi, tanto più
che quello non era il suo vero mestiere. Da principio faceva la
modista; ma varie cause l'avevano costretta a trascurare il magazzino
di moda dove andava a lavorare, sopra tutte la malattia della madre,
che non poteva essere lasciata sola.
In tale frangente si era messa
a lavorare in casa; sperava di guadagnare di più. Ben presto
però s'accorse che non potendo far credito perdeva le clienti,
e se faceva credito perdeva spesso i denari.
Pensò a un altro
lavoro. Sapeva un pochino stirare: provò, tenendo i prezzi
bassi. I due mestieri accumulati finirono col darle un guadagno di
otto, dieci, fino dodici lire la settimana. Molte la invidiavano. Per
lei, però, con la mamma a letto, erano poche anche le dodici
lire; e i debiti crescevano di mese in mese. Se poi il padrone di
casa la metteva in istrada, sapeva Iddio che ne sarebbe avvenuto di
lei!
Era tanto sfortunata...
Chinava la fronte sul vapore
caldo che si esalava dalla biancheria, come piegata in due dallo
scoraggiamento, e mentalmente ripeteva:
- Sfortunata e stupida!...
Le sue labbra si atteggiavano
ad un sorriso di compassione sprezzante per quella stupida, che era
lei. Intanto le sue mani abili e leggiere non si arrestavano un
istante, e il ferro correva su i petti lucidi delle camicie
inamidate, su i colletti e su i polsini del figliuolo del
pizzicagnolo, un pezzo di giovinotto che portava sempre un fiore
all'occhiello ed era il suo miglior cliente. Guai se non
l'accontentava; egli si metteva a gridare come un'aquila e buttava le
camicie pulite nella cesta dei panni sporchi; poi, la sua vecchia,
un'avara se ce n'è, era capace di pretendere che lei le
rilavasse e ristirasse senz'altra paga. In fondo quel rigore le era
stato utile. Così aveva imparato il mestiere in pochissimo
tempo. Un altro che la faceva disperare era un certo Nanetti, vedovo
con due figliuoli; povero diurnista del Municipio, ridotto a campare
lui e i suoi ragazzi con tre lire il giorno; senza neppure il
compenso di portare il camiciotto turchino come gli operai.
Il povero diavolo aveva delle
camicie tutte in disordine e voleva che i rammendi non si vedessero,
certi rammendi che si faceva da sè, la sera, dopo
l'ufficio!...
In ogni modo quella era la
roba più di riguardo dopo quella del pizzicagnolo dal fiore
all'occhiello, e la stiratrice la metteva a finir di rasciugare
presso al camino perchè l'amido diventasse più saldo.
Ora tirava via presto presto
un cencio dopo l'altro. Il mucchio diminuiva. E ad ogni interruzione
del lavoro ella s'accostava un momento al letto, guardava la sua
malata e le asciugava il sudore, chè faceva un caldo da serra
in quella stanzaccia senz'aria corrente. Poi ritornava al lavoro per
finir presto, più ancora per nascondere alla madre la
crescente inquietudine da cui era dominata.
Una gran pena per lei,
carattere aperto ed espansivo, quel doversi tenere ogni cosa per sè,
quel non avere un'anima con cui sfogarsi!...
La «poveretta della
chiesa» non le aveva ancora portata la risposta dello Zibardi;
era per quella sera di sabato. Ma lei s'aspettava poco di buono.
Intanto aveva ricorso alla
Congregazione di carità per ottenere un sussidio. Ma un
sussidio bastante per fare quello che sognava lei non c'era speranza
di ottenerlo. Così, se quel cane non si moveva a compassione,
il bimbo era bello e spacciato. Povera anima! Povera anima!
Grosse lagrime le solcavano le
guancie insieme al sudore. Aveva una stanchezza mortale in tutte le
membra. Quel mestiere tanto pesante l'ammazza, lei, che non c'era
avvezza.
Chi sa! Forse l'ex-vinaio
avrebbe avuto un momento buono: la sora Rosa aveva detto che era ben
disposto. E perchè non avrebbe dovuto esserlo? Non era il
padre lui, come lei era la madre? Non si trattava forse della sua
stessa carne?... Perchè lei doveva soffrire tanto pensando che
il bimbo pativa, moriva forse... e colui niente? Di che pasta era
fatto?...
Certo, la sora Rosa doveva
dire la verità: egli doveva essere ben disposto, intenerito
anzi, se aveva un'anima, se non era una belva. L'avrebbe aiutata
certo.
Ma intanto che la sua mente si
fissava in tale speranza, un'altra inquietudine senza nome, senza
causa apparente, sorgeva nel più segreto del cuore suo. Ella
non capiva per qual ragione la speranza che avrebbe dovuto
consolarla, non le desse un vero sollievo. O forse capiva troppo.
Prendere del denaro da
quell'uomo... rivederlo, forse... forse, doverlo subire... Ebbe un
sussulto che la fece scattare.
Ah! no per tutti i santi!
piuttosto morire... piuttosto...
Stava per dire «piuttosto
lasciar morire anche il bambino», ma si pentì subito...
Per quel povero innocente avrebbe dovuto cedere... sopportare
tutto.... Ma lei sarebbe morta. Oh! come le era odioso quel
traditore... Come le era odioso!... Le pareva impossibile di averlo
amato... Eppure!... Forse l'odiava tanto, appunto perchè
l'aveva amato. Forse quell'odio era ancora amore...
Scrollò il capo con
vivacità.
No, no. L'aveva amato, o
almeno aveva creduto di amarlo perchè lui si era mostrato
buono, affettuoso, mentre invece era un infame. Dacchè lo
conosceva, l'amore era morto. Il sentimento che provava era pieno di
tristezza. Se egli si fosse pentito... se l'avesse sposata...
Tornò a crollare il
capo, quasi per allontanare da sè quel pensiero.
Sentiva l'odio nel sangue, e
non poteva comprendere che quell'odio fosse la reazione di un amore
tradito.
Dopo una lunga meditazione
credette di sciogliere tutti i suoi dubbi con questo argomento
trionfale:
- No, quell'odio non era
amore, no; perchè quell'uomo le faceva schifo. Se l'avesse
sposata, avrebbe acconsentito, sì, per il povero piccino, per
la sua mamma malata; ma lei, lei sarebbe stata infelicissima, e
sarebbe morta di crepacuore.
Un'altra corrente di pensieri
s'impadronì del suo spirito.
Che stupida! Non c'era
pericolo che lui volesse sposarla; e neppure riprenderla: aveva altri
amori, altre ambizioni...
E rideva della propria
ingenuità, si canzonava: rassicurata, in fondo, e sollevata da
un peso insoffribile.
Tutti parlavano degli amori
del signor Zibardi, del bel vinaio arricchito, enormemente
arricchito, a quanto dicevano. E le antiche compagne di professione,
le giovani modiste che la guardavano d'alto in basso, le davano della
minchiona perchè non aveva saputo tenersi una fortuna simile,
né approfittare della maternità, niente. Gran
minchionaccia, perbacco! Glielo avevano sempre detto, fin da
ragazzina, che aveva il cuore così tenero da scoppiare in
singhiozzi al più piccolo rimprovero della maestra. Se tale
non fosse stata – dicevano le antiche compagne nei momenti di
espansione - si sarebbe fatta ricca in un modo o in un altro; perchè
era bella e piaceva agli uomini più di tutte loro; invece era
sempre affondata nella miseria, e l'onore, tanto e tanto, l'aveva
perduto lo stesso. Non si poteva neppure dire che si fosse tenuta da
conto per una buona occasione! Tutt'altro! Si era data stupidamente,
e stupidamente continuava a vivere in quella casaccia, in mezzo a
quella gentaglia, come pane e cacio. Così quelli che sapevano
del vinaio, e anche quelli che non sapevano, le attribuivano a
momenti più avventure che capelli.
Queste cose gliele aveva
ripetute una di quelle domeniche, incontrandola a caso, la Carlottina
Fiorelli, una compagna dei primi anni, una che si era messa a fare la
mima e vestiva come una principessa e aspettava di avere carozza e
cavalli fra qualche mese.
Tutte cose vere; ma lei che ci
poteva? Era fatta così. S'era data a quell'uomo senz'altro
pensiero che l'amore, portata via, trascinata, come una povera bestia
che va al macello, a occhi chiusi. Nulla ci poteva, lei; era nata con
un cuore tenero tenero e una buona fede dura come il macigno; ce
n'erano voluti dei picchi per frangere quella buona fede di
credenzona!
Le tornavano a gola dei
ricordi strazianti a proposito della sua buona fede. Dopo il parto,
quando seppe che lo Zibardi aveva fatto portare il bambino al
Brefotrofio, mentre lei era più di là che di qua,
neppure un sospetto! Piangeva, si disperava perchè le aveva
tolto il piccino, ma non un dubbio che quello fosse il principio
della fine, il segnale dell'abbandono! Egli la blandiva con dolci
parole, con più dolci promesse; era suo per la vita; nessuno
poteva separarli, il bimbo formava un vincolo sacro, un vincolo
indistruttibile; non poteva lasciarla, mai più, mai più.
Nella fascia aveva messo una carta col nome scritto da lui: Mario
Terragni-Zibardi; appena sbrigati certi interessi, appena fatti
persuasi i suoi di casa e messo da parte abbastanza di che mantenerla
comodamente - perchè la sua moglie doveva fare la signora -
egli l'avrebbe sposata riparando tutto e il bimbo sarebbe venuto a
casa come da balia... Non era contenta?
Così parlava
l'ipocrita; e lei credeva.
Questi ricordi la eccitavano;
una collera cieca si impadroniva di lei.
Cinque anni erano passati;
cinque anni! Il povero bimbo abbandonato moriva... Moriva!... A
questo pensiero si frangeva anche la collera. L'odio ammutoliva...
Una parola! Una speranza! Un
aiuto!... E avrebbe dimenticato, perdonato ogni cosa!...
Allungò il collo per
guardare nella corte. La sora Rosa aveva promesso di arrivare prima
di notte.
Pazienza!
Rimettendosi a stirare, il
pensiero della giovine ritornò sulle parole della Carlottina,
e specialmente su quelle che più l'avevano punta... «che
lei trattava con troppa confidenza quella gentaglia e che, oramai,
quelli che sapevano dello Zibardi, le attribuivano una quantità
di avventure...»
Che malignità!
Nessuno poteva vantarsi,
nessuno.
Era stata sedotta... tutto al
più potevano dire che si era lasciata sedurre perchè
era una scimunita; e sapevano che aveva il figliuolo a Santa
Caterina, perchè lei non ne faceva mistero, e andava tutti i
mesi, magari due volte il mese, dalla levatrice per sapere notizie.
Tutti la compativano, appunto perchè sapevano che poi...
Ma di qual gentaglia parlava
la Carlottina?... Stava bene quella parola in bocca alla figliuola di
uno spazzino, in bocca a una che si vestiva di seta perchè
faceva, il più vile dei mestieri!...
- Certo, - diceva tra sè
la stiratrice - io sono alla mano con tutti; e quando non sto sulle
spine come in questi giorni, mi piace anche ridere un pochino...
Signore! devo proprio intisichire? Ridere non è far del male.
L'immagine di Francesco
Bitossi le si affacciò improvvisamente, mentre pigliava in
mano una delle ultime camicie e s'accorse che era di lui.
- Una posta nuova, che almeno
ha della biancheria in buono stato! - esclamò osservando la
camicia e le altre cose che il muratore le aveva portato quella
mattina pregandola di stirargliele. Da pochi mesi Bitossi aveva preso
una camera, che era rimasta vuota sulla stessa ringhiera. Vedendosi
tutte le sere, e spesso anche la mattina, quando lei si alzava presto
per lavorare, avevano cominciato a salutarsi, poi a scambiare qualche
parola. Una corrente simpatica li avvicinava; erano sfortunati e
affettuosi.
Le venne in mente che la mima
volesse alludere a lui con la parola «gentaglia» perchè
li aveva visti insieme sull'uscio del pizzicagnolo, una di quelle
sere. Questa insinuazione le parve odiosissima, e giurò di non
più salutare l'antica compagna.
Imbruniva. L'inferma si era
assopita. Stirando sempre, con la schiena curva, la testa indolenzita
per le esalazioni del carbone e i vapori acri della biancheria umida,
in quella fatica snervante che disfa il corpo e lascia libero il
pensiero, Luisina non poteva fare a meno di tormentarsi rivangando il
passato, guatando con occhio pauroso il minacciante avvenire. Così
a poco a poco, man mano che la notte si appressava, la sua
inquietudine acquistava una intensità febbrile. I suoi occhi
ardenti si staccavano ogni tratto dal lavoro, fissavano il vuoto,
perlustravano con ansia le altre ringhiere, e cercavano di penetrare
l'ombra delle scale.
Le vicine che passavano e
ripassavano davanti alla finestra scambiavano con lei qualche frase;
i vicini che cominciavano a rincasare la salutavano, alcuni con certe
occhiate piene di sottintesi, altri con un complimento banale,
gettandole in volto il loro alito caldo impregnato di tabacco, di
acquavite. Ella rispondeva a tutti bonariamente, senza sgomentarsi di
nulla, sapendo tenere in freno gli audaci con l'indifferenza sicura
di una donna che sa imporre il rispetto, senza ricorrere ai grandi
mezzi.
Anche Bitossi arrivò, e
la bella figura del giovine, dalle spalle larghe, dalla testa fine e
intelligente, si fermò un istante davanti alla stiratrice.
- Lavora ancora?!...
- Ho quasi finito, le porterò
poi la sua roba...
- Come sta la sua mamma?
- Oh! sono malcontenta: le è
tornata la febbre.
- Poverina! Ha bisogno di
qualche cosa?
- O grazie, signor Francesco,
grazie!... E lei è sempre contento laggiù col Piloni?
- Eh, si va là; sempre
meglio che essere a spasso.
- Lo credo. E fanno presto eh?
Ho sentito dire che il capomastro vuole avere gl'inquilini a Pasqua.
- Questo sarebbe il meno male.
Si è cominciato a lavorare in marzo, e in un anno, a tutto
rigore, ciò può andare, con l'uso di adesso. Ma il
peggio è che l'aprile e il maggio non abbiamo lavorato quasi
mai per causa dell'acqua che è venuta giù giornalmente,
e per i grandi stratempi; si può dire che lavoriamo da tre
mesi soltanto; e lui, per San Michele, vuole essere al coperto e
avere le scale in ordine e i quartieri divisi, perchè quelli
che cercano casa possano salire e vedere. O magari per combinare
qualche altro contratto; chi sa mai cosa ha in testa quell'uomo!
- Come fanno presto adesso a
tirar su le case!
- A vapore.
- Anche l'altra sera il Berini
si lagnava col portinaio, e rammentava il suo figliuolo che è
rimasto sotto quando è caduta la casa del Brandi.
- Pover'uomo! È
arrabbiato adesso col Piloni...
- Eh, altrochè! Diceva
che la fabbrica del Piloni sarebbe finita come quella del Brandi.
- Speriamo di no. Ma,
purtroppo, non è impossibile.
- O Dio! Non mi faccia
spavento!
- Speriamo di no, speriamo di
no...
- Speriamo, ma intanto il
pericolo c'è. E tutto per l'esosità di questi
capimastri, che vogliono farsi ricchi in un momento, rischiando la
vita di tante povere creature.
- Rischiano anche la loro:
amano i denari più di tutto; specialmente il Piloni è
coraggioso quanto mai. La settimana scorsa è rovinato un
soffitto in una fabbrica a Porta Genova e un ragazzo è stato
schiacciato. Fu un miracolo che non rimanesse sotto anche il
capomastro: stava appunto dicendo che non c'era pericolo! È
così; hanno più paura di spendere che di far la fine
del topo.
- Io vorrei che la facessero
tutti. Ma i poveri uomini che lavorano e son pagati male mi fanno
troppa compassione. E lei non ha mai paura?
- Io? Che!... Non ho paura io.
E poi non mi importerebbe niente anche se morissi.
- Oh!... Così
giovine!?...
- Sono solo al mondo, e ho
poco da stare allegro. Ma questo non vuol dire. I mestieri faticosi e
rischiosi sono tanti. L'altro giorno sono andato al Gazometro;
bisogna vedere che vita da bestie fanno quei poveri lavoranti! In
pochi anni sono bruciati vivi. E intanto ci sono quelli che vivono di
rendita alle loro spalle... È questo che fa stringere i
pugni...
La stiratrice lo ascoltava
attentamente, affascinata da quella voce vibrante, da quell'accento
commosso: alzò gli occhi e lo guardò. I loro sguardi
s'incrociarono e tutti e due ebbero una scossa. Ella sentì che
quello non era un operaio come un altro, che non discorreva a
vanvera, ma che doveva avere meditato lungamente sull'argomento a cui
accennava e provò un senso di rispetto e di soggezione che le
impedì di rispondere. Ricordandosi però subito che il
giovine le aveva raccontato di essere stato in prigione in causa di
una rissa nella quale lo avevano trascinato le sue idee socialiste,
la sua soggezione si trasformò in una intensa pietà e
in un vivo timore ch'egli non si compromettesse ancora. Epperò,
volendo cambiar discorso, gli chiese:
- Il signor Piloni l'ha preso
come soprastante, vero?
- Sì... e mi paga meno
degli altri che paga il meno che può.
- O perchè?...
- Eh!... per la mia
disgrazia... si sa. Sapendo che ero stato in prigione e poi tanto
tempo a spasso, ha capito che dovevo adattarmi a tutto...
- E lei non dice nulla?
- Io?... Ouff! Non è
per me che m'inquieto... Quando sarà il momento di agire per
tutti insieme... Quando sarà suonata l'ora della vendetta e
della redenzione... allora mi vedrà: sentirà...
Impaurita dall'accento
minaccioso con cui il muratore aveva pronunciate queste parole e
temendo sempre per lui, Luisina lo interruppe con un gesto brusco e
gli sussurrò di tacere, accennandogli la donna gialla.
Marianna Civardi, detta la donna gialla per un certo abito che
portava l'estate, era molto sospettata di intendersela con la
Questura.
Egli tacque stupito,
contemplando la stiratrice che si era rimessa al lavoro.
- Grazie, - disse finalmente
quando la Civardi si fu allontanata, - grazie! Lei ha un po' di
amicizia per me. Grazie! Non mi sentirò più così
solo.
E si allontanò, confuso
di aver detto tanto e temendo di palesare il tumulto di affetti che
lo agitava.
Luisina gli fu grata di quella
discreta riserva, più che delle parole affettuose, per le
quali si era sentita salire il rossore fino ai capelli.
- Luisina! - sospirò
l'ammalata.
- Mamma!... Son qui.
E accorse al letto.
- Hai finito?
- Sì.
- Con chi parlavi?
- Un po' con uno, un po' con
l'altro.
- No... parlavi con quel
maestro muratore... quel Bitossi..:. Non voglio che tu gli parli!
- O mamma! mi fai ridere, non
gli parlo mica come intendi tu... Sì eh!...
- Non voglio che tu gli parli
in nessun modo.
- Perchè?
- Perchè ti porterà
sfortuna; perchè è un disgraziato come te, e due
disgraziati insieme finiscono male...
- Ci siamo! - esclamò
la ragazza, frenando un sussulto. - Non capisci, mamma, che io non ne
voglio sapere di nessuno?... Altro è scambiar due parole così,
da buoni vicini, altro quello che pensi tu. Via, via, non darmi pena,
ora la febbre ti è calata, hai sudato. Andrò a
prenderti il chinino per questa notte, lasciami soltanto finire
questi quattro stracci.
Ritornò presso alla
finestra e si rimise a stirare in gran furia le ultime robe nella
fioca luce del crepuscolo.
Alle sue spalle la camera
formava tutto un fondo buio, interrotto appena qua e là dai
riflessi del fornello, nei quali si accendevano fantasticamente
alcuni oggetti di rame appesi intorno al camino e i petti lucidi
delle camicie che finivano di riasciugarsi al calore del fuoco.
Questa cornice d'ombra e la luce fievole che entrava dalla finestra
facevano risaltare la figuretta elegante, tutta in chiaro, e la
gracile bellezza della stiratrice. I suoi occhi scintillavano e la
carnagione delicata del volto, del collo e delle braccia nude
acquistava una trasparenza perlacea. Vista così, la ragazza,
alla quale i maligni attribuivano tante scappate, aveva tutto il
candore e l'ingenuità di una vergine del Beato Angelico.
Intanto, dal fondo della corte
bistorta e lunga, in un punto stretta stretta, in un altro larga,
dalle ringhiere, dall'interno delle abitazioni, saliva e si espandeva
un rumore assordante, un vocìo confuso e insistente.
Un fabbro, certo Mariani, che
aveva perso troppo tempo nella giornata, voleva riguadagnarlo; e il
clamore della sua incudine rimbombava.
Un battiloro, preso dalla
stessa furia, faceva tremare le vecchie muraglie della casa. Nello
stanzone del mercante di vino cominciava il solito pandemonio: vari
operai già tornati dal lavoro, avendo riscosso la loro
settimana, si preparavano a far baldoria. I garzoni accorrevano con
le mezzine; le voci grosse, rauche, scattavano; scrosciavano le
grasse risate nella luce intensa del gaz, nel fumo delle vivande e
delle pipe.
Una compagnia di giovinotti,
tra i quali alcuni muratori amici del muratore Colombo fungente da
portinaio, aveva preso posto presso la finestra che dava sulla corte,
come una gran bocca di fuoco aperta sulle tenebre. Costoro avevano
mangiato una minestra in famiglia ed ora bevevano un quintino dopo
l'altro, giocando alla morra per festeggiare la fine della settimana.
Altri, seduti a un'altra
tavola, bevevano e cantavano. Una voce squarciata di pseudo-baritono
voleva imporsi all'attenzione generale.
Le ragazze che scendevano a
prender l'acqua alla tromba sbirciavano i giovanotti, nicchiavano
alle loro facezie, rispondendo poi trionfalmente e con nuove risate
mentre si allontanavano.
Al secondo piano, in fondo
alla corte, dove i muri trasudavano l'unto degli acquai, il muratore
Carmine Tamburini faceva un casa del diavolo con la moglie che non
gli aveva preparata la minestra. I figliuoli strillavano insieme al
padre; la donna rimbeccava: se voleva la minestra doveva lasciare i
denari, doveva; sì i denari da pagare il salumaio, almeno, e
il fornaio, che non volevano più farle credito. E insisteva
per avere la settimana, almeno la metà, almeno un terzo... Ma
Carmine non aveva più quasi nulla, che il liquorista e il
vinaio erano stati più lesti.
Sulla ringhiera vicino a
quella delle Terragni, ma alcuni scalini più basso, succedeva
un'altra scena disgustosa e comica nel medesimo tempo. Era la donna
gialla che strapazzava le sue dozzinanti, tre povere vecchie che
stavano in pensione da lei, dando giorno per giorno un bell'esempio
di vita tenace.
- Ah! non ne hanno abbastanza
della minestra... Che vogliono ancora? Che...
- Etcin! etcin! etcin!...
Una dozzina di sternuti
interrompeva la ramanzina, poichè la sora Marianna aveva un
raffreddore perpetuo che la tormentava specialmente quando i suoi
nervi si eccitavano.
Tuttavia, ella non si
arrendeva; appena passato l'assalto tornava a inveire, perchè
non le avevano detto «salute!» o peggio perchè
glie l'avevano detto con aria canzonatoria che pareva un «crepa!».
- Accòppati! - gridava
un burlone dal fondo dell'osteria.
Ma pochi osavano ridere.
- È della Questura -
mormoravano le voci sommesse – è della Questura.
E lei sempre più
inviperita minacciava le povere vittime della più grande
sventura: avrebbero perso i sussidii! Glie li aveva fatti avere lei i
sussidii della Congregazione, «i libretti» e lei poteva
farglieli perdere; e allora le avrebbe messe in strada, e sarebbero
andate a farsi mantenere da chi volevano.
La minaccia era terribile e
detta in modo che tutti i vicini la intendessero e ne pigliassero la
propria parte.
- Etcin! etcin! etcin!...
Le tre disgraziate dozzinanti
si rassegnavano ancora una volta, certe che non avrebbero trovato
neppure un cane per difenderle.
Di fronte a tali scene,
sebbene ci fosse avvezza, Luisina Terragni provava un vivo disgusto.
Le pareva abbietto che nessuno intervenisse tra quella megera e le
sue vittime; e le pungeva di tacere anche lei, come gli altri. Ma
quale effetto potevano avere le sue parole se gli altri non le
sostenevano?
Improvvisamente ella ebbe un
sobbalzo. La «poveretta della chiesa» era entrata «nella
porta».
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