VI
IL 29 SETTEMBRE
Anche quando ci stimiamo
disperati, o rassegnati a tutto - ciò che torna lo stesso - la
speranza è ancora tanto forte in noi da acciecare più o
meno la nostra ragione. Per questo il giorno della catastrofe, siamo
colpiti da quello strano stupore, da quell'invincibile sbalordimento,
anche se i mali che ci cadono addosso, sono di quelli che abbiamo
lungamente aspettati, giudicandoli inevitabili.
Così la povera gente
che non aveva pagata la pigione, né trovato casa, né
provveduto in altro modo ai casi suoi, vide arrivare il giorno delle
sgomberature con senso di stupida meraviglia, come se non avesse mai
più sopposto che quel giorno sarebbe arrivato preciso, come
sempre.
Nella tetra camera, la Luisina
si era buttata a sedere su uno sgabello e non parlava più.
L'angoscia la istupidiva. Erano le nove, e per mezzogiorno doveva
consegnare la chiave al nuovo inquilino, e la mobilia doveva essere
ammucchiata nella corte, dove si sarebbe fatta l'asta. Il Piloni si
chiamava nella impossibilità di attendere, pur dimostrando un
vivissimo dispiacere di trovarsi a quei passi. Era il suo stile:
strozzare con gentilezza.
La Virginia era a letto,
ripresa dalla febbre dopo lo strapazzo di quel suo pellegrinaggio
alla Congregazione. Eppure bisognava che si alzasse, che
andassero!...
- Dove?...
Una parola era corsa sulle
labbra di alcune vicine: «all'ospedale.»
Consigliavano la Luisina a
darsi attorno perchè la sua mamma potesse essere ricoverata
prima di sera. Lei inorridiva al solo pensiero.
Francesco Bitossi, il
muratore, che voleva veramente bene alla giovane, aveva lasciato la
chiave della sua camera alla portinaia con l'ordine di consegnarla
alle Terragni. Egli andava a dormire da un cugino fuori di città.
Luisina sapeva che il Bitossi
non aveva nessuno al mondo e che avrebbe passata la notte a girare, o
in qualche locanda. Vagamente ella pensava allo Zibardi. Possibile
che la lasciasse mettere in istrada con la madre malata, senza
mobilia?... Lei però non voleva farsi avanti; non poteva
neppure, dopo quella proposta così alteramente respinta. Aveva
anche paura di fare uno sproposito nel caso che lo Zibardi
rifiutasse.
Si sentiva certi impeti...
aveva certe visioni... Ma poi?... La sua mamma sarebbe morta di
crepacuore e il povero piccino d'inedia.
Ad ogni passo che si
avvicinava, a ogni rumore nuovo ella aveva un sobbalzo angoscioso;
poi ricadeva nella sua prostrazione.
La casa era tutta all'aria. Si
contava più di una dozzina di inquilini che sgomberavano. La
corte era piena di mobilia. I piccoli mobili si portavano per le
scale, i grandi si calavano o si tiravano su dalle ringhiere. E tutta
quella gente affannata, nervosa, malcontenta era pronta a gridare; a
sospingersi, ad attaccar lite. Già tre grosse dispute erano
avvenute tra quelli che si attardavano e quelli che avevano fretta. I
disinteressati stavano a guardare con quell'aria d'indifferenza che
sembra dileggio a chi s'arrabatta in mezzo ai fastidi.
Fra quelli che se ne andavano
c'era la famiglia del muratore Tamburini, che, perso il sussidio
della Congregazione, non poteva più pagare quella pigione.
L'uomo era andato a lavorare per togliersi d'impiccio e la moglie
faceva lo sgombero da sè, aiutata dai figli, due ragazzotti
tra i dodici e i quattordici anni, sotto agli occhi della donna
gialla, che empiva la ringhiera della sua ciccia e non s'allontanava
che per distribuire le solite lavate di capo alle sue dozzinanti. La
Tamburini era tanto avvilita - il marito le aveva trovato un alloggio
così miserabile - che non le restava fiato neppure per
litigare, e tirava via nel suo lavoro con una furia disperata.
Nel viavai fece un certo senso
l'arrivo di un uomo sui quarant'anni, vestito civilmente, che portava
diversi oggetti disparati: una rivoltella, una gabbia con un
canarino, una statuetta di gesso bronzato, uno specchio con la
cornice dorata e un fiasco di Chianti. La portinaia gli camminava
davanti con la chiave di un locale rimasto vuoto da parecchio tempo.
Era una specie di casupola indipendente che sporgeva in mezzo alla
corte, adossata a un vecchio muro, composta di un solo piano un po'
sopra il livello della corte e diviso in tre vani: uno stanzone, una
cameretta, una cucina. Cinque scalini di pietra, ben logori,
mettevano all'uscio di entrata di questo singolare appartamento, e
subito si entrava nello stanzone, il quale aveva due finestre grandi
e due usci, oltre quello d'entrata: uno in fondo che metteva in
cucina e uno a destra che metteva in camera. La cucina riceveva luce
da uno sgabuzzino che guardava sopra un'altra parte della corte, in
un angolo quasi buio; la camera invece era abbastanza ariosa e
comunicava per un piccolo uscio a muro, anche con la cucina.
Appena aperto l'uscio si
sprigionò un'ondata di quell'esalazione opprimente propria dei
luoghi chiusi, umidi, mal tenuti. Il nuovo venuto però non se
ne fece caso; posò in un cantone, sull'ammattonato nero e
sparso di buche, la roba che teneva in mano, e spalancò la
finestra. Prese la gabbietta, e attaccatala a un chiodo - che di
chiodi non era penuria in quelle pareti - pregò la Colombo di
procurargli un pochino d'acqua e ne mise quanta occorreva nel
beveruolo dell'uccelletto che subito cominciò a svolazzare
pieno di confidenza.
- Adesso la chiave la tengo
io, eh?
- Sissignore... sor pittore...
Martelli, vero?
- No! scultore. Diego
Martinelli.
- Ah! avevo capito male.
E lo scultore, chiuso il suo
nuovo alloggio, scappò via incontro ai carri della sua roba.
Erano arrivati gli inquilini
che entravano nella camera delle Terragni: un macchinista con la
moglie; due bei giovani. Ma siccome non era ancora l'ora di rigore,
non avevano diritto altro che di mettere la roba in corte, se
volevano.
- Avrebbero però fatto
meglio ad arrivare più tardi! - gridava la Colombo. - C'è
una povera donna malata, bisogna avere un po' di carità.
Il macchinista si scusava:
aveva poche ore di libertà e desiderava approfittarne. La
sposina, più caparbia, aveva delle piccole mosse dispettose.
Pallida come una morta,
Luisina scendeva appunto, le braccia cariche di masserizie, seguita
dal ferraio Mariani - un pezzo d'uomo taciturno, buono come un
bambino – che portava la tavola da stirare.
- Sora Luisina, - fece la
Colombo andandole incontro, - c'è qui il signor... quel
macchinista... il sor...
- Bianchi Luigi, macchinista -
suggerì il nuovo inquilino, serio.
- Ho capito, ho capito -
rispose Luisina con un cenno di saluto. - Abbia pazienza soltanto un
momento.
- Ha diritto ancora un'oretta
- osservò la Colombo.
- Ormai non mi serve; non ho
più speranze.
E così dicendo ebbe un
riscossone e serrò forte i denti per non scoppiare in
singhiozzi davanti agli altri.
- Senta... - fece poi,
volgendosi alla portinaia - ho deciso: mi dia la chiave del
Bitossi!... Ci metterò la mamma per questa notte; domani si
vedrà... Se mi toccherà proprio di mandarla
all'ospedale!
- Povera figliuola!...
Speriamo di no... ma se non c'è rimedio... meglio all'ospedale
che in strada.
Il ferraio domandò:
- E poi, devo portar giù
anche il letto?...
- Il letto non glielo venderà
il padrone, che diamine! - esclamò il vecchio Colombo. - Non è
tanto cattivo.
- E allora su cosa vuole che
si rifaccia? Non c'è quasi altro nella mia casa e gli dobbiamo
dugento lire. Ci lascerà un materasso.
E rise, battendo le palpebre.
- Ecco la chiave...
Al contatto di quel pezzo di
ferro che per lei avea un significato così grave, poichè
poco o troppo la legava al Bitossi, Luisina fu presa da un tremito
convulso, e una fiamma di vergogna le salì alle guancie,
mentre i singhiozzi lungamente repressi, le facevano nodo alla gola.
- Ora bisogna che vada a
preparare la mamma. Non sarà facile!... Ci bada lei alle mie
robe, Mariani?
- Sì, sì...
Vada. Io sto qui a fumare una pipa...
La stiratora s'allontanò;
salì le scale adagio adagio, camminando a fatica, la schiena
piegata, le mani penzoloni.
Nella corte si preparava
intanto un altro diavoleto.
Voci impazienti chiamavano la
Colombo, che rispondeva sgarbatamente, seccata di tutto quel da fare.
Arrivava un altro carro carico
di mobilie; bisognava far posto, sbarazzar l'entratura. Il padrone di
casa mandava a dire che la roba da vendere all'asta fosse pronta in
corte per mezzogiorno, immancabilmente.
Il carretto zoppo,
sconquassato su cui i Tamburini avevano collocate le loro masserizie
si avviava all'uscita, tirato dai due ragazzi.
- Non passa!... Non passa!...
ferma!... - gridavano alcune voci.
- Altro che passare! la stia
zitta, lei! Badino ai fatti loro!...
E i ragazzi, incaponiti,
tiravano più forte.
- No!... No!... Basta!...
Casca ogni cosa!...
- La vita! Ehi! La vita!...
In mezzo a queste grida la
mobilia male ammucchiata cominciò a traballare; due sedie
andarono a ruzzoloni; un cassettone cadde di piombo e si sfasciò.
Alte strida echeggiarono.
Lo scompiglio della corte
invase la strada.
Il carro che stava per
imboccare l'entratura dovette retrocedere. Diego Martinelli, che
ritornava con la moglie e la roba, le mani cariche come la prima
volta, restò egli pure in mezzo alla strada, molto imbarazzato
per le cose fragili che portava e i due carri che lo seguivano. La
circolazione fu totalmente impedita ai veicoli di ogni specie.
I fiaccherai bestemmiavano.
Dai trams, fermi in distanza, la gente scendeva per vedere,
ingrossando la folla dei curiosi. Martinelli era sulle spine.
- La mia statua! Ahi!... ora
me la sfracellano!... Badino signori... scusino...
E girava affannosamente
intorno al carretto per proteggere, dai pericoli che la minacciavano,
una statua di gesso, una Eva colossale, avvolta in una coperta di
lana greggia, bersaglio improvvisato ai frizzi dei cocchieri e dei
monelli.
La Tamburini invece di
occuparsi della sua roba, picchiava i figliuoli con un bastone come
impazzita; e gli urli dei due ragazzacci esasperati empivano la corte
e la strada.
Mariani il ferraio, che aveva
finito di fumare la sua pipa, si alzò sorridendo, tirò
da parte i mobili rotti e il carretto sconquassato e liberò il
passaggio.
Lo scultore Martinelli fece il
suo ingresso nella corte piena di gente e di roba, con la sua Eva che
si svelava qua e là traverso i buchi della coperta.
Nella strada ricominciò
il solito movimento. Soltanto i curiosi più accaniti rimasero
fermi ad aspettare l'uscita del carro dei Tamburini, che il ferraio
riallestì in un batter d'occhio. Grottescamente tragica, la
Tamburini lo stava a guardare. Pareva una furia, così
spettinata, secca, allampanata, gli occhi ardenti di una fiamma
devastatrice. Qualcuno le aveva strappato di mano il bastone, o lei
stessa l'aveva gettato. Ma non la sua lingua si stancava d'imprecare
al marito che la lasciava sola in mezzo ai fastidi, ai figliuoli che
venivano su come lui, birboni, egoisti.
Quando tutta la povera mobilia
si trovò ricaricata, anche lei si avviò al suo destino
camminando dietro al carro traballante che i due monelli tiravano
allegramente, ridendo e scherzando, dimentichi delle busse, eccitati
da tutto lo scompiglio che avevano cagionato.
- Sbrighiamoci! - diceva la
signora del Martinelli, una piccolina dal viso dolce che quasi
spariva nella irradiazione di due occhioni azzurri, chiarissimi,
eternamente meravigliati. - Chi ci aiuta ora?
- I modelli, per bacco!...
Come ci hanno aiutato a caricare...
- Gli è che non li
vedo, e poi c'è tanta roba ancora nel tuo studio!... Dovranno
andare a prenderla...
- Non t'inquietare. Li ho
lasciati un momento all'osteria perchè l'Etrusco aveva una
sete da spugna e Pollo allesso non canzonava, sai bene.
C'ingegneremo, del resto. Deponiamo intanto queste piccole cose. Vedo
lì un giovinotto che ci darà una mano..
- Lo conosci?
- Sì; lavora alla
fabbrica del Piloni; ci siamo incontrati qualche volta; è un
buonissimo diavolo. Ehi! Bitossi!...
Il muratore, che, insieme al
ferraio, aveva appena finito di portar giù il letto delle
Terragni, accorse subito alla chiamata del Martinelli. Si salutarono,
e la signora Sofia trattò il nuovo compagno del suo caro Diego
come un vecchio conoscente.
- Vorrei prima di tutto
mettere a posto questa mia povera Eva, che se non è andata
all'inferno è proprio un miracolo.
- Com'è bella!
- Eh!... Ai suoi tempi! Ha
vinto anche un premio. Sicuro! All'Accademia di Brera; vent'anni fa.
E adesso le statue sono come le donne: invecchiano. Valle a cercare
quelle che hanno vinto un premio di bellezza vent'anni fa; me ne
racconterai di carine!
- Ma l'arte è eterna...
il capolavoro...
- Ih! Ih!... Meglio non
parlarne di codeste cose. Ci si fa cattivo sangue. Senti soltanto
questa: all'ultima Esposizione - non qui, qui non espongo neppure - a
Torino, ho mandato una riproduzione di questa povera Eva, più
in piccolo... nella speranza di prendere... Me l'hanno scartata!
- E il marmo a chi l'hai
venduto?
- Il marmo?!... Ah! Bitossi
mio tu non sai. Questa povera Eva ebbe il premio dell'Accademia, ma
un committente che me la facesse fare in marmo non l'ho mai trovato.
Per qualche cosa faccio lo stuccatore e il decoratore di case alla
Piloni... Lasciamo stare, per l'amor di Dio!... Etrusco!... Hai
finito?
I due modelli, che uscivano
appunto dall'osteria con gli occhi lustri, le guancie illuminate,
accorsero. La statua fu tirata giù e portata nello stanzone
con molta delicatezza.
- Ora noi andiamo a prendere
il resto con questo carretto.
- Sì... ma senza
fermarvi per la strada!
- Qui bisogna scopare, levare
i ragnateli... È una vera sporchizia.
- Non ti tormentare, Sofia,
faremo noi... Qui c'è la granata... qui c'è la pertica
col suo bravo scopino di piuma...
- E io vado a prendere
dell'acqua per lavare i pavimenti.
In un quarto d'ora, grazie
all'attività dei due uomini, quelle stanzaccie acquistarono un
aspetto meno lurido.
Sofia stava in corte a far la
guardia al carro grande; e il canarino cantava allegramente, come in
una reggia. Un nuovo affluir di persone mise sossopra la corte. Erano
i rivenditori di mobilia a stracciamercato, gli strozzini, i soliti
frequentatori di tutte le aste di simil genere: veri animali di
rapina che si abbattono sui cadaveri: avvoltoi della miseria...
Oltre ai mobili delle Terragni
andavano venduti anche quelli di un calzolaio, ubbriacone famoso,
padre di tre figliuole, ed anche quelli di una cucitrice, povera
creatura malaticcia abituata ai digiuni.
Bitossi venne a vedere con la
scopa in mano.
- Un'asta! - esclamò la
signora Sofia...
- Purtroppo!
- Povera gente!
- E chi sono? - domandò
lo scultore.
Bitossi raccontò delle
Terragni, con la voce soffocata e il viso pallido.
Diego e Sofia compresero
subito che quello non era un interessamento comune, una pietà
di semplice prossimo; e la loro simpatia per il giovane operaio
divenne più viva.
- E dove sono andate queste
povere donne?
- Per intanto le ho pregate di
rifugiarsi nella mia camera; la Luisina non voleva, ma piuttosto che
mandar la mamma all'ospedale, capirà...
- Sicuro... poverette...
- E tu dove vai a dormire.
- Oh, troverò bene!...
- Dormi qui da noi... in
questo stanzone. Abbiamo una vecchia ottomana.. Spero che i topi non
ti mangeranno.
- Non facciamo complimenti. È
cosa intesa – aggiunse Sofia, i cui sguardi erano attratti dai
preparativi dell'asta. – E il vostro Piloni, quell'uomo così
bonario, che pare abbia il cuore in mano, fa di queste porcherie?
I due uomini si scambiarono
un'occhiata piena di sottintesi ironici, e tutti e due uscirono in
un'amara risata.
- Sono curioso di vederlo
sotto questo punto di vista - osservò Bitossi all'amico. - Ora
arriverà.
Sofia guardava con un senso di
angoscia, un misterioso fascino, tatti i particolari di quella scena.
Il calzolaio, ubbriaco fin dal mattino, se ne stava in un canto,
nella sua impassibilità selvaggia, circondato dalle tre
monelle, tre faccie scialbe, istupidite dalla fame e dalle botte, che
si guardavano intorno con gli occhi torvi e stupiti. La cucitrice,
accovacciata sugli scalini che mettevano alle cantine, piangeva
sommessamente con certi riscossioni di tutto il suo piccolo corpo
esile, rifinito.
- Quella donnetta mi strazia
il cuore - diceva Sofia chinando i grandi occhi terrorizzati.
- Siam pronti?...
Queste parole, che il Piloni
rivolse al Colombo appena varcata la soglia, furono udite in tutta la
corte.
- È qui! - esclamò
Martinelli, e poi subito rivolgendosi alla moglie: mettiamoci a tirar
giù la nostra roba, che non ci creda troppo curiosi dei fatti
suoi.
E tutti e tre si misero
all'opera.
La testa alta, il cappello da
bandito calcato un po' all'indietro, un largo sorriso sulle labbra
carnose sotto ai grandi baffi biondastri, i piccoli occhi ammiccanti
in cima al grosso naso, e con la sua solita andatura baldanzosa di
uomo corto e grosso, che ha bisogno di buttarsi un po' all'indietro
per ragione di equilibrio, il Piloni traversò la corte andando
direttamente verso il mucchio delle mobilie destinate all'asta...
- E le Terragni? - domandò,
abbassando il vocione e rivolgendosi al portinaio, lungo,
scarmigliato e male in sesto, che gli stava a làtere in
atteggiamento di grande rispetto.
Intervenne la moglie -
donnetta sui quarantacinque coi denti rotti, ma assai bene in carne e
tuttavia appettibile per certi stomaci di struzzo, come diceva il
capomastro cinicamente.
- Il Bitossi le ha raccolte
nella sua camera, finchè si trovano...
- Benone! E lui?...
- Credo che s'accomoderà
per intanto presso al pittore Martelli...
- Come?... Chi è
costui?
- Si sbaglia sempre! - gridò
il marito. - Presso Martinelli...
- Ah! il mio stuccatore.
Bravi! Tutti socialisti... Benissimo!
E con una risata clamorosa
inviò un saluto cordiale a Bitossi e a Martinelli, che stavano
sollevando un enorme cassettone antico. I suoi occhietti fulminei
incontrarono i grandi occhi meravigliati della Sofia, e per mostrarsi
gentile con le signore, toccò un momento il cappello.
- Belloccia la tortorella! -
mormorò mandando giù la saliva. - Ehi là!... con
questi stracci cosa facciamo? Io ho poco tempo.
- Ecco l'usciere.
- Ma le Terragni hanno portato
giù tutto?
- Sì, signore, anche il
letto.
- Uhm! C'è poco da
stare allegri. Bisognerà lasciargli almeno un materasso.
- Se fossi in lei, lascerei
piuttosto il fondo del letto col saccone elastico - fece uno dei
rivenditori accostandosi. – È buono, ma più
difficile a rivendere... mentre le materasse sono piene di lana
lunga, finissima... che si può dare per nuova.
- Non hai perso tempo!... Ah,
ah, ah!... Va bene, va bene. Faremo come tu dici; ma io incanto il
mio credito...
- Si... ma se nessuno offre di
più, che se ne vuol fare lei di questa roba? non può
mica metter su bottega da rigattiere!...
- Birbone!...
Quando tutto fu liquidato, il
calzolaio, che sperava di riscuotere qualche cosa, fu dichiarato in
debito di dieci lire; ma il capomastro gli disse che gliele regalava
insieme ai due sacconi... che non poteva portargli via.
- E adesso dove vado? - gridò
il beone uscendo improvvisamente dalla sua indifferenza..
- Va in Questura; il Municipio
ti troverà un asilo; quanto alle tue ragazze, ho parlato con
una signora che ha promesso di farle ritirare e qui hai venti soldi
per mangiare un boccone... Non dirai male di me, eh?...
Già il calzolaio
allungava la mano; ma il Piloni ebbe un pentimento, e invece di dare
il franco al padre, lo diede alla maggiore delle ragazze.
-... Tu saresti capace di
bevertelo!
E giù un'altra risata.
La roba della cucitrice bastò
per l'appunto a saldare il suo debito. Sentito questo, ella si alzò,
si asciugò le lagrime e s'allontanò barcollando, senza
proferir parola, senza neppur guardar il Piloni, che parve offeso da
quel contegno; soltanto nell'uscire essa avvertì la Colombo
che il giorno dopo avrebbe portato via il suo saccone; e disparve
misteriosa e chiusa in sè, come sempre era stata.
Le Terragni restarono con
trenta lire di debito e la lettiera in legno di noce col suo saccone
elastico che riparò per il momento nello stanzone dello
scultore, dacchè non era possibile di farla entrare nella
piccola camera di Bitossi.
Quanto alle trenta lire il
capomastro disse ad alta voce che ci faceva sopra il crocione; e che
se potevano accomodarsi in qualche modo in una delle camere rimaste
vuote, purchè pagassero, lui non ci aveva nulla in contrario.
Così, sbrigate queste
faccende, contento come una pasqua di essersi mostrato, secondo la
sua idea, rigido e bonario (strozzino e falsamente generoso) egli si
affrettò ad andarsene, mentre i rigattieri portavano via la
roba comperata, e i due modelli ricomparivano nella corte col
carretto carico delle vecchie carabattole di studio a cui il
Martinelli era affezionato.
- Sicchè, cosa ne dici
dell'uomo bonario? - chiedeva lo scultore alla moglie.
- Un birbante!
- Come?... Se è tanto
generoso!
- Una canaglia!
- Capace di tutto! - sentenziò
Bitossi.
Ma non era tempo da perdersi
in chiacchiere. I mobili erano tutti in casa: i più pesanti
già a posto, e Bitossi e Martinelli dovevano ritornare alla
fabbrica per le due.
- Accomodiamo la mia Eva, -
disse Martinelli, - per il resto avremo tempo stasera e domani. La
mettiamo qui, in un cantone, che ne dici?
Sofia approvò.
- Ci metterai per fondo il tuo
arazzo, e sarà una bellezza.
- Il mio arazzo?...
Impossibile...
E la guardava tutto
sconvolto...
Ahimè! l'arazzo era
stato venduto per far fronte alle spese dello sgombero e pagare il
trimestre anticipato al Piloni, e lei se n'era scordata! Sentì
il rossore montarle alla fronte; pure non si perdette d'animo e
rispose allegramente:
- Starà meglio la
peluche dai riflessi rossi.
Bitossi fermava solidamente la
base della statua e, tutto intento al lavoro, taceva discretamente.
Martinelli sorrise alla gentile Sofia e i loro sguardi si scambiarono
una carezza.
- La base è pronta! -
esclamò Bitossi rizzandosi.
La statua fu messa a posto.
Poi, già che restava un po' di tempo, aiutarono i modelli a
scaricare il carretto. Busti, statuette, sgabellotti, mensole,
cavalietti, vecchie stoffe sdruscite, una gran tela, sorta di
velario, ornata di pitture bizzarre e umoristiche, che doveva servire
a dividere lo studio in due parti; specchietti e conchiglie, due
vecchi mannequins snodati anche più del bisogno, uno
colossale, l'altro piccolo; panconi greggi, qualche pezzo di
terraglia dipinta; tutta questa roba più o meno deteriorata,
tanto che quasi ogni singolo oggetto pareva un documento della
miseria dell'artista, fu deposta alla rinfusa nello stanzone intorno
alla povera Eva, che sovrastava tristamente a quello scompiglio con
la sua bella testa classica senza vita.
Soltanto le armi, per le quali
il Martinelli - garibaldino del sessantasei e del settanta - aveva
una vera passione, furono subito appese al muro in un certo ordine.
La piccola collezione si
componeva di pochi pezzi tra i quali primeggiavano: due bei fioretti
da sala di scherma, un pugnaletto giapponese; una rivoltella di
piccola misura ed un fucile; questi ultimi sempre carichi.
- Il tocco e mezzo! - esclamò
Bitossi scuotendosi di dosso la polvere. Vado un momento a salutare
le Terragni, poi scappo alla fabbrica.
- Io pago i facchini e sono
con te.
Appena fu solo, Martinelli
corse in camera, dove Sofia era intenta a mettere ordine. I grandi
occhi pallidi sfavillarono.
- Sei solo?
- Sì. Devo andare
anch'io...
Ella depose lo strofinaccio
col quale stava ripulendo lo specchio del cassettone, saltò
giù dallo sgabello su cui era montata e andò a gettarsi
con passione nelle braccia dell'artista.
- O Sofia! Come sei buona!
Come sei buona! E che rimorso è il mio di averti trascinata in
questa vita miserabile!...
Due lagrime cocenti caddero
sul collo della giovane.
- Tu piangi?!... O perchè?
- esclamò lei alzando la testina e fissandolo con gli occhi
stupiti.
- Perchè mi si stringe
il cuore a pensare che tu sei tanto buona, tanto cara, e che io ti
compenso così...
Con un gesto vago egli accennò
al luogo ove si trovavano, alle pareti annerite, piene di buchi, al
pavimento sgretolato, agli usci mangiati dalla vecchia carie della
muffa e della sporcizia, e un singhiozzo, lungamente represso, eruppe
dal suo petto.
- O Sofia!... o Sofia!... Che
rimorso!.., che dolore!...
- Ma se io ti amo!... Ma se
non potrei essere più felice!...
E lo baciava con effusione
sulle labbra, sugli occhi, sulle tempia solcate.
Era una storia commovente
questa del loro amore. Martinelli, sposato intorno ai trent'anni con
la figlia di un negoziante, non aveva trovata alcuna felicità
nel matrimonio; la giovane signora Martinelli non s'era potuta
adattare alla vita randagia e zingaresca dello scultore. Dopo pochi
anni una separazione giudiziaria rendeva a ciascuno un simulacro di
libertà; e Martinelli, dichiarato prodigo, doveva spogliarsi
di tutto per restituire la dote alla sposa e sollevarsi dalle
ossessioni dello suocero.
In tali contingenze dolorose
egli aveva incontrato Sofia Carani, molto più giovane di lui,
figlia di un organista della provincia, venuta a Milano per imparare
il canto sotto la protezione di una zia. Col racconto delle proprie
sventure egli era riuscito a impietosirla profondamente, poi a farsi
amare e finalmente a ridurla con sè.
Addio lezioni di canto; addio
speranze di carriera e protezione della zia! Contenti forse di
essersene liberati, i parenti le gittarono in faccia il disonore
della famiglia, e le voltarono le spalle.
Ma ella amava, e non domandava
appunto che di essere lasciata in pace col suo Diego adorato.
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