IX
I MURATORI
Mezzogiorno suonò. Come
un solo uomo i cento e cinquanta lavoranti - che non erano meno in
quel momento tra uomini e garzoni - deposero gli arnesi del lavoro,
paurosi di togliere un minuto al riposo o di regalare un minuto al
padrone.
Discesero a frotte facendo un
gran rumore con le scarpe grosse o le ciabatte, sopra le assi volanti
gettate lungo i passaggi; uscirono in istrada e appena usciti si
sparpagliarono da tutte le parti, scontrandosi e riunendosi con gli
operai delle altre fabbriche, che erano parecchie. Sul viale di
circonvallazione, tutto bianco di sole, i rivenditori ambulanti di
frutta fresca, fermi coi loro carretti, chiamavano a sè i
garzoncelli gridando in tono enfatico: «Una palanca, un
palanchino» mentre additavano certi mucchietti di fichi e d'uva
preparati appositamente e su cui le mosche si abbattevano a sciami.
Indifferenti a tali miserie, i
ragazzi comperavano la frutta e la mettevano nel cappello; poi, col
cappello in mano e il grosso pane sotto il braccio, a gruppi, a
schiere, a due a due, andavano alla ricerca di un posto comodo dove
mangiare. Alcuni risalivano sulla fabbrica e sedevano sulle travi,
sull'orlo dei muri con le gambe penzoloni a più di venti metri
d'altezza, contenti come uccelli sui rami.
Gli uomini andavano di
preferenza alla mescita di minestra, dal venditore di polenta e
pesce, o dal pizzicagnolo a comperar la salsiccia. E chi mangiava in
piedi, chi seduto all'ombra dei platani, chi appollaiato sulla
fabbrica come i ragazzi; chi appartato e in circolo. E pure mangiando
i più discorrevano, ridevano, facevano il chiasso, o sfogavano
il loro malumore. Carmine Tamburini mangiava un pezzo di formaggio
infortito, centellinando il suo quintino in una osteriuccia, mentre i
suoi due ragazzi, mangiato in fretta e in furia la poca frutta,
andavano a pescare nel Redefossi. Intorno al Tamburini si riunivano
da otto a dieci uomini, che lo ascoltavano volentieri.
Alla sua maniera, egli era un
oratore di una certa efficacia. Bruno, secco, robustissimo; il viso
segnato dalle stigmate del lavoro, degli strapazzi e dei vizi; gli
occhi riarsi da una specie di febbre, quest'uomo cavava dalla
insofferenza appassionata, che era il fondo del suo carattere, una
eloquenza rozza ma focosa, a scatti, capace d'impressionare assai
vivamente gli uomini semplici che formavano il suo uditorio.
Parlava lesto, colorendo le
frasi con la sua voce profonda, ben timbrata, completando con un
gesto vibrato, un'occhiata, o un sorriso, certi pensieri embrionali,
che gli balenava nel cervello come meteore. Gli ascoltatori non
sempre intendevano, o magari intendevano al rovescio, ma quei
ragionamenti strampalati, con qualche scintilla di verità
luccicante nel buio, li affascinava e li convinceva assai meglio che
non avrebbe fatto un oratore di alto ingegno; con un discorso
perfettamente logico e chiaro. Egli vantava in quel momento l'utilità
degli scioperi; raccontava esempi di altri paesi, di altri operai; e
cercava di convincere i suoi compagni che quello sarebbe stato il
momento buono per tentare la prova con l'inverno alle spalle e la
premura dei capimastri, del Piloni specialmente.
La maggioranza lo approvava
col gesto e con la voce. Ettore Zanforgnino era addirittura
entusiasta. Alcuni, scettici, scrollavano il capo. Sapevano troppo
bene, oramai, come finivano anche gli scioperi: fame e poi fame!
E lo dicevano. I patimenti
delle famiglie, i debiti, non erano compensati dai magri sussidi, né
dai miglioramenti illusori, perchè i padroni ritornavano a
poco a poco al sistema antico, tirando profitto dalla estrema
necessità in cui gli operai si trovavano in certi momenti.
Tamburini assumeva un fare
canzonatorio; chiamava pecore gli sfiduciati; poi si scaldava e
diveniva impetuoso, trascinante; tuttavia, come accade in quasi tutte
le dispute, non riusciva a convincere che i già convinti o ben
disposti, e quelli che sono sempre dell'opinione di chi parla.
Luigi Cattaneo, altro
parlatore, ma più freddo e misurato, entrò
nell'osteria, e sentita la perorazione del Tamburini, si gettò
subito nella lizza. Secondo lui quello non era il momento di
scioperare. Bisognava prima avere la Società. In genere egli
era contrario agli scioperi, perchè gli operai erano troppo
poveri e dopo una settimana di riposo si trovavano tutti agli
estremi; mentre i capitalisti, se s'impuntavano, potevano stare dei
mesi senza far niente; mangiavano lo stesso! E se avevano furia
facevano venire gli operai dalla campagna o da altre provincie,
creavano una concorrenza schiacciante, e allora felice notte! Il
Piloni aveva già minacciato di fare così, ed era un
tomo da non pensarci su neppure un minuto. Del resto il Piloni non
doveva essere trattato lealmente; bisognava, possibilmente, giuocare
di astuzia con lui.
- Ammesso! - gridò il
Tamburini. - Io voglio ammettere che tu abbia ragione, ma se tutti
scioperano dobbiamo far razza da noi, noialtri che lavoriamo sotto al
Piloni?
- Non dico di questo. Dico che
non dobbiamo metterci tra i caporioni. E s'è il caso dobbiamo
dare un consiglio anche agli altri: aspettate! È già
troppo tardi ora, siamo ai primi di ottobre, l'inverno ci sta
addosso. Se la ci va male abbiamo la miseria sicura.
Questo discorso trovava
appoggio in un nuovo drappello di muratori entrati nell'osteria per
berne un bicchiere, e anche quelli che prima accettavano le idee di
Tamburini parevano titubanti adesso.
Entrò Giovanni Berini,
il vecchio muratore tanto rispettato dai compagni. Pareva concitato.
Qualcuno lo interrogò.
Egli, si guardò
intorno, poi, dimenticando la prudenza che era la sua qualità
naturale, scattò come un giovane, ma a voce, bassa, repressa:
- Sapete?... Bisogna lavorar
presto..., sì, bisogna tirar via!... Bisogna finire per l'anno
nuovo..., come vuole lui; tirar via e guadagnarci, la mancia che ci
ha promessa!... Tirar via... è lui che lo vuole... Bisogna
guadagnarla questa mancia... ma stare attenti che la casa non ci
rovini addosso... perchè un giorno dovrà rovinare!...
Queste parole del vecchio
intelligente che non si scalmanava mai che raccomandava a tutti di
lavorare bene, fecero una profonda impressione. Quelli che avevano
sentito il suo breve colloquio col capomastro capivano che era offeso
e reagiva.
- Sì, sì...
canzonarlo quel maiale... fargliela... Lavorare alla peggio per
guadagnarsi questa famosa mancia... E che poi la fabbrica... quando
l'è terminata, la vada alla malora come vuole lui!...
- E se non ce la dà la
mancia? - esclamò Tamburini, che fremeva di non essere più
ascoltato.
Rispose Cattaneo, con la sua
voce calma e l'accento sardonico:
- La darà, sì;
la darà! perchè noi sappiamo troppe cose... troppi
pasticci ci ha fatto fare... e se non la volesse dare, lo minacceremo
di dire ogni cosa a quello dei cementi, che non mancherà di
fargli un processo.
- Bravo Cattaneo! Bravo
Cattaneo! - gridarono venti, trenta voci in coro.
Giovanni Berini riprese:
- Non gli facciamo nessun
dispetto a lui lavorando male!... Quell'asino, non gliene importa
niente della sua fabbrica. Me l'ha fatto capire a me... A me! che sa,
come penso... a me, che se non fossi vecchio così e non
stentassi a trovar lavoro perchè sono vecchio, e non avessi
sei piccini da tirar su, poveri orfani del mio povero figliuolo... a
me, dico che, senza tutte queste disgrazie, me ne sarei già
andato da un pezzo, perchè mi vergogno e mi vergognerò
finchè campo, di avere lavorato a una fabbrica messa insieme
così alla maledetta.
S'interruppe. Gli operai,
impressionati, lo guardavano in silenzio. Si capiva che le lagrime
gli facevano nodo alla gola, che soffriva e diceva la pura verità.
In pochi istanti, con uno
sforzo, tornò padrone di sè; soffocò la
commozione che minacciava di vincerlo; si ricacciò in fondo al
cuore le lagrime pronte a sgorgare, e riprese, con voce rauca, ma
ferma, accompagnata da un risolino amaro:
- È lui che vuole:
dobbiamo obbedienza al padrone.
Chiese un bicchiere d'acqua e
vino, che pagò due centesimi. Di vino schietto non ne beveva
altro che la domenica, a casa, con la famiglia. Quand'ebbe bevuto,
uscì per schiacciare un sonnellino nella polvere della strada,
in pieno sole; perchè il sole faceva bene alla sua vecchia
carcassa e gli tirava su lo stomaco meglio del vino.
Molti uomini e ragazzi
dormivano già di un sonno profondo e benefico, distesi in
terra, con la giacchetta per guanciale e il cappello o berretto sugli
occhi; dormivano lungo i caseggiati, dentro le porte, sul margine
delle strade o del fosso; oppure sulla fabbrica, al posto dove
lavoravano, in pericolo di precipitare, con l'indifferenza
dell'abitudine.
Bitossi e Martinelli avevano
fatto colazione insieme, all'ombra di un platano, sull'orlo del
Redefossi. Ora discorrevano. Martinelli era contento. Senza
trascurare il lavoro che gli dava il pane, egli si era messo intorno
un bozzetto per il monumento a Garibaldi. L'avrebbe presentato al
concorso. Ne parlava con entusiasmo; diceva di avere fatto una bella
trovata e che il suo bozzetto dovrebbe essere premiato; se non per la
forma plastica, certo per l'idea. E l'idea era tutto, a suo avviso;
poichè, per la forma avrebbe potuto farsi aiutare, ma l'idea
era una cosa rara in un tempo in cui gli artisti si dimostravano
spessissimo ricchi di abilità e quasi generalmente poveri
d'idee e d'ispirazione.
Bitossi ascoltava un po'
distrattamente; aveva altro pel capo. Un naturale buon senso e una
dolorosa esperienza della vita gli suggerivano che Martinelli si
ingannava, che gettava il tempo e il denaro. Ma come poteva egli dire
tali cose a un illuso della forza del Martinelli?
A un tratto questi scorse due
donne che camminavano sull'orlo del bastione venendo da Porta Nuova;
e cambiò discorso.
- Tò, la «poveretta
di san Bernardino» e la sua nipote sul bastione a quest'ora!...
Che rigiro avranno?...
- La Cesira ne ha sempre de'
rigiri; e più d'uno alla volta. Tempo fa sperava di farsi
sposare dal signor Angiolo Zibardi, il famoso ex-vinaio di Porta
Romana, che ha fatto soldi e si dà certe arie di principe.
Fallito questo tentativo, mi fu detto che si era messa col
capomastro; e sarà benissimo.
- Col Piloni? Birba di un
pancione! A me hanno detto che pigliava moglie. Alludessero a lei?
Mai più! Lei crederà.
Ma il Piloni come il Zibardi sono gente che nel matrimonio cercano il
denaro, l'affare. Questi sono passatempi. Lo Zibardi poi, che è
un bell'uomo, ne ha fatte di quelle... Oh! guai se ci penso! Guai se
lo incontrassi in un luogo remoto!... Nulla potrebbe trattenermi da
spaccargli il cuore...
Detto questo Francesco si
alzò, scuro in volto. Si passò una mano sulla fronte,
si stropicciò gli occhi come uno che cerca di riaversi, di
cacciare un brutto pensiero.
Anche Martinelli si alzò
con premura e fortemente impressionato. Sapeva la storia delle
Terragni; comprendeva il furore di Bitossi.
- Calmati, Francesco! Il
passato è passato; che te ne importa?...
Francesco guardò
l'amico fisso in viso e crollò le spalle.
- Oh! non è perchè
io abbia di queste ubbie!... Il passato è passato, e non mi dà
ombra. Ma il male che una canaglia ha fatto a una creatura buona e
che tu ami, non lo puoi dimenticare. E vederla, tu, povera,
sofferente, e non poterla aiutare come vorresti; non poterla
risarcire, con una vita felice, del male che ha patito... e vedere
quel birbone che l'ha rovinata, ricco, stimato, felice... Oh! dimmi,
se non sono cose che fanno ribollire il sangue?...
- Eh, lo so. Ti capisco. Ma
qualunque cosa tu facessi per ristabilire la giustizia, non
riuscirebbe che a danno tuo e a rendere lei più infelice. Il
traditore, anche se tu arrivassi a spaccargli il cuore, come tu dici,
e come lui merita, sarebbe il meno punito.
- È vero. E però
mi trattengo. Credi che non lo avrei già ammazzato,
altrimenti?... E questo Piloni ti pare che non meriti di essere
buttato giù dal ponte quando viene a insultarci con quell'aria
falsa di protettore?... Non sai che vorrebbe farmi fare la spia?...
Perchè sono stato in prigione; e stento a trovar lavoro, e la
Questura mi tiene d'occhio, egli non solo mi paga meno di quello che
dovrebbe, ma si è messo anche in testa che io dovrei essere un
suo cagnotto, pronto a tutto per accontentarlo.
- È un vigliacco. Pure
bisogna che tu sii prudente; che non ti comprometti... Francesco
sospirò. Si levò il cappello e si asciugò la
fronte bagnata di sudore.
- Farò quello che
potrò... Non tanto per me, quanto per gli altri... Abbastanza
già dicono che siamo rozzi, riottosi, sanguinari... Bagoloni!
Martinelli fece una risata.
- Tu ridi?... Cosa vuoi,
quando penso a tutti i discorsoni che farebbero sul conto mio in
tribunale e su per le gazzette se, in un momento di disperazione,
tirato pei cappelli, facessi lo sproposito di bucar la pancia a uno
di codesti maiali, allo Zibardi o al Piloni... Quando penso «agli
istinti feroci del malfattore nato» o «all'assassino
recidivo per malvagità incurabile» e poi ancora alla
«crudeltà ereditaria» e al bisogno «di
difendere la società contro simili belve» quando penso a
queste e a tante altre cose simili, l'amarezza che ho nel cuore
diventa disprezzo, un disprezzo così grande che si sfoga
soltanto col ridere... non potendo calpestare. E rido, e questa
parola bagoloni! scagliata come un proiettile, esprime tutto quello
che sento, tutto quello che penso.
Egli tacque; poi, mutando
tono, riprese:
- Si fa tardi; andiamo a
lavorare; rimettiamoci la museruola, finchè venga il giorno...
- Il giorno a cui tu pensi non
verrà forse mai.
- Oh! se verrà! Noi
forse non lo vedremo, ma verrà. Andiamo intanto.
Da tutte le parti gli operai
ritornavano agli interrotti lavori, e per tutto il quartiere si
spandeva un rumor di passi, uno scalpicciar nella polvere, un vocìo
confuso.
Il Lazzaretto si trovava nel
periodo acuto della sua trasformazione, sotto l'impulso di
un'operosità febbrile. Le case terminate e già abitate
da un certo tempo erano molte; ma quelle in costruzione, sia vicine
al compimento, o appena cominciate, non si contavano. E, in mezzo
agli isolati, larghi spazi pieni di rottami, di macerie; e qua un
muro vicino a cadere sotto al piccone rimbombante dei demolitori; là
un lungo tratto del vecchio edificio ancora tale e quale con i suoi
vecchi inquilini che si affacciavano alle piccole finestre, tutti
sbalorditi, occhieggiando quel pandemonio, con fare di reclusi
assaliti da un'orda devastatrice.
Ritto in piedi sopra un
terrazzino ancora senza ringhiera, fatto per dare luce e aria ai
solai della casa signorile, dalla parte della corte, il Piloni
assisteva al ritorno dei suoi uomini. E i suoi piccoli occhi,
appollaiati in cima al grosso naso, lanciavano occhiate fulminatrici
ai ritardatari; incoraggianti, ai solerti.
Quando tutti furono a posto e
i martelli picchianti sulle enormi capocchie dei chiodi nelle grosse
travi, annunziarono la ripresa dei lavori, egli chiamò a sè
Bitossi e a lui disse:
- Verso le tre verrà il
magno signore dei cementi.
- Solo?
- No. Verrà con un
altro che pare disposto a comperare, ma vuol prima vedere. Uno che ne
ha tanti. Devi fare in modo che ti trovino sul loro passaggio per
accompagnarli, e fare che non parlino ad altri. Mi fido poco anche
dell'assistente. Hai capito.
- Sì signore.
- Se si facesse avanti il
Cattaneo, richiamalo all'ordine quel ficcanaso....
Questo dialogo fu interrotto
da un baccano improvviso. Dieci o quindici garzoni in ritardo
salivano le scale facendo il chiasso, sbattacchiando gli scarponi o
strascinando le ciabatte. Al sentire, avevano fatto una grande
trovata, giacchè ridevano a gola aperta e mandavano certe
esclamazioni di stupore e di gioia veramente significative.
- Sono tre! gridava uno. -
Tre!
- Tre! - ripetevano altri.
- Marci? chiedeva un
incoscente pessimista.
Molti rispondevano:
- Ma che! No, no!
Freschissimi!... Grassi, bianchi...
- Li mangeremo... li
mangeremo.
- Sì!
- No!
- Voi, no.
- Noi, sì.
- Soli noi, soli noi!
- Non è vero! Son di
tutti.
- No... no. Sono nostri...
nostri... nostri...
- Li abbiamo pescati noi...
- Non è vero!...
Tutto ciò misto a urli,
pugni e ceffate, soprattutto a bestemmie, a parolaccie e a spedizioni
imperative per luoghi e cose impossibili. Un turpiloquio spinto a
tale eccesso da parer quasi meccanico e inconsapevole.
- Ora v'acconcio io, birbanti!
esclamò il capomastro mostrandosi in cima alla scala col
bastone levato.
Sorpresi in così brusca
maniera, i ragazzi si arrestarono sgominati. Ma la loro eccitazione
era troppo forte perchè potessero quietarsi così tutt'a
un tratto. Le ceffate, gli spintoni, le ingiurie atroci riattaccarono
subito nel ribollimento di quella massa di cenci.
- Avanti, lesti, o vi
trattengo la paga!
A tale minaccia i più
coraggiosi presero la rincorsa e passarono a capo basso,
sgattaiolando sotto il tiro del bastone. Qualche colpo andò a
vuoto, qualche altro fu appena sentito.
- Cosa è successo?
- Non so niente...
- So niente, io...
-... niente... Son quelli là!
E via a gambe levate.
- Cosa avete là? Fate
vedere! comandò il Piloni a due ragazzi che nascondevano un
fagotto.
-... Un... striozz…! un
malefizio... l'abbiamo trovato nel Redefossi pescando - rispose il
più ardito che era Carletto Tamburini.
- Questi sono tre pollastri;
cosa c'entra il malefizio?
- Guardi cosa hanno dentro! È
la vendetta di una ragazza tradita - andava spiegando il birichino
tornato in possesso di tutta la sua petulanza.
Il capomastro prese l'involto
e lo consegnò a Bitossi; poi gridò ai ragazzi: - Via,
via! a lavorare!
Scapparono tutti mogi mogi; ma
il Tamburini ritornò indietro per dire a Bitossi che levasse
dall'interno dei polli le carte da giuoco e gli spilli puntati nei
cuori e nei fegati, ed anche quel cartellino col nome del sor Piloni,
perchè altrimenti sarebbe morto dentro l'anno, come il
figliuolo di Giorgio Canfori il fornàio. La stregoneria
l'avevano fatta le Bellincioni.
E detto questo se ne andò
definitivamente volgendo al capomastro un'occhiata che pareva dire:
Tu sei superbo, ma io ti ho salvato la vita!
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