XIV
LA CATASTROFE
Dopo le espansioni di un
pranzo largamente annaffiato da quel vino grosso e pesante che i
vinai milanesi vendono al popolino, i muratori del Piloni si
separarono perfettamente convinti che, per il momento, non valeva la
pena di mettersi in isciopero. Per meglio dire la massa non aveva
convincimenti di sorta. Le discrete vivande, il vino abbondante e le
grasse facezie del capomastro l'avevano domata.
D'altra parte i capi - quei
pochi che sanno e pensano e per forza ineluttabile si tirano dietro
gli altri - avevano compreso che era meglio aspettare perchè
non erano pronti e non avrebbero avuto l'appoggio necessario.
Così tutti lavorarono
il lunedì, con più zelo del solito e una serenità
affatto nuova.
Bitossi non sapeva se
rallegrarsene, o disperare de' suoi compagni. Luisina l'aspettava per
il mezzogiorno in casa Martinelli; e questo pensiero bastava a
serenare la fronte del giovine innamorato.
Tutti i lunedì Luisina
aiutava Sofia a ripulire la casa, messa sossopra il sabato sera; poi
cucivano e stiravano insieme.
Nell'andarsene Diego aveva
detto, secondo il solito:
- Giacchè oggi c'è
Luisina, verrò a colazione con Francesco; così
mangeremo un boccone tutti insieme.
Una mezza festa!
A mezzogiorno Sofia smise di
lavorare. Andava in cucina a preparare la tavola, intanto che la
Terragni dava l'ultima mano allo studio, dove non era mai finito di
levare la polvere.
Un viavai di gente animava la
corte. Alcuni operai, di quelli abituati a fare la lunediana,
empivano l'osteria dei loro canti e del loro chiasso. Altri, di
quelli che non perdono mai una giornata, ma non si accontentano del
pane asciutto, né della polenta fredda, entravano dall'oste
per mangiare una scodella di minestra e bere un bicchiere.
Traversando la corte la
Colombo vide Luisina che spazzolava un tappetino alla finestra dello
studio, e s'accostò a lei per fare quattro chiacchiere.
- L'è una bella storia!
Se ne vedrà di tutti i colori...
- Che storia?
- La Cesira, eh! Non sa?...
Non sa che ha giurato di vendicarsi coi mariti o coi ganzi di tutte
le vicine? Non si ricorda come si son picchiate con la donna
gialla!...
- Ho sentito qualche cosa, ma
non ho fatto attenzione.
- Eh! si capisce, poverina!
Aveva altro per il capo, lei!... Bene, la sora Civardi ha avuto la
peggio; e per di più, Santino, il suo bello, non vuol più
saperne della sua ciccia, perchè è incapricciato della
Cesira... Ci muore dietro. E Cesira non sa più che farsene di
lui. Fin da ieri è in baracca col ferraio Mariani, che da
qualche mese era l'amoroso della macchinista, sa bene, la sora
Cleofe, quella santarellina che sta nella sua camera di una volta.
Ah! che pasticcio! Si vorrà ridere. Senta, ora la Cesira non è
ancora ritornata; né il ferraio s'è visto; e la sora
Cleofe li aspetta alla finestra. Se alza un po' la testa la vede; è
verde come un ramarro. Avremo un putiferio, perchè si racconta
che il sor Luigi, il macchinista, è stato anche lui con la
Cesira e non le risparmierà un paio di schiaffi. Così
marito e moglie si troveranno d'accordo. A buon conto il mio uomo
farà rapporto, perchè di queste porcherie non se n'è
mai viste da che siamo noi portinai. La Cesira disonora la casa...
Ah! Madonna Santissima! Cosa succede? Gesù mio!...
Una folla di gente si
precipitava nell'entrata spingendosi nella portineria... Erano operai
scamiciati, donne, ragazzi; e gridavano gesticolando, tutti in una
volta.
Luisina sentì queste
precise parole:
- È rovinata la
fabbrica di Piloni!...
Il ferraio Mariani, che
entrava in quel momento, disse tranquillamente:
- Si, è rovinata
un'ala; ma non ci sono vittime, perchè suonava mezzogiorno e
gli operai erano appunto discesi. Quanto alla fabbrica era il suo
destino.
E attraversò la corte
ridendo e sbirciando la Cleofe che gli faceva gli occhiacci.
Sofia, accorsa al rumore,
gridava:
- Che hanno detto?... Cascata
la fabbrica?!... Ah, Diego ha sempre detto che la sarebbe finita
così!...
Luisina cercò di
calmarla ripetendole le parole del ferraio.
- Speriamo in Dio! I nostri
uomini devono essere discesi al primo rintocco del mezzogiorno,
sapendo che noi li aspettiamo....
- Saranno qui a momenti.
Tacquero per la cresciuta
ansietà, con la speranza di essere sollevate da quella pena di
momento in momento.
Ma i minuti volavano con
vertiginosa rapidità, e Diego e Francesco non si vedevano.
Entrarono due uomini in blusa.
Sofia sussultò; Luisina disse subito:
- Non sono i nostri.
Erano due scalpellini che non
appartenevano alla fabbrica del Piloni; venivano però da
quella parte. Uno disse subito:
- Saranno dieci vittime...
forse venti!...
Un urlo formidabile gli
rispose, un urlo di terrore, di angoscia, di disperazione.
Le donne si precipitarono;
quelli dell'osteria vennero fuori; e le domande, le risposte, le
acclamazioni desolate si urtarono, s'incrociarono senza senso, senza
costrutto.
La corte era piena di gente
che pareva impazzita. Molti si avviavano di corsa verso Porta
Venezia, curiosi o allarmati. La moglie di un falegname che lavorava
anche lui dal Piloni era svenuta. Le donne la circondavano.
Luisina e Sofia, sempre alla
finestra dello studio, si tenevano per mano, così assorte nel
cruccioso aspettare che non sentivano i discorsi della gente; così
tormentate dal dubbio terribile, che non osavano scambiarsi una
parola né uno sguardo. Tremavano, e le loro mani si
stringevano sempre più forte per un impulso istintivo. A un
tratto Luisina sentì alcune donne esclamare: «Poveretta!
Poveretta!» e le parve che indicassero lei.
Il vecchio muratore Berini era
entrato nella corte volgendo intorno gli occhi spaventati, camminando
a casaccio. Pareva più curvo del solito e strascicava le
gambe. Di tratto in tratto alzava le braccia al cielo come se
l'avesse chiamato a testimonio di un fatto incredibile; poi le
lasciava ricadere inerti lungo il corpo; e scrollava la grossa testa
contornata di capelli bianchi.
Tutti tacevano intorno a lui,
impressionati; raccogliendo le sue tronche parole; interpretandone i
gesti.
Avendo scorto uno dei due
scalpellini entrato poco prima, il quale era suo amico, Berini andò
a lui e cominciò a parlargli con la foga di uno che ha bisogno
di gridare per sollevare l'animo oppresso.
- Sai tutto, tu?... Sai?...
No. Tu non puoi sapere! Io so. La crepa si vedeva da una settimana.
Dacchè le travi pesavano su quei muri di polenta!... E io
glielo dissi a quell'asino. Sai cosa mi ha risposto?... Che ero un
vigliacco, io, che avevo paura di tutto!... Vigliacco a me, figurati!
Questa mattina alle sei, per prima cosa vado a vedere la crepa: era
larga così!... Aspetto che arrivi quel bestione, e lo chiamo,
e gli dico: «Bisogna rimediare». E lui: «Va al
diavolo! Non sei buono di stuccarla? Quando non la vedrai più,
non avrai paura...» E rideva. Ora è successo quello che
è successo; e se non siamo morti tutti è un miracolo; e
lui, sai cosa dice? Che la colpa è nostra, che abbiamo
lavorato male per astio, per buscarci la mancia. L'ho sentito io!...
Quando però ha visto che tutti si rivoltavano ha fatto presto
a scappare!... Non lo pigliano più...
Suonarono in quel punto le
dodici e mezzo. Luisina e Sofia uscirono in una identica disperata
esclamazione:
- Non verranno più!...
Berini si voltò e le
vide, e nel suo volto si manifestò tanta compassione, che le
due infelici si sentirono come fulminate.
Era dunque vero?... Vero?!
L'orrido presentimento non le aveva ingannate!
- Giovanni! - chiamò la
stiratrice - Giovanni!...
Ma il vecchio non intese
quella voce morente, o non volle intenderla per non rispondere con
una parola fatale alla disperata domanda; e s'allontanò per
recare altrove la funesta novella e il suo rammarico di operaio
illibato e solerte, il suo rancore di vecchio insultato e deriso da
un cinico.
- Andiamo! - gridò
Sofia drizzandosi con energica risoluzione. - Andiamo a cercarli...
Vieni, Luisina...
Luisina, paralizzata dallo
spavento, non poteva muoversi. Le accadeva come tante volte accade
nei sogni, quando ci si sente rincorsi da un nemico, o minacciati da
un pericolo, o attesi ansiosamente da una persona cara; e si vorrebbe
volare, ma le gambe fatte pesanti non si muovono e par d'essere
appiccicati al suolo.
- Non puoi correre, Luisina? -
domandò Sofia disperata. - Fatti core, appoggiati a me; quando
saremo fuori, prenderemo una vettura. Muoviti per carità!
Voglio andare in cerca del mio Diego, io...
Con uno sforzo supremo Luisina
riuscì a fare alcuni passi.
Traversarono la corte,
uscirono: Sofia sorreggendo l'amica, quasi portandola.
Un fiaccheraio che transitava
senza carico le invitò a salire nel suo calesse.
- Al Lazzaretto! - gridò
Sofia appena furono sedute.
Il fiaccheraio comprese di che
si trattava e sferzò il cavalluccio.
Tutti sapevano ormai, e non si
parlava d'altro.
Lungo i marciapiedi i passanti
si arrestavano, formando dei capannelli intorno ai meglio informati
che narravano i particolari del disastro. E quelle due donne
scarmigliate, piangenti, portate via al trotto, erano seguite da
lunghi sguardi curiosi, commossi di sùbita pietà.
Ogni tratto sbucava un
muratore, o un garzone, da una scorciatoia, correndo, pallido,
ansimante, le vesti luride.
Subito la gente gli era
attorno e lo interrogava. Le risposte erano laconiche.
- Salvato!... Vado a casa a
farmi vedere dalle donne... che non si disperino.
E via di corsa.
- I nostri sono morti! -
esclamò Sofia a un certo punto mettendosi a singhiozzare più
forte. - Se non fossero morti si sarebbero già incontrati...
- No! Non è vero! -
gridò Luisina con un gesto disperato di diniego. Lo stesso
pensiero era sorto in lei, ma lo respingeva con tutte le forze
dell'anima. Guai se fossero morti!... Guai!... E la minaccia che si
formulava chiara e terribile nella sua coscienza le oscurava la
fronte e lampeggiava sinistramente nei grandi occhi vellutati.
Sul ponte di Porta Venezia
videro una donna che correva ansimando, la faccia intrisa di sudore,
i capelli incollati alle tempie; inciampava; a volte cadeva, ma
ritrovava la forza di rialzarsi e si rimetteva a correre, come pazza.
- La Tamburini!.. - disse
Luisa. - Poverina... come è ridotta!
La raggiunsero; fermarono il
legno e la fecero montare.
Ci volle un certo tempo prima
che la infelice si raccapezzasse. Quando fu seduta ed ebbe
riconosciuta la Terragni, volle ringraziarla, ma non potè. Non
le uscivano dalle labbra che suoni rotti e parole confuse.
Fuori di porta bisognò
andare al passo in mezzo alla folla enorme.
Il cocchiere si raccomandava
che lo lasciassero passare, che le donne da lui condotte avevano i
loro uomini laggiù fra le rovine, e smaniavano di vederli.
E la folla terrorizzata
guardava le sventurate, e faceva largo.
La fabbrica stava dinanzi a
loro e appariva intatta; la facciata non aveva sofferto alcun danno.
Eppure la gente si assiepava,
guardando con occhi intenti quel muro bucato da tante finestre che
nulla rivelavano della immane tragedia. Chi poteva aprirsi un varco
passava dall'altra parte. Altri salivano sui tetti delle case vicine.
Finalmente dopo lunghi sforzi
e molta pazienza, il cocchiere si trovò col suo legno sul
luogo del disastro. Dovette arrestarsi ad alcuni metri di distanza,
presso a una corda tesa. Le donne rimasero un istante senza
rifiatare, oppresse, sbigottite, incapaci di orizzontarsi, annientate
dall'orribile spettacolo a cui si affacciavano.
Nello spazio immediato,
circondati da alcune donne che piangevano e urlavano disperatamente,
due cadaveri erano distesi in terra, con la testa fracassata;
irriconoscibili.
Soldati e lavoranti andavano e
venivano con ceste e secchie, esportando il materiale scavato. I
lavori di salvataggio avvenivano di là da un alto muro, poichè
la rovina era interna. Nel quadrato d'angolo i piani si erano
inabissati uno nell'altro, e quella enorme congerie di travi, di
ferramenta, di pietre e di calcinacci aveva rotto col suo peso la
volta della cantina insieme alla quale era sprofondata nel vano delle
fondamenta. Dei quattro muri maestri, formanti il quadrato, uno -
quello verso corte - spaccato dall'alto al basso, minacciava di
rovinare completamente; gli altri rimanevano ritti, ma con larghi
squarci qua e là.
Si temeva che tutta la
fabbrica seguisse la parte precipitata nell'improvvisa voragine.
Dappertutto pompieri, soldati, operai guidati da qualche esperto
muratore e dagli ingegneri municipali, qua occupati all'opera di
salvataggio, là intenti a impedire nuove rovine e a renderle
meno pericolose.
Del capomastro Piloni neppure
l'ombra.
Chi narrava di averlo visto
scappare. Chi pretendeva invece che non fosse uscito di casa quella
mattina; altri, che appena udita l'antifona avesse preso il treno.
Un ometto sparuto si era
lasciato cadere su un mucchio di rottami e restava accasciato,
intontito.
- Il socio! - mormoravano
alcuni additandolo.
- Povero diavolo!
Ad ogni istante giungevano
nuove carrozze dalle quali scendevano giornalisti, uomini rivestiti
di qualche autorità cittadina, ufficiali, ingegneri,
capimastri, signori privati, creditori del Piloni. Anche Luisina e le
sue compagne erano discese e aspettavano di essere lasciate passare
come mogli di uomini addetti alla fabbrica e dei quali non avevano
notizia.
In quel momento un episodio
drammaticissimo attirava l'attenzione generale. Vedendo che il muro
smantellato era in grave pericolo di precipitare e temendo nuove
disgrazie, si erano sospesi gli scavi e si stava allontanando la
gente perchè i pompieri potessero atterrare quel muro così
minaccioso, allorchè un ragazzo dell'età apparente di
dodici o quattordici anni apparve a una finestra del terzo piano,
chiamando al soccorso, disperato, piangente.
Si fece un silenzio di tomba.
Poi, subito, per reazione, un gridare confuso, enorme.
- Casca! Dio! Dio! Casca!...
- Ah... Casca, casca!...
Una voce imperiosa comandava:
- In là, in là!
via!... Si sfascia il muro... Resterete sotto, tutti!
La gente indietreggiava. Ma un
momento dopo, spinta da una forza superiore perfino all'istinto della
conservazione, tornava al posto di prima, per rivedere quel
fanciullo, le cui povere mani violacee, ingranchite, si allentavano a
vista d'occhio.
- Coraggio! - gridavano alcuni
nella speranza di essere intesi. - Tienti forte! Ancora un momento!
Ora vengono!
- Indietro, perdio! indietro!
- ripigliava la voce imperiosa. Ma che!... Tempo perso. Nessuno
pensava a sè. Quel fanciullo teneva tutti i cuori sospesi.
Un pompiere intanto si dava
attorno per fermare una scala; cosa ardua e pericolosa con quel muro
mezzo rovinato. Appena vi potè riuscire, si lanciò,
leggiero e sicuro.
La folla tratteneva il
respiro.
In un lampo egli si trovò
al livello del fanciullo, lo afferrò e cominciò a
discendere, salutato da applausi, da grida trepidanti e ammirative.
- Purchè non crolli il
muro adesso! - gemevano i più spaventati.
Molti avevano riconosciuto il
fanciullo per un tale Ernesto Miani, e un muratore raccontava che al
momento della catastrofe doveva trovarsi sotto il tetto con altri due
ragazzi a mangiare; li aveva veduti lui; e temeva molto che gli altri
due fossero stati travolti.
Appena il fanciullo toccò
terra, una donna si gettò su di lui con un urlo. Era la povera
Tamburini impazzita dal terrore. Ella si figurava di rivedere il suo
Carlino e si avvinghiava disperatamente a quel fanciullo, che non la
conosceva e cercava di liberarsi da quella stretta con un senso di
ribrezzo.
- Povera Tamburini! Ha perso
la testa! - disse un muratore.
- La mamma di Carlino e di
Pietro? - esclamò di scatto il ragazzo. - Erano con me. Sono
cascati in fondo... li ho visti... io solo ho potuto attaccarmi
all'arpione...
E, ripreso dallo spavento,
tornò a singhiozzare convulsamente.
La Tamburini si guardò
attorno con gli occhi sbarrati, e scoppiò in una risata
spaventevole.
Il fracasso ed il denso
polverìo sollevato da un largo pezzo di muro che i pompieri
avevano atterrato, disperse un momento la folla e allontanò la
povera pazza dalla curiosità generale.
La confusione cresceva.
I muratori, che sapevano
d'avere altri compagni sepolti, si rimettevano a scavare insieme ai
soldati.
Sofia e Luisina si erano fatte
avanti.
- Diego! - gridò Sofia
al colmo della gioia, scorgendo lo scultore che lavorava a tutt'uomo
con la vanga. - Diego mio!...
- O Sofia!
Si abbracciarono piangendo,
ridendo, pronunciando parole sconnesse.
Quando vide Luisina, Diego si
vergognò quasi della propria fortuna, impallidì e restò
muto.
- E Francesco?... - domandò
la giovane con voce rotta.
- Non è qui?...
Dov'è?...
Diego cercava una frase che
velasse in parte l'orrore del vero; ma non riesciva a trovarla.
- Morto!?... - gridò
lei interpretando quel silenzio nel modo più tragico.
- No.... morto. Speriamo di
no....
- Ah!... È là
sotto!...
E si lanciò tra i
soldati, come ebbra.
Un momento prima, allorchè
aveva gridato: - «Morto!?» in fondo all'anima le rimaneva
la speranza occulta che qualcuno le rispondesse: «No;
salvo!».... - Ora quella speranza era distrutta e la terribile
verità non lasciava alcun posto alle attenuanti.... Egli era
là, sotto a quel cumulo di macerie, nell'improvvisa voragine;
se non morto, sepolto vivo! Ogni istante che fuggiva portava forse
con sè, nell'irredimibile passato, l'ultimo anelito di quella
vita.
- Qui! qui! - gridò un
soldato chiamando a sè i compagni. Tutti si precipitarono da
quella parte.
- Allontana Luisa - suggerì
Diego a Sofia.
Luisina intese, e con voce
morente supplicò:
- Non mi allontani!... Sarò
forte....
Sofia la strinse fra le sue
braccia.
Dovettero scostarsi un poco.
Era un silenzio funereo,
interrotto soltanto dai gemiti delle donne e dal rumore monotono
delle vanghe.
Gli scavatori andavano a
rilento misurando i colpi, scrutando il terreno, dominati, e a volte
paralizzati dal timore di far del male a quelli che volevano salvare.
Vi erano là dei
signori, nobili, ricchi, insigniti di alti gradi sociali, confusi
insieme ai poveri badilanti, e manovali laceri, sporchi.
Le insormontabili differenze
della società sembravano scomparse, come se il dolore umano,
supremo livellatore, le avesse in un sol colpo cancellate.
Un altro grido selvaggio
risuonò tra le rovine e un uomo, un'ombra d'uomo che pareva
uscito di sotto terra, tutto coperto di polvere e fango, si gettò
su i due piccoli cadaveri che i soldati deponevano con delicatezza
sopra una barella.
I muratori, davanti al dolore
dello sciagurato Tamburini, erano presi da un inconsapevole rispetto
per quell'uomo, già tante volte disprezzato per i suoi vizi e
le sue follie.
Dopo quell'urlo disperato egli
non emetteva neppure un gemito, lo sguardo fisso sui due cadaveri
orribilmente sfracellati.
E lo sguardo e il viso
stravolto dicevano solo quale fosse il suo strazio.
La misera madre era lontana,
in fondo al cortile esterno, presso all'omnibus dove erano i due
primi cadaveri: guardava dinanzi a sè, stralunata,
indifferente.
Le salme dei due fratelli - di
quei ragazzi fino a poche ore prima così rumorosi, allegri,
pieni di vita - furono portate in un altro omnibus: avvolte in un
panno perchè le povere membra restassero insieme; allora, il
padre e la madre si trovarono un istante faccia a faccia.
- Tu?! - ringhiò la
pazza riconoscendo il marito e ricuperando a un tratto la favella. -
Tu?
E si gettò su lui, i
pugni serrati, mitragliandolo sulla testa, sul viso, con una scarica
rabbiosa di colpi.
Era una strana forza irruente
che si manifestava in quel corpo sfinito.
L'uomo lasciava fare senza
difendersi, senza neppure scansarsi, gli occhi sempre fissi sui due
piccoli morti, le braccia inerti.
Alcuni particolari del tragico
episodio dei due ragazzi passavano già di bocca in bocca tra
la folla avida di notizie, che si addossava fitta fitta attorno allo
spazio circoscritto, stendendosi, poco meno densa, sul viale e fino
oltre il piazzale di Porta Venezia.
I più vicini si
spingevano innanzi a gomitate, vincendo ogni resistenza per vedere la
disgraziata madre e i due piccoli morti.
La ressa cresceva di minuto in
minuto.
Come Dio volle, i due omnibus
si misero in moto; un nugolo di gente andò loro dietro.
Un'ondata irrefrenabile separò
la pazza da suo marito e non pochi la sballottarono brutalmente senza
sapere che era appunto quella per cui tanto si intenerivano.
Alcuni pietosi, finalmente la
raccolsero e la condussero all'ospedale.
Gli scavi continuavano.
Una tenue speranza rinasceva
nell'anima di Luisa.
Forse Francesco non era morto,
né sepolto vivo... Forse era riuscito a fuggire; e mentre ella
agonizzava nella terribile aspettativa di vederlo estrarre di sotto
terra morto o morente, egli era corso a casa in traccia di lei per
dirle: Son qui!... Sono salvo!...
Ma la speranza le morì
nel cuore una seconda volta, guardando la faccia addolorata del
Martinelli.
- Chi manca ancora? - domandò
un signore della prefettura.
Un impiegato municipale, che
aveva preso nota dei nomi di quelli che non avevano risposto
all'appello, guardò la sua lista, poi disse:
- Non può mancarne che
uno, un certo Bitossi; ma potrebbe anche essere scappato nel primo
spavento e ricomparire... Ne abbiamo visti ricomparire cinque di
quelli che non risposero.
- Ma Bitossi non fu visto da
nessuno - osservò un assistente.
Il nome di Bitossi volò
di bocca in bocca. Invano. Nessuno si ricordava di averlo veduto dopo
il disastro; moltissimi prima; e tutti volevano precisare.
Era in solaio... sulle
scale... sul tetto... in cantina.
Non potevano andar d'accordo,
avevano perso la memoria; solo concordavano in questo: prima sì,
dopo no.
Martinelli non osava dire
quello che pensava. Vedeva Luisina dinanzi a sè, e quel viso
bianco, disfatto, quegli occhi bruciati dalla febbre gli toglievano
il coraggio.
Per lui non esisteva alcun
dubbio: Francesco giaceva laggiù, sotterrato.
Si ricordava di averlo visto
al momento della catastrofe, allorchè il vecchio Berini,
sempre attento, sempre vigile, si era messo a gridare: «Oh
ragazzi! La fabbrica la va all'inferno!» correndo con le sue
vecchie gambe come un giovane di venti anni.
Tutti si erano lanciati alla
rinfusa per la scala grande... e Bitossi avrebbe dovuto essersi
lanciato con loro, poichè era lì a pochi passi. Invece,
chi sa per qual motivo, egli non li aveva seguiti.
Probabilmente dal punto in cui
si trovava gli era parso di scendere più presto per la scala
C, quella che doveva precipitare l'istante appresso.
Appena riavuto dalla follia
del terrore che lo aveva fatto correre all'impazzata insieme agli
altri sei o sette che si erano salvati con lui, il buon Martinelli
aveva cercato l'amico credendo che fosse lì poco discosto. E
quando gli dissero che Francesco non era fuggito con loro egli provò
lo stesso terrore provato prima al formidabile rumore delle travi
schiantate, dei muri rovinanti, dei cinque piani inabissati;
soltanto, invece di scappare, ritornò con la stessa furia al
luogo del disastro né più se ne staccò.
Un dubbio l'opprimeva: il
dubbio che Bitossi non avesse voluto salvarsi.
E come le ore passavano e
l'ultima illusoria speranza che Bitossi fosse fuggito da un'altra
parte svaniva, il dubbio si mutava in una spaventosa certezza.
A forza di pensare lo scultore
si compenetrava dello stato d'animo dell'amico suo e si rendeva conto
di tutto. Essendo a giorno dei pasticci fatti dal Piloni, Bitossi
doveva essersi esagerata la propria responsabilità; e il
tumulto angoscioso della coscienza sgominata doveva essere stato così
potente in lui da paralizzare la forza dell'istinto. Invece di
fuggire, aveva pensato ai compagni in pericolo, per correre a
salvarli.
Intanto la catastrofe era
avvenuta; i cinque piani si erano inabissati... ed egli era stato
miseramente travolto.
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