XV
NELLE ROVINE
I lavori di salvataggio,
interrotti per qualche ora venivano ripresi.
I soldati si davano il cambio
a ore fisse. Anche gli astanti mutavano. Soltanto Luisina, Diego e
Sofia rimanevano imperterriti.
Tutto il giorno; tutta la
notte; una lunga, crudele agonia, attraversata da sprazzi luminosi di
folli speranze che si estinguevano rapidamente come fuochi fatui.
Anche il Berini era
sopraggiunto, e le sue indicazioni guidavano il lavoro degli
scavatori.
Di quando in quando, come
ripreso da una idea fissa, egli ripeteva le parole del capomastro:
«Se la crepa vi fa paura, copritela: non la vedrete più
e non avrete più paura».
Oramai, tra gl'illesi, i
feriti ed i morti tutti gli operai si erano ritrovati... meno il
Bitossi. Egli solo mancava.
Non si scavava che per lui:
vivo o morto, si doveva trovarlo. Spaventosa certezza.
Il povero Piola rimaneva come
ebete, non osando moversi né parlare, raggomitolato in un
angolo, e tanto piccino che nessuno badava alla sua presenza.
Soltanto a notte avanzata egli
sembrò uscire dal suo instupidimento e cominciò a
vagolare come un'ombra intorno alle rovine di quella casa, già
tanto cara al suo cuore e fonte di ambizioni ubbriacanti, trasformata
improvvisamente nella voragine che inghiottiva il frutto di tutta una
vita di lavoro e di sacrifizi.
Vinto dall'attrazione
irresistibile dell'orrore, egli si accostò al gruppo di quelli
che scavavano, e contemplò quella scena paurosa,
fantasticamente illuminata dalle torcie a vento. Celato nell'ombra,
egli sentì le imprecazioni monotone del Berini; vide le
lagrime scorrere in silenzio sulle guancie affossate della Terragni:
osservò la mesta pietà di Sofia, la paziente operosità
dei soldati e il dolore concentrato del Martinelli.
Vide e comprese. Saturo di
terrore, incapace di stare fermo, voltò via bruscamente e
ricominciò a vagolare come un ebbro.
Andava di qua e di là
senza scopo, senza meta; si arrestava senza ragione apparente e
rimaneva immobile delle mezz'ore, contemplando quella parte della
fabbrica non rovinata, ma in pericolo di rovinare. Pronunciava parole
sconnesse, faceva dei calcoli sulle dita; si batteva il capo; cadeva
affranto nella polvere, poi balzava in piedi di scatto e si rimetteva
a camminare di un passo risoluto, come se avesse preso una grande
determinazione, che si risolveva in nulla.
La notte era meravigliosa.
Intorno alle dieci si levò la luna e inargentò il
paesaggio gittando una falsa nota d'idillio là dove le più
basse passioni avevano insanguinata la terra.
L'acqua del Redefossi
luccicava come acciaio brunito al piede del bastione coronato dai
suoi ippocastani ancora folti di foglie ingiallite.
Sul viale della
circonvallazione e in tutto il quartiere del Lazzaretto la folla,
diradata, persisteva.
La notizia della disgrazia,
diffusa oramai in tutta la città, aveva destato una commozione
straordinaria. Sempre nuovi curiosi arrivavano per vedere la fabbrica
rovinata. Quelli che passavano di là per caso, in carrozza o a
piedi, si fermavano ugualmente.
E ciascuno aveva il suo
commento, sensato o assurdo, quasi sempre ingiurioso pei capimastri
in generale e per i due proprietari della fabbrica in particolare; o
per gl'ingegneri del Municipio, o per i tempi moderni.
Ambrogio Piola, celato
nell'ombra, ascoltava i discorsi e i giudizi, giusti o strampalati;
ascoltava gli insulti. E sentiva il nome suo, fino allora illibato,
confuso col nome del disonesto speculatore, del ladro, di cui egli
pure era vittima.
Che cosa avrebbe fatto per
convincere il mondo che lui non aveva alcuna colpa di quella
catastrofe, che il Piloni gli metteva in conto come roba di prima
qualità tutto quel materiale vecchio, scadente?
Il processo...
Sì; un processo si
sarebbe fatto certamente; ed egli avrebbe detto tutto e provato il
suo asserto con testimoni, per discolparsi e salvare almeno l'onore,
l'unico bene che gli rimanesse.
Egli si rianimava così,
fantasticando una solenne rivendicazione.
Più tardi, verso
mezzanotte, allorchè la folla era dileguata e soltanto alcuni
capannelli si formavano ancora, il disgraziato industriale sentì
un discorso che distrusse la sua ultima illusione. Il suo buon nome
era perduto come il resto.
Discorrevano cinque o sei
signori evidentemente molto pratici di affari. Forse qualcuno era
ingegnere o architetto o capomastro; in ogni modo le loro parole
erano di persone che giudicano con cognizione di causa.
Piola ascoltava con tanta
maggiore attenzione, giacchè alcune di quelle voci gli erano
note.
Dopo varie osservazioni
assennate uno disse:
- E quel Piola, che asino!
Lasciarsi imbrogliare così stupidamente, non capire che le
cose andavano a rotta di collo?
- Non se ne intende di
costruzioni, il Piola, povero diavolo! - entrò a dire un altro
disposto al compatimento.
- O perchè ci s'è
messo? Doveva accontentarsi della sua industria che gli fruttava
discretamente. Il fatto è che lui ha voluto arricchirsi per
pagare i capricci alla bella moglie che lo ricompensa come si
deve!...
E la brigata si allontanò
ridacchiando con la serena indifferenza di chi ha la sua casa
solidamente piantata e non vuol saperne di malinconie.
Ah! il povero fabbricante di
cementi ne aveva sentite troppe. Il mondo gli appariva spietato,
odiosa la vita.
Ritornò su i suoi
passi, rasentando i muri; si sprofondò nelle tenebre del
Lazzaretto, fra le demolizioni; andò errando pei larghi spazi,
pronti a ricevere le nuove costruzioni, le nuove strade; giunse fino
al cimitero di San Gregorio; vide lume nel deposito; pensò ai
quattro morti che aspettavano un altro compagno di sventura per
essere portati fuori di là ad altro cimitero; e un nuovo
terrore l'assalse e lo ricacciò verso le rovine, là
dove i soldati e i muratori continuavano a scavare e Luisina
aspettava da tante ore che fosse estratto il corpo del suo Francesco.
Era il cuor della notte.
La grande città
s'addormentava; dormiva; ma come gli antichi hanno immaginato che
dormisse Argo, spiando le tenebre con alcuni de' suoi occhi.
Non più rumori di
carrozze nelle strade deserte; non più voci umane allegramente
loquaci; non suoni di strumenti nelle osterie, né gaie
canzoni; soltanto, a intervalli, vicino o lontano, un passo di
nottambulo affrettato che se ne andava zufolando un motivo per
levarsi di dosso l'uggia di quel silenzio e di quella solitudine.
Nessun altro rumore determinato, riconoscibile, eccetto che il
fischio di qualche locomotiva e il tetro, sinistro picchiare degli
scalpelli e dei picconi nella voragine della casa rovinata. Ma tutto
intorno, in alto e in basso, un bisbiglio, sordo, indistinto, un
rumore inafferrabile e opprimente, come il respiro poderoso di un
mostro assopito.
Luisina non si allontanava un
momento dagli scavatori, e Sofia non voleva abbandonarla. Tutte e
due, estenuate e stanchissime, non avevano un pensiero per sè
medesime.
E se qualcuno le consigliava
ad andare a casa per riposarsi, Luisina ribatteva:
Come! Adesso dovrei andarmene?
Dopo tanto tempo che sono qui dovrei andarmene via adesso che siamo
alla fine e presto ritroveranno il mio povero Francesco?!...
Ed erano così
commoventi le sue parole, che nessuno osava insistere.
La sua anima affranta si
lasciava ancora trasportare da una fugace speranza, che le acuiva lo
spasimo.
Nello sfinimento delle forze
il suo dolore si trasformava; giunta all'estremo limite la sofferenza
morale diventava quasi esclusivamente fisica. Così, ella non
pensava più alla eterna separazione, né al perduto
amore, né a quel suo ultimo sogno di felicità
irreparabilmente distrutto. Il pensiero e quello che noi chiamiamo il
sentimento, erano vinti, schiacciati. Una sola immagine terrorizzante
le empiva il cervello convulso, ed era l'immagine di Francesco, già
cadavere, sanguinolento, deformato, recante le traccie irrefragabili
di una lunga, spaventosa agonia. Poi l'incubo mutava divenendo sempre
più opprimente: non era un cadavere quell'informe avanzo di
creatura: la vita animava ancora quel tronco orribilmente mutilato, e
uno spasimo senza nome sconvolgeva i lineamenti del volto eh'ella
stentava a riconoscere.
- Francesco! Francesco! -
gridava fuori di sè, quasi demente.
- Ancora nulla! - annunziava
il vecchio muratore con la voce fioca.
I picconi e le zappe
continuavano a scavare.
Nulla ancora. Nulla.
Nei momenti dell'ossessione
acuta Luisina provava realmente, nella testa e in tutte le membra, le
torture che immaginava. Allora ella desiderava instintivamente che
Francesco fosse morto subito e che il suo corpo non si trovasse.
Tutto, piuttosto che rivederlo in quello stato e avere la conferma
spaventosa dell'eterna, orrenda agonia.
Ai primi chiarori dell'alba un
pompiere che era penetrato nel vano delle fondamenta gridò con
voce strozzata:
- A me!... Aiuto!...
Luisina si gittò
innanzi la prima; un impeto disperato le ridonava la forza e il
coraggio.
- Francesco!... Francesco!...
- Di qua... di qua!... -
gridava il pompiere.
- Fate adagio!...
- Per carità... Respira
ancora!... Adagio.
- Oh! Francesco! Oh!
Francesco!...
Ella non faceva che ripetere
questo nome ed era un urlo, un singulto che le schiantava il petto.
Adagio adagio, con infinite
precauzioni, i pompieri e i soldati portarono il sepolto vivo fuori
delle rovine e lo deposero su una barella.
Tutti gli astanti lo
circondarono, pallidi, ansiosi, gli occhi pieni di lagrime.
Anche i poveri soldati
piangevano, e il freddo acuto dell'alba autunnale diacciava il sudore
sulle loro fronti.
Nessuno osava parlare.
Soltanto Luisina, che non vedeva nessuno e si era inginocchiata
presso alla barella, andava ripetendo il suo grido straziante:
- Francesco! Oh! Francesco!
Francesco giaceva immobile e
le sue membra parevano intatte, ma le vesti aggrovigliate sul ventre,
ingrommate di sangue e sabbia, indicavano l'orrenda ferita. Il medico
d'ispezione si chinò su lui, lo esaminò ed essendosi
assicurato che respirava, cercò di farlo rinvenire. Lo sguardo
con cui Luisina seguiva tutti i movimenti del dottore faceva correre
un fremito nelle vene agli astanti.
- Francesco! Oh! Francesco!...
Egli aprì gli occhi
finalmente, e il primo sguardo vago, velato, uno sguardo pieno di
morte, fu per lei che spasimava.
Dopo un istante sembrò
riconoscerla. Le smorte labbra si agitarono; per uno sforzo supremo
tutti i nervi della faccia si mossero; ma la voce non venne.
Luisina si curvò su di
lui per raccogliere quel bisbiglio confuso. Lo baciò
teneramente, ed ebbe la gioia suprema di sentirsi baciata.
Raggiante, stava per gridare:
- Sei salvo! Guarirai!...
Ma vide la bocca, dischiusa al
bacio, serrarsi in una convulsione; vide le pupille torbide sparire
nelle orbite dilatate. Il terrore l'agghiacciò.
- Francesco! Non morire! Non
lasciarmi... Francesco!...
Egli sembrò
comprendere. Il viso nerastro tradì un ultimo sforzo
terribile, che andò sommerso
nella invadente paralisi.
- Muore! - sentenziò il
medico.
Ancora una convulsione
suprema, un tremito di tutte le membra, poi nulla: l'eterna
rigidezza.
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