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Vincenzo Monti
Poesie

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  • Parte I LIRICHE
    • Prosopopea di Pericle
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Parte I

LIRICHE

 

Prosopopea di Pericle

 

ALLA SANTITÀ DI PIO VI

 

Io de’ forti Cecropidi

Nell’inclita famiglia

D’Atene un non ultimo

Splendor e maraviglia,

A riveder io Pericle

Ritorno il ciel latino,

Trïonfator de’ barbari,

Del tempo e del destino.

In grembo al suol di Catilo

(Funesta rimembranza!)

Mi seppellì del Vandalo

La rabbia e l’ignoranza.

Ne ricercaro i posteri

Gelosi il loco e l’orme,

E il fato incerto piansero

Di mie perdute forme.

Roma di me sollecita

Se ’n dolse, e a’ figli sui

Narrò l’infando eccidio

Ove ravvolto io fui.

Carca d’alto rammarico

Se ’n dolse l’infelice

Del marmo freddo e ruvido

Bell’arte animatrice;

E d’Adrïano e Cassio,

Sparsa le belle chiome,

Fra gl’insepolti ruderi

M’andò chiamando a nome.

Ma invan; ché occulto e memore

Del già sofferto scorno,

Temei novella ingiuria,

Ed ebbi orror del giorno.

Ed aspettai benefica

Etade in cui sicuro

Levar la fronte, e l’etere

Fruir tranquillo e puro.

Al mio desir propizia

L’età bramata uscío,

E tu sul sacro Tevere

La conducesti, o Pio.

Per lei già l’altre caddero

Men luminose e conte,

Perchè di Pio non ebbero

L’augusto nome in fronte.

Per lei di greco artefice

Le belle opre felici

Van del furor de’ secoli

E dell’obblio vittrici.

Vedi dal suolo emergere

Ancor parlanti e vive

Di Perïandro e Antistene

Le sculte forme argive.

Da rotte glebe incognite

Qua mira uscir Biante,

Ed ostentar l’intrepido

Disprezzator sembiante:

sollevarsi d’Eschine

La testa ardita e balda,

Che col rival Demostene

Alla tenzon si scalda.

Forse restar doveami

Fra tanti io sol celato,

E miglior tempo attendere

Dall’ordine del fato?

Io che d’etàfulgida

Più ch’altri assai son degno?

Io della man di Fidia

Lavoro e dell’ingegno?

Qui la fedele Aspasia

Consorte a me diletta,

Donna del cor di Pericle,

Al fianco suo m’aspetta.

Fra mille volti argolici

Dimessa ella qui siede,

E par che afflitta lagnisi,

Che il volto mio non vede.

Ma ben vedrallo: immemore

Non son del prisco ardore:

Amor lo desta, e serbalo

Dopo la tomba Amore.

Dunque a colei ritornano

I Fati ad accoppiarmi,

Per cui di Samo e Carnia

Ruppi l’orgoglio e l’armi?

Dunque spiranti e lucide

Mi scorgerò dintorno

Di tanti eroi le immagini

Che furo ellèni un giorno?

Tardi nepoti e secoli,

Che dopo Pio verrete,

Quando lo sguardo attonito

Indietro volgerete,

O come fia che ignobile

allor vi sembri e mesta

La bella età di Pericle

Al paragon di questa!

Eppur d’Atene i portici,

I templi e l’ardue mura

Non mai più belli apparvero

Che quando io l’ebbi in cura.

Per me nitenti e morbidi

Sotto la man de’ fabri

Volto e vigor prendevano

I massi informi e scabri:

Ubbidïente e docile

Il bronzo ricevea

I capei crespi e tremoli

Di qualche ninfa o dea.

Al cenno mio le parie

Montagne i fianchi apriro,

E dalle rotte viscere

Le gran colonne usciro.

Si lamentaro i tessali

Alpestri gioghi anch’essi

Impoveriti e vedovi

Di pini e di cipressi.

Il fragor dell’incudini,

De’ carri il cigolío,

De’ marmi offesi il gemere

Per tutto allor s’udío.

Il cielo arrise: Industria

Corse le vie d’Atene,

E n’ebbe Sparta invidia

Dalle propinque arene.

Ma che giovò? Dimentici

Della mia patria i Numi,

Di Roma alfin prescelsero

Gli altari ed i costumi.

Grecia fu vinta, e videsi

Di Grecia la ruina

Render superba e splendida

La povertà latina.

Pianser deserte e squallide

Allor le spiagge achive,

E le bell’arti corsero

Del Tebro su le rive.

Qui poser franche e libere

Il fuggitivo piede,

E accolte si compiacquero

Della cangiata sede.

Ed or fastose obbliano

L’onta del goto orrore,

Or che il gran Pio le vendica

Del vilipeso onore.

Vivi, o signor. Tardissimo

Al mondo il Ciel ti furi,

E con l’amor de’ popoli

Il viver tuo misuri.

Spirto profan, dell’Erebo

All’ombre avvezzo io sono;

Ma i voti miei non temono

La luce del tuo trono.

Anche del greco Elisio

Nel disprezzato regno

V’è qualche illustre spirito,

Che d’adorarti è degno.




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