DONNA COSTANZA BRASCHI ONESTI NATA FALCONIERI
NIPOTE DI PIO VI.
Degl’incostanti
secoli
Propagator divino,
Alle cittadi incognito
Negletto peregrino,
Io ti saluto, o
tenera
De’ cor conquistatrice:
Amor son io, ravvisami;
Ascolta un infelice.
Si bagneran di
lagrime
I tuoi vezzosi rai,
Se la crudele istoria
Di mie vicende udrai.
Luce del mondo
ed anima,
Dal ciel mandato io venni;
E primo i dolci palpiti
Dell’uman cuore ottenni.
Duce natura e
regola
A’ passi miei si fea:
Ed io contento e docile
Su l’orme sue correa.
Di sacri
alterni vincoli
Congiunsi allor le genti,
E all’armonia dell’ordine
Tutte avvezzai le menti.
L’uomo alla sua
propaggine
E all’amistade inteso
Lieto vivea, nè oppresselo
Delle sue brame il peso.
Virtude e Amor
sorgevano
Con un medesmo volo;
Ed eran ambo un impeto,
Un sentimento solo.
Amor vegliava
ai talami,
Amor sedea sul core:
Le leggi, i patti, i limiti,
Tutto segnava Amore.
Ma quando si
cangiarono
In cittadine mura
I patrii campi, e videsi
L’Arte cacciar Natura;
Fra l’uom e
l’uom, fra il vario
Moltiplicar d’oggetti,
Nuovi bisogni emersero
E mille nuovi affetti.
La consonanza
ruppesi;
L’ira, il livor, l’orgoglio
Della ragion più debole
Si disputaro il soglio.
Allora io caddi:
e termine
Ebbe il mio santo impero,
E le conquiste apparvero
D’usurpator straniero.
Rival possente,
ei d’ozio
E di lascivia nacque:
Nome d’Amor gli diedero
Le cieche genti, e piacque.
Vago figliuol
di Venere
Poi lo chiamò la folle
Teologia di Cecrope,
E templi alzar gli volle:
Aurea farètra
agli omeri,
Diede alla mano il dardo,
Gli occhi di bende avvolsegli,
E lo privò del guardo.
A far dell’alme
strazio
Venne così quel crudo
Di ree vicende artefice,
Fanciul bendato e nudo.
Le delicate e
timide
Virtudi in ceppi avvinse,
E co’ delitti il perfido
In amistà si strinse.
Entro i vietati
talami
Il piè furtivo ei mise;
E su le piume adultere
Lasciò l’impronta, e rise.
Per la vendetta
argolica
Volar su la marina
Fe’ mille navi, e d’Ilio
Le spinse alla ruina:
Di sangue e di
cadaveri
Crebbe la frigia valle,
Nè trovò Xanto al pelago
Fra tante membra il calle.
Taccio (feral
spettacolo!)
Le colpe e le tenzoni,
Ond’ei d’Europa e d’Asia
Crollò sovente i troni:
Taccio la fe’,
la pubblica
Utilità, gli onori,
Dover, giustizia e patria,
Prezzo d’infami ardori.
Calcò
quell’empio i titoli
Di madre e di sorella,
E mescolanza orribile
Trasse da questa e quella.
Natura allor di
lacrime
Versò dagli occhi un fonte,
E torse il piè, coprendosi
Per alto orror la fronte.
Pians’io con
essa; e profugo
Dalle cittadi impure
Corsi ne’ boschi a gemere
Su l’aspre mie sventure.
Rozzi colà
m’accolsero
Pastori e pastorelle,
Che m’insegnaro a tessere
Le lane e le fiscelle.
Guidai con loro
i candidi
Armenti alla collina,
E con diletto al vomere
Stesi la man divina.
Su l’orme mie
poi vennero
Altre Virtù smarrite
A ricercar ricovero
Da quel crudel tradite.
Sentì la selva
il giungere
Delle celesti dive,
E dier di gioia un fremito
Le conoscenti rive:
Spirto
acquistar pareano
L’erbette, i fiori e l’onde,
Parean di miele e balsamo
Tutte stillar le fronde:
Gli amplessi
raddoppiarono
Le giovinette spose;
E a’ vecchi padri il giubilo
Spianò le fronti annose.
Così fur fatte
ospizio
Della Virtù le selve,
Sole così rimasero
Nella città le belve.
Ma pure ancor
nel carcere
Di queste tane aurate,
Che fabbricò degli uomini
La stolta vanitate,
Qualche bel cor
magnanimo
Chiaro brillar si vide,
Qual astro che de’ nuvoli
Fra il denso orror sorride.
A qual orecchio
è povera
de’ pregi tuoi la Fama?
Alunna delle Grazie,
Del Tebro onor ti chiama.
Darti l’udii
d’ingenua
E di pietosa il vanto;
E i dolci modi e teneri
Narrar, dell’alme incanto.
Bramai vederti;
e timido
D’oltraggi in suol nemico
Sembianza presi ed abito,
Di peregrin mendico.
Maggior del
grido è il merito:
E nel sederti a lato
L’antica mi dimentico
Avversità del fato.
Deh, per le
guance eburnee
Che di rossor tingesti
Per gli occhi tuoi, deh, piacciati
Voler che teco io resti.
Io di virtudi
amabili
Sarò custode e padre;
E tu d’Amor, bellissima,
Ti chiamerai la madre.
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