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Vincenzo Monti
Poesie

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  • Parte I LIRICHE
    • Amor peregrino
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Amor peregrino

 

A. S. E. LA SIGNORA PRINCIPESSA

DONNA COSTANZA BRASCHI ONESTI NATA FALCONIERI

NIPOTE DI PIO VI.

 

Degl’incostanti secoli

Propagator divino,

Alle cittadi incognito

Negletto peregrino,

Io ti saluto, o tenera

De’ cor conquistatrice:

Amor son io, ravvisami;

Ascolta un infelice.

Si bagneran di lagrime

I tuoi vezzosi rai,

Se la crudele istoria

Di mie vicende udrai.

Luce del mondo ed anima,

Dal ciel mandato io venni;

E primo i dolci palpiti

Dell’uman cuore ottenni.

Duce natura e regola

A’ passi miei si fea:

Ed io contento e docile

Su l’orme sue correa.

Di sacri alterni vincoli

Congiunsi allor le genti,

E all’armonia dell’ordine

Tutte avvezzai le menti.

L’uomo alla sua propaggine

E all’amistade inteso

Lieto vivea, oppresselo

Delle sue brame il peso.

Virtude e Amor sorgevano

Con un medesmo volo;

Ed eran ambo un impeto,

Un sentimento solo.

Amor vegliava ai talami,

Amor sedea sul core:

Le leggi, i patti, i limiti,

Tutto segnava Amore.

Ma quando si cangiarono

In cittadine mura

I patrii campi, e videsi

L’Arte cacciar Natura;

Fra l’uom e l’uom, fra il vario

Moltiplicar d’oggetti,

Nuovi bisogni emersero

E mille nuovi affetti.

La consonanza ruppesi;

L’ira, il livor, l’orgoglio

Della ragion più debole

Si disputaro il soglio.

Allora io caddi: e termine

Ebbe il mio santo impero,

E le conquiste apparvero

D’usurpator straniero.

Rival possente, ei d’ozio

E di lascivia nacque:

Nome d’Amor gli diedero

Le cieche genti, e piacque.

Vago figliuol di Venere

Poi lo chiamò la folle

Teologia di Cecrope,

E templi alzar gli volle:

Aurea farètra agli omeri,

Diede alla mano il dardo,

Gli occhi di bende avvolsegli,

E lo privò del guardo.

A far dell’alme strazio

Venne così quel crudo

Di ree vicende artefice,

Fanciul bendato e nudo.

Le delicate e timide

Virtudi in ceppi avvinse,

E codelitti il perfido

In amistà si strinse.

Entro i vietati talami

Il piè furtivo ei mise;

E su le piume adultere

Lasciò l’impronta, e rise.

Per la vendetta argolica

Volar su la marina

Fe’ mille navi, e d’Ilio

Le spinse alla ruina:

Di sangue e di cadaveri

Crebbe la frigia valle,

trovò Xanto al pelago

Fra tante membra il calle.

Taccio (feral spettacolo!)

Le colpe e le tenzoni,

Ond’ei d’Europa e d’Asia

Crollò sovente i troni:

Taccio la fe’, la pubblica

Utilità, gli onori,

Dover, giustizia e patria,

Prezzo d’infami ardori.

Calcò quell’empio i titoli

Di madre e di sorella,

E mescolanza orribile

Trasse da questa e quella.

Natura allor di lacrime

Versò dagli occhi un fonte,

E torse il piè, coprendosi

Per alto orror la fronte.

Pians’io con essa; e profugo

Dalle cittadi impure

Corsi ne’ boschi a gemere

Su l’aspre mie sventure.

Rozzi colà m’accolsero

Pastori e pastorelle,

Che m’insegnaro a tessere

Le lane e le fiscelle.

Guidai con loro i candidi

Armenti alla collina,

E con diletto al vomere

Stesi la man divina.

Su l’orme mie poi vennero

Altre Virtù smarrite

A ricercar ricovero

Da quel crudel tradite.

Sentì la selva il giungere

Delle celesti dive,

E dier di gioia un fremito

Le conoscenti rive:

Spirto acquistar pareano

L’erbette, i fiori e l’onde,

Parean di miele e balsamo

Tutte stillar le fronde:

Gli amplessi raddoppiarono

Le giovinette spose;

E a’ vecchi padri il giubilo

Spianò le fronti annose.

Così fur fatte ospizio

Della Virtù le selve,

Sole così rimasero

Nella città le belve.

Ma pure ancor nel carcere

Di queste tane aurate,

Che fabbricò degli uomini

La stolta vanitate,

Qualche bel cor magnanimo

Chiaro brillar si vide,

Qual astro che de’ nuvoli

Fra il denso orror sorride.

A qual orecchio è povera

de’ pregi tuoi la Fama?

Alunna delle Grazie,

Del Tebro onor ti chiama.

Darti l’udii d’ingenua

E di pietosa il vanto;

E i dolci modi e teneri

Narrar, dell’alme incanto.

Bramai vederti; e timido

D’oltraggi in suol nemico

Sembianza presi ed abito,

Di peregrin mendico.

Maggior del grido è il merito:

E nel sederti a lato

L’antica mi dimentico

Avversità del fato.

Deh, per le guance eburnee

Che di rossor tingesti

Per gli occhi tuoi, deh, piacciati

Voler che teco io resti.

Io di virtudi amabili

Sarò custode e padre;

E tu d’Amor, bellissima,

Ti chiamerai la madre.




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