Dunque fu di
natura ordine e fato,
Che di là donde il bene ne deriva,
Del mal pur anco scaturir dovesse
La torbida sorgente? Oh saggio! oh
solo
A me rimasto negli avversi casi
Consolator, che non torcesti mai
Dalle pene d’altrui lungi lo
sguardo,
E scarso di parole e largo d’opre
Co’ benefizi al mio dolor
soccorri,
Gismondo, e qual di gioie e di
martíri
Portentosa mistura è il cuor
dell’uomo!
Questa parte di me, che sente e
vede,
Questo di vita fuggitivo spirto
Che mi scalda le membra e le
penètra,
Con quale ardor, con qual diletto
un tempo
Scorrea pe’ campi di natura, e
tutte
A me dintorno rabbellía le cose!
Or s’è cangiato in mio tiranno, in
crudo
Carnefice, che il frale, onde son
cinto,
Romper minaccia, e le corporee
forze,
Qual tarlo roditor, logora e
strugge.
Giorni beati,
che in solingo asilo
Senza nube passai, chi vi
disperse?
Ratti qual lampo che la buia notte
Segna talor di momentaneo solco,
E su gli occhi le tenebre
raddoppia
Al pellegrin che si sgomenta e
guata,
Qual mio fallo v’estinse? e tanto
amara
Or mi rende di voi la rimembranza,
Che pria sì dolce mi scendea sul
core?
Allorchè il
Sole (io lo rammento spesso)
D’Orïente sul balzo compariva
A risvegliar dal suo silenzio il
mondo,
E agli oggetti rendea più vivi e
freschi
I color che rapiti avea la sera,
Dall’umile mio letto anch’io
sorgendo
A salutarlo m’affrettava, e fiso
Tenea l’occhio a mirar come
nascoso
Di là dal colle ancora ei fea da
lunge
Degli alti gioghi biondeggiar le
cime;
Poi, come lenta in giù scorrea la
luce
Il dorso imporporando e i fianchi
alpestri,
E dilatata a me venía d’incontro,
Che a’ piedi l’attendea della
montagna.
Dall’umido suo sen la terra allora
Su le penne dell’aure mattutine
Grata innalzava di profumi un
nembo;
E altero di sè stesso, e
sorridente
Su i benefizi suoi l’aureo pianeta
Nel vapor, che odoroso ergeasi in
alto,
Gía rinfrescando le divine chiome,
E fra il concento degli augelli e
il plauso
Delle create cose egli sublime
Per l’azzurro del ciel spingea le
rote.
Allor sul
fresco margine d’un rivo
M’adagiava tranquillo in su
l’erbetta,
Che lunga e folta mi sorgea
dintorno,
E tutto quasi mi copriva: ed ora
Supino mi giacea, fosche mirando
Pender le selve dall’opposta
balza,
E fumar le colline, e tutta in
faccia
Di sparsi armenti biancheggiar la
rupe;
Or rivolto col fianco al
ruscelletto,
Io mi fermava a riguardar le nubi,
Che tremolando si vedean riflesse
Nel puro trapassar specchio
dell’onda:
Poi, del gentil spettacolo già
sazio,
Tra i cespi, che mi fean corona e
letto,
Si fissava il mio sguardo, e
attento e cheto
Il picciol mondo a contemplar
poneami,
Che tra gli steli brulica
dell’erbe,
E il vago e vario degl’insetti
ammanto,
E l’indole diversa e la natura.
Altri a torma e fuggenti in lunga
fila
Vengono e van per via carchi di
preda,
Altri sta solitario, altri l’amico
In suo cammino arresta, e con lui
sembra
Gran cose conferir: questi d’un
fiore
L’ambrosia sugge e la rugiada, e
quello
Al suo rival ne disputa l’impero;
E venir tosto a lite, ed
azzuffarsi,
E avviticchiati insieme ambo
repente
Giù dalla foglia sdrucciolar li
vedi.
Nè valor manca in quegli angusti
petti,
Previdenza, consiglio, odio ed
amore.
Quindi alcuni tra lor miti e pietosi
Prestansi aíta ne’ bisogni; assai
Migliori in ciò dell’uom, che al
suo fratello
Fin nella stessa povertà fa
guerra:
Ed altri poscia, da vorace istinto
Alla strage chiamati ed
agl’inganni,
Della morte d’altrui vivono, e
sempre
Del più gagliardo, come avvien tra
noi,
O del più scaltro la ragion
prevale.
Questi gli
oggetti, e questi erano un tempo
Gli eloquenti maestri, che di pura
Filosofia m’empian la mente e il
petto;
Mentre soave mi sentía sul volto
Spirar del Nume onnipossente il
soffio,
Quel soffio che le viscere
serpendo
Dell’ampia terra, e ventilando il
chiuso
Elementar foco di vita, e tutta
La materia agitando, e le seguaci
Forme che inerti le giaceano in
grembo,
L’une contro dell’altre in bel
conflitto
Arma le forze di natura, e tragge
Da tanta guerra l’armonia del
mondo.
Scorreami quindi per le calde vene
Un torrente di gioia, e discendea
Questo vasto universo entro mia
mente,
Or come grave sasso che nel mezzo
Piomba d’un lago, e l’agita e
sconvolge,
E lo fa tutto ribollir dal fondo;
Or come immago di leggiadra
amante,
Che di grato tumulto i sensi
ingombra,
E serena sul cor brilla e riposa.
Ma più quell’io
non son. Cangiaro i tempi,
Cangiâr le cose. Della gioia
estremo
Regnò sull’alma il sentimento:
estremi
Or vi regnano ancora i miei martíri.
E come stenderò su le ferite
L’ardita mano, e toglieronne il
velo?
Una fulgida chioma al vento
sparsa,
Un dolce sguardo ed un più dolce
accento,
Un sorriso, un sospir dunque
potero
Non preveduto suscitarmi in seno
Tanto incendio d’affetti e tanta
guerra?
E non son questi i fior, queste le
valli,
Che già parver sì belle agli occhi
miei?
Chi di fosco le tinse? e chi sul
ciglio
Mi calò questa benda? Ohimè!
l’orrore,
Che sgorga di mia mente e il cor
m’allaga,
Di natura si sparse anche sul
volto,
E l’abbuiò. Me misero! non veggo
Che lugubri deserti: altro non odo
Che urlar torrenti e mugolar
tempeste.
Dovunque il passo e la pupilla
movo
Escono d’ogni parte ombre e paure,
E muta stammi e scolorita innanzi
Qual deforme cadavere la terra.
Tutto è spento per me. Sol vive
eterno
Il mio dolor, nè mi riman conforto
Che alzar le luci al cielo, e
sciormi in pianto.
Ah che mai vagheggiarti io non
dovea,
Fatal beltade! Senza te venuto
Questo non fôra orribil
cangiamento.
Girar tranquillo sul mio capo
avrei
Visto i pianeti, e più tranquilla
ancora
La mia polve tornar donde fu
tolta.
Ma in que’ vergini labbri, in que’
begli occhi
Aver quest’occhi inebrïati, e
dolce
Sentirmi ancor nell’anima rapita
Scorrere il suono delle tue
parole;
Amar te sola, e rïamato amante
Non essere felice; e veder quindi
Contra me, contra te, contra le
voci
Di natura e del ciel sorger
crudeli
Gli uomini, i pregiudizi e la
fortuna;
Perder la speme di donarti un
giorno
Nome più sacro che d’amante, e
caro
Peso vederti dal mio collo
pendere,
E d’un bacio pregarmi, e d’un
sorriso
Con angelico vezzo:
abbandonarti...
Obblïarti, e per sempre... Ah
lungi, lungi,
Feroce idea; tu mi spaventi, e
cangi
Tutta in furor la tenerezza mia.
Allor requie non trovo. Io m’alzo
e corro
Forsennato pe’ campi, e di lamenti
Le caverne rïempio, che dintorno
Risponder sento con pietade.
Allora
Per dirupi m’è dolce inerpicarmi,
E a traverso di folte irte
boscaglie
Aprir la via col petto, e del mio
sangue
Lasciarmi dietro rosseggianti i
dumi.
La rabbia, che per entro mi divora,
Di fuor trabocca. Infiammansi le
membra,
L’anelito s’addoppia, e piove a
rivi
Il sudor dalla fronte rabbuffata.
Più scabrezza al sentier, più
forza al piede,
Più ristoro al mio cor: finchè
smarrito,
Di balza in balza valicando,
all’orlo
D’un abisso mi spingo. A
riguardarlo
Si rizzano le chiome e il piè
s’arretra.
A poco a poco quel terror poi
cede,
E un pensiero sottentra ed un
desío,
Disperato desío. Ritto su i piedi
Stommi, ed allargo le tremanti
braccia
Inclinandomi verso la vorago.
L’occhio guarda laggiuso, e il cor
respira,
E immaginando nel piacer mi perdo
Di gittarmi là dentro, onde a’
miei mali
Por termine, e nei vortici
travolto
Romoreggiar del profondo torrente.
Codardo! ancora non osai dall’alto
Staccar l’incerto piede, e coraggioso
In giù col capo rovesciarmi.
Ancora
Al suo fin non è giunta la mia
polve,
E un altro istante mi condanna il
fato
Di questo sole a contemplar
l’aspetto.
Oh! perchè non poss’io la mia
deporre
D’uom tutta dignitade, e andar confuso
Col turbine che passa, e su le
penne
Correr del vento a lacerar le
nubi,
O su i campi a destar dell’ampio
mare
Gli addormentati nembi e le
procelle!
Prigioniero mortal! dunque non fia
Questo diletto un dì, questo
destino
Parte di nostra eredità? Qualunque
Mi serbi il ciel condizïon di
spirto,
Perchè, Gismondo, prolungar
cotanto
Questo lampo di luce? Un sol
potea,
Un solo oggetto lusingarmi: il
cielo
Al mio desire invidïollo, e l’odio
Mi lasciò della vita e di me
stesso.
Tu di Sofia cultor felice, e
speglio
Di candor, d’amistade e cortesia,
Tu per me vivi, e su l’acerbo caso
Una stilla talor spargi di pianto,
O generoso degli afflitti amico.
Allorchè d’un bel giorno in su la
sera
L’erta del monte ascenderai
soletto,
Di me ti risovvenga, e su quel
sasso,
Che lagrimando del mio nome
incisi,
Su quel sasso fedel siedi e
sospira.
Volgi il guardo di là verso la
valle,
E ti ferma a veder come da lunge
Su la mia tomba invia l’ultimo
raggio
Il sol pietoso e dolcemente il
vento
Fa l’erba tremolar che la ricopre.
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