Stendi, fido
amor mio, sposa diletta,
A quell’arpa la man, che la soave
Dolce fatica di tue dita aspetta:
Svegliami
l’armonia ch’entro le cave
Latebre alberga del sonoro legno,
E de’ forti pensier volgi la
chiave:
Ch’io le vene
tremar sento e l’ingegno,
Ed agitarsi all’appressar del dio
Sul crin l’alloro e di furor dar
segno.
Ove, Febo, mi
traggi? ove son io?
Non è questa la Senna e la famosa
Riva che tanto di veder desìo?
Salve, o fiume
che l’onda glorïosa
Dell’Ilisso vincesti e dell’Eurota
E fai quella del Tebro andar
pensosa!
Qual t’è maniera
di bell’opra ignota?
Qual fonte ascoso di saper?
qual’arte?
E chi, dovunque il sol volge la
rota,
Chi meglio
parla al cor, verga le carte?
Qual più bella ed al ciel terra
gradita
Della terra che in grembo ha
Bonaparte?
Oh più che
d’arme, di valor vestita,
Gallica Libertà, a cui sola diede
La ragion di Sofia principio e
vita!
Di te tremano i
troni; ed al tuo piede
Palpitanti i tiranni, pace pace
Gridan, giurando riverenza e fede:
Ma se fede è
sul labbro, il cor fallace
Sol di sangue ragiona e di vendetta,
Che in re vili e superbi unqua non
tace.
Oh cara, oh
santa Libertà, che stretta
Di nodi ti rinfranchi, e vie più
bella
Da’ tuoi mali risorgi e più
perfetta!
Alma d’invidia
e di vil odio ancella,
Alma avara e crudel non è tua
figlia,
Nè cui febbre d’orgoglio il cor
martella.
Libera è l’alma
che gli affetti imbriglia,
Libero l’uomo cui ragion corregge
E onor giustizia cortesia
consiglia:
Liberi tutti,
se dover ne regge
In pria che dritto e santità ne
guida
Più di costumi che poter di legge.
Queste cose io
volgea dentro la fida
Mente segreta, allor che voce
acuta
In suon di doglia e di pietà mi
grida:
Ah che nel
petto de’ miei figli è muta
La virtù di che parli, o
pellegrino!
Disse; e in pianto la voce andò
perduta.
Mi volsi; e in
volto che apparía divino
Donna vidi seder, che della manca
Fa letto al capo dolorato e chino.
La destra in
grembo dolcemente stanca
Cade e posa. Degli occhi io non
favello,
Che son due rivi; e più piange,
più manca
Del conforto la
voglia. Al piè sgabello
Le fan rotti un diadema ed uno
scetro,
E di Bruto l’insegna è il suo
cappello.
Volea parlarle
e dimandar: ma dietro
Tomba aprirsi m’intesi, e la
figura
Mi sopravvenne d’un orrendo
spetro.
Impetrommi le
membra la paura;
E trema la memoria al rio
pensiero,
Che vivo nella mente ancor mi
dura.
Più che buio
d’inferno ei fosco e fiero
Portava il ciglio, e livido
l’aspetto
D’un cotal verde che moría nel
nero.
Dalle occhiaie,
dal naso e dall’infetto
Labbro la tabe uscía sanguigna e
pesta,
Che tutto gli rigava il mento e il
petto:
E scomposte le
chiome in su la testa
D’irti vepri parean selva
selvaggia,
Ch’aspro il vento rabbuffa e la
tempesta.
Striscia di
sangue il collo gli viaggia,
Che della scure accenna la
percossa:
Il capo ne vacilla, e par che
caggia.
Stracciato e
sparso d’aurei gigli indossa
Manto regal, che il marcio corpo e
guasto
Scopre al mover dell’anca e le
scarne ossa,
E de’ vermi
rivela il fiero pasto,
Che nel putrido ventre cavernoso
Brulicando per fame avean
contrasto.
All’apparir che
fece il tenebroso
Regal fantasma, la donna affannata
Il mesto sollevò ciglio pensoso:
E a lui che
intorno avidamente guata
Fra téma e sdegno: A che venisti,
disse,
O fatal di Capeto ombra spietata?
Non rispose il
crudel; ma obliquo fisse
Gli occhi no, ma degli occhi le caverne
In ella; ed ella in lui gli occhi
rifisse.
Così guatârsi
entrambi; e nell’interne
Del cor latèbre ognun si
penetrava,
Chè il pensier per la vista ancor
si scerne.
L’un d’ira, e
l’altra di terror tremava.
Superbamente alfin l’ombra si
mosse,
E a cadenza le lunghe orme
alternava.
Con feroce
dispetto al piè chinosse
Di quella dolorosa; il calpestato
Scettro raccolse, ed alto in man
lo scosse;
Poi l’infranto
diadema insanguinato
Sul capo impose, e lo calcò sì
forte,
Che il crin ne giacque oppresso e
imprigionato.
Allor si feo
gigante; e colle torte
Vuote lucerne disfidar parea
Europa e l’altre tre sorelle a
morte.
Facea tre
passi; e al terzo si volgea
In sui calcagni eretto e sui
vestigi;
E ad ogni passo di terror crescea.
È sacro a
Libertà luogo in Parigi,
Ove pose la dea suo trono immoto
Quando sdegnosa ne balzò Luigi.
Ivi seduti e
liberi in lor vóto
Stan cinquecento, che alle sante
leggi
Per cinquecento fantasie dan moto.
O tu che su le
carte il senno leggi
Di quel consesso che in Atene il
crime
Punía de’ numi da’ tremendi seggi,
O la severa
maestà sublime
Di quei coscritti che in muta
terra
Reggean col cenno dalle sette
cime;
Di questi
ond’io ti parlo, in mente afferra
I magnanimi sensi e la grandezza
Ma non l’ira il furor, l’odio, la
guerra.
Qual
dell’Euripo è il flutto che si spezza
Contro gli scogli della rauca
Eubèa,
Tal di questi il fracasso e la
fierezza:
Nè diversa era
l’onda cïanea,
O quella che soffrì di Serse il
ponte
Quando al cozzo d’Europa Asia
correa.
Improvviso, e
sembiante ad arduo monte,
Qui comparve lo spettro maledetto:
Tremâr gli scanni, e i crin
rizzarsi in fronte.
Stette in
mezzo, girò torvo l’aspetto,
E stendendo la man spolpata e
lunga,
Con lo scettro toccò questo e quel
petto.
Come è scosso
colui che il dito allunga
Al leidense vetro che fiammeggia
E par che snodi i nervi e li
trapunga,
Così del crudo
ai colpi arde e vampeggia
Ogni seno percosso, e amor, disio
Dell’estinto tiranno i cuor
dardeggia.
E subito un
tumulto un mormorío,
E d’accenti un conflitto e di
pensieri
Da quelle bocche fulminanti uscío;
E parole di
morte onde que’ feri
Van susurrando, simiglianti a
tuono
Che iracondo del ciel scorre i
sentieri:
Tremò di
Libertade il santo trono;
Tremò Parigi, intorbidossi Senna
Alle spade civili in abbandono:
Ma di Vandea le
valli e di Gebenna
Si rallegrâr le rupi, ed un
muggito
Mandâr di gioia alla mal vinta
Ardenna.
L’Istro udillo;
e levò più ch’anzi ardito
Il mozzo corno, e al suo scettrato
augello
Fe’ l’italo sperar nido rapito.
L’udì Sebeto, e
rise in suo bordello:
Roma udillo, e la lupa tiberina
Sollevò il muso e si fe’ liscio il
vello.
Ma la vergine
casta cisalpina
Mise un sospiro, e a quel sospir
snudati
Mille brandi fuggir dalla vagina;
Chè al dolor di
costei, di Francia i fati
Visti in periglio, alzâr la fronte
i figli
D’ira, di ferro e di pietade
armati;
E su i pugnali
tuttavia vermigli
Fêr di salvarla sacramento, tutti
Arruffando feroci i sopraccigli.
Di Sambra e
Mosa i bellicosi flutti
Risposero a quel giuro; e allor
non tenne
I rai la Donna di Parigi asciutti.
Chiudi la
bocca, ohimè! frena le penne,
Loquace fama, e fra’ nemici il
pianto
Deh non si sappia che colei
sostenne.
E voi che crudi
della madre il santo
Petto offendete, al suo tiranno
antico
Ricuperando la corona e il manto,
Al suo tiranno,
al suo tiranno, io dico;
Che tentate infelici? Ah! se tal
guerra
Le danno i figli, che farà il
nemico?
Già non più
vacillanti in su la terra,
Acquistan piede e fondamento i
troni;
Già Lamagna, già l’avida
Inghilterra
Fan su la Senna di lor voce i tuoni
Mormorar più possenti, a cui
risponde
Il signor de’ settemplici trïoni.
Già de’ suoi
vanni le dalmatich’onde
Copre l’aquila ingorda, a cui
cresciute
Son l’ugne che del Po perse alle
sponde;
E alla sua
vista pavide e sparute
Cela le corna l’ottomana luna,
E l’isolette dell’Egèo stan mute.
Tradita intanto
l’itala fortuna
Di voi duolsi, di voi che
libertade
Le contendete non divisa ed una,
E con furor che
in basse alme sol cade,
Tutto scoprendo all’inimico il
fianco,
In voi stessi volgete empi le
spade.
Già non aveste il
cor sì baldo e franco,
Quando su l’Alpi la tedesca e
sarda
Rabbia ruggiva; e non avea pur
anco
Di Bonaparte
l’anima gagliarda
Le cozie porte superate, e doma
Di Piemonte la valle e la
lombarda.
Ei vi fe’ tersa
e lucida la chioma;
Ei, pugnando e vincendo e stanco
mai,
De’ vostri mali allevïò la soma:
Ei vi fe’
ricchi ed eleganti e gai,
Ei vi fece superbi; e se non
basta,
Ingrati e vili: e ciò fu colpa
assai.
Or dritto è ben
se della tanta e vasta
Sua fatica ed impresa una mercede
Sì ria gli torna, e infamia gli
sovrasta:
Dritto è ben se
l’Italia, che vi diede
D’auro e d’arte tesori, or la
meschina
Aíta indarno e libertà vi chiede.
Potè, oh
vergogna!, la virtù latina
Domar la greca, e libere le genti
Mandar, compenso della sua rapina:
E voi, Franchi,
di Bruto ai discendenti,
Voi premio d’amistà, premio
d’affanni,
Sol catene darete e tradimenti?
Deh! non rida
all’idea de’ nostri danni
La serva d’Europa, nè di voi sia
detta
Fra gli amici quest’onta e fra’
tiranni.
Non più spregio
di noi, non più negletta
L’itala sorte, e fra voi stessi
aperta
Non più lite, per dio, non più
vendetta!
O servitù tra
poco e dura e certa
Voi pur v’avrete; e giusta fia la
pena.
Ha cuor villano, e libertà non
merta
Chi l’amico
lasciò nella catena.
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