IDILLIO
Il giorno
ch’Ermïon, di Citerea
Alma prole e di Marte, iva di
Cadmo
All’eccelso connubio, e la seguía
Tutta fuor Giuno, degli Dei la
schiera,
Gratulando al marito e presentando
Di cari doni la beata sposa,
Col delio Apollo a salutarla
anch’esse
Comparvero le Muse. Una ghirlanda
Stringea ciascuna d’olezzanti
fiori
(Sempre olezzanti, perché mai non
muore
Il fior che da castalia onda è
nudrito);
E tal di quelli una fragranza
uscía,
Ch’anco i sensi celesti
inebbriava,
E tutta odor d’Olimpo era la
reggia.
De’ bei serti immortali adunque in
prima
Le divine sorelle incoronaro
Dell’aureo letto nuzïal la sponda;
Indi al canto si diero, e alle
carole.
Della danza Tersicore guidava
I volubili giri; e in queste note
L’amica degli eroi Callïopea
Col guardo in sè raccolto il
labbro apriva.
Beltà, raggio
di lui che tutto move,
Tu che d’amor le fiamme accendi, e
godi
Star di vergini intatte e di
fanciulli
Nelle nere pupille, in guardia
prendi
Di Venere la figlia, e al tempo
avaro
Non consentir che le tue rose
involi
Alle caste sue gote. A lei concedi
La non caduca gioventù de’ numi,
Ch’ella di numi è sangue; e come
belle
Tu festi, o diva, d’Ermïon le
forme,
Così virtude a lei fe’ bello il
core.
Immenso della luce eterno fonte
Vibra i suoi dardi il sole, e
nelle cose
Sveglia la vita; e tu, reina
eterna
De’ cor gentili, se bontà vien
teco,
L’amor risvegli che stagion non
perde,
E spargi di perenne alma dolcezza
Le perigliose d’Imeneo catene.
Bacia queste catene, inclito
figlio
D’Agenore; le bacia, ed in vederti
Genero eletto a due gran dii
t’allegra,
Ma cognato al tonante egíoco Giove
Non ti vantar, chè l’alta ira di
Giuno
Costar ti farà caro un tanto
onore.
Pur, dove avvenga che funesto
nembo
Turbi il sereno de’ tuoi dì, non
franga
L’avversità del fato il tuo
coraggio,
Chè a sè l’uom forte è dio. Tutte
egli preme
Sotto il piè le paure, e delle
Parche
Su ferrei troni alteramente assise
Con magnanima calma i colpi
aspetta.
Così cantava.
All’ultime parole,
Di non lieto avvenire annunziatrici,
Cadmo chinò pensoso il ciglio, e
scura
Nube di duolo d’Ermïon si sparse
Su la candida fronte. Anco de’
numi
Si contristâr gli aspetti, ed un
silenzio
Ne seguì doloroso. Allor la Diva
Col dolce lampo d’un sorriso
intera
Ridestando la gioia in ogni petto,
Sull’auree corde fe’ volar
quest’inno:
— Schietta
com’onda di petrosa vena
Delle Muse la lode i generosi
Spirti rallegra, e immortalmente
vive
L’alto parlar che dal profondo
seno
Trae dell’alma il furor che Febo
inspira,
Quando ai carmi son segno i fatti
egregi
De’ valorosi, o i peregrini
ingegni
Trovatori dell’arte onde si giova
L’umana stirpe, e si fa bello il
mondo.
Or di quante produsse arti
leggiadre
Il mortale intelletto aura divina,
Quale il canto dirà la più felice?
Te, di tutte bellissima e
primiera,
Che con rozze figure arditamente
Pingi la voce, e, color dando e
corpo
All’umano pensiero agli occhi il
rendi
Visibile: ed in tale e tanta luce,
Che men chiara del sol splende la
fronte,
Ei vola e parla a tutte genti, e
chiuso
Nelle tue cifre si conserva
eterno.
Dietro ai portenti che tu crei
smarrita
Si confonde la mente, e perde
l’ali
L’immaginar. Qual già fuori del
sacro
Capo di Giove orrendamente armata
Balzò Minerva, ed il paterno telo,
Cui nessuno de’ numi in sua possanza
Ardia toccar, trattò fiera
donzella,
E corse in Flegra a fulminar
tremenda
I figli della terra, e fe’ sicuro
Al genitore dell’Olimpo il seggio:
Tal tu pure, verace altra Minerva,
Dalla mente di Cadmo partorita,
E nell’armi terribili del vero
Fulminando atterrasti della cieca
Ignoranza gli altari, e la gigante
Forza frenasti dell’error, che,
stretta
Sul ciglio all’uomo la feral sua
benda,
Di spaventi e di larve
all’infelice
Ingombrava il cerèbro, e sì
regnava
Solo e assoluto imperador del
mondo.
Tale è il
mostro, o cadmèa nobile figlia,
A cui guerra tu rompi, e tanto hai
tolto
Già dell’impero ch’ogni sforzo è
indarno,
Se il ciel non crolla, a
sostenerlo in trono.
Di selvaggia per te si fa civile
L’umana compagnia; per te le fonti
Del saper, dilatate in mille rivi
E a tutte aperti, corrono veloci
Ad irrigar le sitibonde menti.
Per te più puro e in un di Dio più
degno
Si sublima il suo culto e con
amore
Al cor s’apprende da ragion
dettato;
Non da colei che in Aulide col
sangue
D’Ifigenia propizi invoca i venti,
E, spinta in ciel la fronte e
dell’eterno
Le sembianze falsando, spaventosa
Fra le nubi s’affaccia, e cupo
grida:
Chiudi gli occhi, uman verme, e
cieco adora.
Ma d’alta
sapienza uso amoroso
E della prima idea diritto spiro,
Filosofia coll’armi adamantine
Della scritta ragion l’orrenda
larva
Combatterà; vendicherà del nume
Da quell’empia converso in crudo
spettro
L’oltraggiata bontade; e l’uom per
vie
Tutte di luce al suo divin
principio
Fatto più presso, si farà più pio,
E dirà seco: De’ miei mali il
primo
E la prima mia morte è
l’ignoranza.
Tal era della
diva il canto arcano,
Della diva Calliope, a cui tutte
Stanno dinanzi le future cose,
E, secondo che il tempo le rivolve
Nel suo rapido corso, a tutte dona
E forma e voce e qualitade e vita
Con tal di sensi e di dottrine un
velo
Ch’occhio vulgar nol passa: onde
agli stolti
La delfica favella altro non
sembra
Che canora follía. Povero il senno
Che in quei deliri ascoso il ver
non vede!
Nè sa quanta de’ carmi è la
potenza
Su la reina opinïon che a nullo
De’ viventi perdona e a tutti
impera!
Stava tacito
attento alle parole
Profetiche di tanta arte il felice
Insegnatore; e nel segreto petto
Dell’alto volo, a cui l’uman
pensiero
Le ben trovate cifre avrían
sospinto,
Pregustava la gioia, e della sorte
Già tetragono ai colpi si sentía.
Preser le Muse da quel giorno
usanza
Di far liete de’ canti d’Elicona
Degli eccelsi le nozze, ovunque in
pregio
Son d’Elicona i dolci canti. Or
quale,
Qual v’ha sponda che sia, come
l’insúbre,
Dalle Grazie sorrisa e dalle Muse?
Qual tempio sorge a queste dee più
caro
Che l’eretto da te, spirto
gentile,
Nelle cui vene del Trivulzio
sangue
Vive intero l’onor? Alto fragore
D’oricalchi guerrieri e d’armi
orrende
Empiea, signor, le risonanti vôlte
Delle tue sale un dì, scuola di
Marte,
Quand’il grand’avo tuo, fulmin di
guerra,
Delle italiche spade era la prima.
Or che in regno di pace entro i
lombardi
Elmi la lidia tessitrice ordisce
L’ingegnosa sua tela, e col
ferrigno
Dente agli appesi avidi brandi il
lampo
La ruggine consuma, a te concede
Altra gloria e più bella e senza
pianti
Senza stragi e rovine il santo
amore
De’ miti studi del silenzio amici,
Che da Febo guidati e da Sofia
Traggon l’uom del sepolcro e il
fanno eterno.
Qui dell’arte di Cadmo e della sua
Imitatrice i monumenti accolti
Di grave meraviglia empion la
vista
De’ riguardanti: qui, di Pindo e
Cirra
Posti i gioghi in oblio, l’ascrèe
fanciulle
Fermano il seggio, e grato a te le
invia
Il gran padre Alighier che per te
monde
D’ogni labe contempla le severe
Del suo nobil Convito alte
dottrine.
Odi il suon delle cetre, odi il
tripudio
Delle danze, ed Amor vedi, che
gitta
Via le bende, e la terza e quarta
rosa
Del tuo bel cespo ad Imeneo
consegna:
Ed allegro Imeneo nel più ridente
Suol le trapianta che Panaro e
Trebbia
Irrigano di chiare onde felici;
E germogli n’aspetta che faranno
Liete d’odori e l’una e l’altra
riva
Di generose piante ambo superbe.
Or voi
d’ambrosia rugiadose il crine,
Il cui sorriso tutte cose abbella,
Voi dell’inclita Bice al fianco
assise,
Grazie figlie di Giove,
accompagnate
Le due da voi nutrite alme
donzelle;
E vengano con voi l’arti dilette
In che posero entrambe un lungo
amore,
L’animatrice delle tele, e quella
Che di musiche note il cor ricrea:
Onde la vita coniugal sia tutta
Di dolce aspersa e di ridenti idee
Simiglianti alle prime di natura
Vergini fantasie che in piante e
in fiori
Scherzano senza legge, e son più
belle.
E tu, ben nato
idillio mio, che i modi
Di Tebe osasti con ardir novello
All’avene sposar di Siracusa,
Vanne al fior de’ gentili, a lui
che fermo
Nella parte miglior del mio
pensiero
Tien della vera nobiltà la cima
E de’ cortesi è re, vanne e gli
porgi
Queste parole: Amico ai buoni, il
cielo
Di doppie illustri nozze oggi
beati
Rende i tuoi lari, ed il canuto e
fido
De’ tuoi studi compagno
all’allegrezza
Che l’anima t’innonda il suo
confonde
Debole canto che di stanco ingegno
Dagli affanni battuto è tardo
figlio;
Ma non è tardo il cor, che come spira
Riverente amistade, a te lo sacra.
Questo digli e non altro. E, s’ei
dimanda
Come del viver mio si volga il
corso,
Di’ che ad umil ruscello egli è
simíle,
Su le cui rive impetuosa e dura
I fior più cari la tempesta
uccise.
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