ALLA MARCHESA ANTONIETTA COSTA DI GENOVA
NELLE NOZZE
DEL MARCHESE BARTOLOMEO COSTA SUO FIGLIO
Audace scuola
boreal, dannando
Tutti a morte gli Dei, che di
leggiadre
Fantasie già fiorîr le carte
argive
E le latine, di spaventi ha pieno
Delle Muse il bel regno. Arco e
faretra
Toglie ad Amore, ad Imeneo la
face,
Il cinto a Citerea. Le Grazie
anch’esse,
Senza il cui riso nulla cosa è
bella,
Anco le Grazie al tribunal citate
De’ novelli maestri alto seduti,
Cesser proscritte e fuggitive il
campo
Ai lemuri e alle streghe. In
tenebrose
Nebbie soffiate dal gelato arturo
Si cangia (orrendo a dirsi!) il
bel zaffiro
Dell’italico cielo; in procellosi
Venti e bufere le sue molli
aurette;
I lieti allori dell’aonie rive
In funebri cipressi; in pianto il
riso;
E il tetro solo, il solo tetro è
bello.
E tu fra tanta,
ohimè! strage di numi
E tanta morte d’ogni allegra idea,
Tu del ligure olimpo astro
diletto,
Antonietta, a cantar nozze
m’inviti?
E vuoi che al figlio tuo, fior de’
garzoni,
Di rose còlte in Elicona io sparga
Il talamo beato? Oh me meschino!
Spenti gli Dei che del piacere ai
dolci
Fonti i mortali conducean, velando
Di lusinghieri adombramenti il
vero,
Spento lo stesso re de’ carmi
Apollo,
Chi voce mi darà, lena e pensieri
Al subbietto gentil convenïenti?
Forse l’austero genio inspiratore
Delle nordiche nenie? Ohimè! che,
nato
Sotto povero sole e fra i ruggiti
De’ turbini nudrito, ei sol di
fosche
Idee si pasce, e le ridenti
abborre,
E abitar gode ne’ sepolcri e tutte
In lugubre color pinger le cose.
Chiedi a costui di lieti fiori un
serto,
Onde alla sposa delle Grazie
alunna
Fregiarne il crin: che ti darà?
Secondo
Sua qualitade natural, null’altro
Che fior tra i dumi del dolor
cresciuti
Tempo già fu,
che, dilettando, i prischi
Dell’apollineo culto archimandriti
Di quanti la Natura in cielo e in terra
E nell’aria e nel mar produce
effetti,
Tanti numi crearo: onde per tutta
La celeste materia e la terrestre
Uno spirto, una mente, una divina
Fiamma scorrea, che l’alma era del
mondo.
Tutto avea vita allor, tutto animava
La bell’arte de’ vati. Ora il bel
regno
Ideal cadde al fondo. Entro la
buccia
Di quella pianta palpitava il
petto
D’una saltante Driade; e quel duro
Artico genio destruttor l’uccise.
Quella limpida fonte uscía
dell’urna
D’un’innocente Naiade; ed, infranta
L’urna, il crudele a questa ancor
diè morte.
Garzon superbo e di sè stesso
amante
Era quel fior; quell’altro al sol
converso,
Una ninfa, a cui nocque esser
gelosa.
Il canto che alla queta ombra
notturna
Ti vien sì dolce da quel bosco al
core,
Era il lamento di regal donzella
Da re tiranno indegnamente offesa.
Quel lauro onor de’ forti e de’
poeti,
Quella canna che fischia, e quella
scorza
Che ne’ boschi sabéi lagrime suda,
Nella sacra di Pindo alta favella
Ebbero un giorno e sentimento e
vita.
Or d’aspro gelo aquilonar percossa
Dafne morì; ne’ calami palustri
Più non geme Siringa; ed in quel
tronco
Cessò di Mirra l’odoroso pianto.
Ov’è l’aureo
tuo carro, o maestoso
Portator della luce, occhio del
mondo?
Ove l’Ore danzanti? ove i
destrieri
Fiamme spiranti dalle nari? Ahi
misero!
In un immenso, inanimato, immobile
Globo di foco ti cangiâr le nuove
Poetiche dottrine, alto gridando:
Fine ai sogni e alle fole, e regni
il vero.
Magnifico parlar! degno del senno
Che della Stoa dettò l’irte
dottrine,
Ma non del senno che cantò gli
errori
Del figliuol di Laerte e del
Pelide
L’ira, e fu prima fantasia del
mondo.
Senza portento, senza meraviglia
Nulla è l’arte de’ carmi, e mal
s’accorda
La meraviglia ed il portento al
nudo
Arido vero che de’ vati è tomba.
Il mar che regno in prima era d’un
dio
Scotitor della terra, e dell’irate
Procelle correttore, il mar,
soggiorno
Di tanti divi al navigante amici
E rallegranti al suon di tube e
conche
Il gran padre Oceáno ed Amfitrite,
Che divenne per voi? Un pauroso
Di sozzi mostri abisso. Orche
deformi
Cacciâr di nido di Nerèo le
figlie,
Ed enormi balene al vostro sguardo
Fûr più belle che Dori e Galatea.
Quel Nettuno che rapido da Samo
Move tre passi, e al quarto è
giunto in Ega;
Quel Giove che al chinar del sopracciglio
Tremar fa il Mondo, e allor
ch’alza lo scettro
Mugge il tuono al suo piede, e la
trisulca
Folgor s’infiamma di partir
bramosa;
Quel Pluto che al fragor della
battaglia
Fra gl’immortali, dal suo ferreo
trono
Balza atterrito, squarciata
temendo
Sul suo capo la terra e fra i
sepolti
Intromessa la luce, eran pensieri
Che del sublime un dì tenean la
cima.
Or che giacquer Nettuno e Giove e
Pluto
Dal vostro senno fulminati, ei
sono
Nomi e concetti di superbo riso,
Perchè il ver non v’impresse il
suo sigillo,
E passò la stagion delle pompose
Menzogne achèe. Di fè quindi più
degna
Cosa vi torna il comparir
d’orrendo
Spettro sul dorso di corsier
morello
Venuto a via portar nel pianto
eterno
Disperata d’amor cieca donzella,
Che abbracciar si credendo il suo
diletto,
Stringe uno scheltro spaventoso,
armato
D’un orïuolo a polve e d’una
ronca;
Mentre a raggio di luna oscene
larve
Danzano a tondo, e orribilmente
urlando
Gridano: pazïenza, pazïenza.
Ombra del grande Ettorre, ombra
del caro
D’Achille amico, fuggite, fuggite,
E povere d’orror cedete il loco
Ai romantici spettri. Ecco ecco il
vero
Mirabile dell’arte, ecco il
sublime.
Di gentil
poesia fonte perenne
(A chi saggio v’attigne),
veneranda
Mitica dea! qual nuovo error
sospinge
Oggi le menti a impoverir del
bello
Dall’idea partorito, e in te sì
vivo,
La delfica favella? E qual
bizzarro
Consiglio di Maron chiude e
d’Omero
A te la scuola, e ti consente poi
Libera entrar d’Apelle e di
Lisippo
Nell’officina? Non è forse
ingiusto
Proponimento, all’arte che sovrana
Con eletto parlar sculpe e colora,
Negar lo dritto delle sue sorelle?
Dunque di Psiche la beltade, o
quella
Che mise Troia in pianto ed in
faville,
In muta tela o in freddo marmo
espressa,
Sarà degli occhi incanto e
meraviglia;
E se loquela e affetti e moto e
vita
Avrà ne’ carmi, volgerassi in
mostro?
Ah, riedi al primo officio, o
bella diva,
Riedi, e sicura in tua ragion col
dolce
Delle tue vaghe fantasie l’amaro
Tempra dell’aspra verità. No ’l
vedi?
Essa medesma, tua nemica in vista,
Ma in segreto congiunta, a sè
t’invita
Chè non osando timida ai profani
Tutta nuda mostrarsi, il
trasparente
Mistico vel di tue figure implora,
Onde, mezzo nascosa e mezzo
aperta,
Come rosa che al raggio mattutino
Vereconda si schiude, in più desío
Pungere i cuori ed allettar le
menti.
Vien, chè tutta per te fatta più
viva
Ti chiama la natura. I laghi, i
fiumi,
Le foreste, le valli, i prati, i
monti,
E le viti e le spiche e i fiori e
l’erbe
E le rugiade e tutte alfin le cose
Da che fûr morti i numi, onde
ciascuna
Avea nel nostro immaginar vaghezza
Ed anima e potenza, a te dolenti
Alzan la voce e chieggono
vendetta.
E la chiede dal ciel la luna e il
sole
E le stelle, non più rapite in
giro
Armonïoso e per l’eterea vôlta
Carolanti, non più mosse da dive
Intelligenze, ma dannate al freno
Della legge che tira al centro i
pesi:
Potente legge di Sofia, ma nulla
Ne’ liberi d’Apollo immensi regni,
Ove il diletto è prima legge e
mille
Mondi il pensiero a suo voler si
crea.
Rendi dunque ad
Amor l’arco e gli strali,
Rendi a Venere il cinto; ed essa
il ceda
A te, divina Antonïetta, a cui
(Meglio che a Giuno nel meonio
canto)
Altra volta l’avea già conceduto,
Quando novella Venere di tua
Folgorante beltà nel vago aprile
D’amor l’alme rapisti, e mancò
poco
Che lungo il mar di Giano a te
devoti
Non fumassero altari e sacrifici.
Tu, donna di virtù, che all’alto
core
Fai pari andar la gentilezza e sei
Dolce pensiero delle Muse, adopra
Tu quel magico cinto a porre in
fuga
Le danzanti al lunar pallido
raggio
Malïarde del norte. Ed or che brilla
Nel tuo larario d’Imeneo la face,
Di Citerea le veci adempi, e desta
Ne’ talami del figlio, allo
splendore
Di quelle tede, gl’innocenti balli
Delle Grazie mai sempre a te
compagne.
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