PARTE III
CANTO PRIMO
Già vinta
dell’inferno era la pugna,
E lo spirto d’abisso si partìa
Vòta stringendo la terribil ugna.
Come lion per
fame egli ruggía
Bestemmiando l’Eterno, e le
commosse
Idre del capo sibilâr per via.
Allor timide
l’ali aperse e scosse
L’anima d’Ugo alla seconda vita
Fuor delle membra del suo sangue
rosse;
E la mortal
prigione ond’era uscita
Subito indietro a riguardar si
volse
Tutta ancor sospettosa e
sbigottita.
Ma dolce con un
riso la raccolse
E confortolla l’angelo beato
Che contro Dite a conquistarla
tolse.
E, Salve,
disse, o spirto fortunato,
Salve, sorella del bel numer una,
Cui rimesso è dal cielo ogni
peccato.
Non paventar:
tu non berai la bruna
Onda d’Averno, da cui volta è in
fuga
Tutta speranza di miglior fortuna.
Ma la giustizia
di lassù, che fruga
Severa, e in un pietosa in suo
diritto,
Ogni labe dell’alma ed ogni ruga,
Nel suo
registro adamantino ha scritto,
Che all’amplesso di Dio non
salirai
Finchè non sia di Francia ulto il
delitto.
Le piaghe
intanto e gl’infiniti guai,
Di che fosti gran parte, or per
emenda
Piangendo in terra e contemplando
andrai.
E supplicio ti
fia la vista orrenda
Dell’empia patria tua, la cui
lordura
Par che del puzzo i firmamenti
offenda;
Sì che l’alta
vendetta è già matura,
Che fa dolce di Dio nel suo
segreto
L’ira ond’è colma la fatal misura
a
Così parlava; e
riverente e cheto
Abbassò l’altro le pupille, e
disse:
Giusto e mite, o Signor, è il tuo
decreto.
Poscia l’ultimo
sguardo al corpo affisse
Già suo consorte in vita, a cui le
vene
Sdegno di zelo e di ragion
trafisse;
Dormi in pace,
dicendo, o di mie pene
Caro compagno, infin che del gran
die
L’orrido squillo a risvegliar ti
viene.
Lieve intanto
la terra e dolci e pie
Ti sian l’aure e le piogge, e a te
non dica
Parole il passeggier scortesi e
rie.
Oltre il rogo
non vive ira nemica,
E nell’ospite suolo, ov’io ti
lasso,
Giuste son l’alme, e la pietade è
antica.
Torse, ciò detto,
sospirando il passo
Quella mest’ombra, e alla sua
scorta dietro
Con volto s’avviò pensoso e basso;
Di ritroso
fanciul tenendo il metro,
Quando la madre a’ suoi trastulli
il fura,
Che il piè va lento innanzi e
l’occhio indietro.
Già di sua
veste rugiadosa e scura
Copría la notte il mondo, allor
che diero
Quei duo le spalle alle romulee
mura.
E nel levarsi a
volo ecco di Piero
Sull’altissimo tempio alla lor
vista
Un cherubino minaccioso e fiero
Un di quei
sette che in argentea lista
Mirò fra i sette candelabri
ardenti
Il rapito di Patmo evangelista.
Rote di fiamme
gli occhi rilucenti
E cometa che morbi e sangue adduce
Parean le chiome abbandonate ai
venti.
Di lugubre
vermiglia orrida luce
Una spada brandía, che da lontano
Rompea la notte e la rendea più
truce;
E scudo
sostenea la manca mano
Grande così, che da nemica offesa
Tutto copría coll’ombra il
Vaticano;
Come aquila che
sotto alla difesa
Di sue grand’ali rassicura i figli
Che non han l’arte delle penne a
appresa,
E, mentre la
bufera entro i covigli
Tremar fa gli altri augei, questi
a riposo
Stansi allo schermo de’ materni
artigli.
Chinarsi in
gentil atto ossequïoso,
Oltre volando, i due minori spirti
Dell’alme chiavi al difensor
sdegnoso.
Indi veloci in
men che nol so dirti
Giunsero dove gemebondo e roco
Il mar si frange tra le sarde
sirti.
Ed al raggio di
luna incerto e fioco
Vider spezzate antenne, infrante
vele,
Del regnator libecchio orrendo
gioco,
E sbattuti
dall’aspra onda crudele
Cadaveri e bandiere; e disperdea
L’ira del vento i gridi e le querele.
Sul lido
intanto il dito si mordea
La temeraria Libertà di Francia,
Che il cielo e l’acque disfidar
parea.
Poi del suo
ardire si battea la guancia,
Venir mirando la rival Brettagna
A fulminarle dritta al cor la
lancia,
E dal silenzio
suo scossa la Spagna
Tirar la spada anch’essa e la
vendetta
Accelerar d’Italia e di Lamagna:
Mentre il
Tirren che la gran preda aspetta
Già mormora e si duol che la sua
spuma
Ancor non va di franco sangue
infetta,
E l’ira nelle
sponde invan consuma,
Di Nizza inulto rimirando il lutto
Ed Oneglia che ancor combatte e
fuma.
Allor che vide
la ruina e il brutto
Oltraggio la francese anima
schiva,
Non tenne il ciglio per pietade
asciutto;
E il suo fido
condottier seguiva
Vergognando e tacendo, infin che
sopra
Fur di Marsiglia alla spietata
riva.
Di ferità, di
rabbia orribil opra
Ei vider quivi, e Libertà che
stolta
In Dio medesmo l’empie mani
adopra.
Videro, ahi
vista!, in mezzo della folta
Starsi una croce col divin suo
peso
Bestemmiato e deriso un’altra volta,
E a piè del
legno redentor disteso
Uom coperto di sangue tuttoquanto,
Da cento punte in cento parti
offeso.
Ruppe a tal
vista in un più largo pianto
L’eterea pellegrina; ed una vaga
Ombra cortese le si trasse a
canto.
Oh tu cui sì
gran doglia il ciglio allaga,
Pietosa anima, disse, che qui
giunta
Se’ dove di virtude il fio si
paga,
Sóstati e
m’odi. In quella spoglia emunta
D’alma e di sangue (e l’accennò),
per cui
Sì dolce in petto la pietà ti
spunta,
Albergo io
m’ebbi: manigoldo fui
E peccator, ma l’infinito amore
Di quei mi valse che morì per nui.
Perocchè dal
costoro empio furore
A gittar strascinato (ahi! parlo o
taccio?)
De’ ribaldi il capestro al mio
Signore,
Di man mi cadde
l’esecrato laccio,
E rizzârsi le chiome, e via per
l’ossa
Correr m’intesi e per le gote il
ghiaccio.
Di crudi colpi
allor rotta e percossa
Mi sentii la persona a, e quella
croce
Fei del mio sangue anch’io fumante
e rossa;
Mentre a Lui
che quaggiù manda veloce
Al par de’ sospir nostri il suo
perdono
Il mio cor si volgea più che la
voce.
Quind’ei
m’accolse Iddio clemente e buono,
Quindi un desir mi valse il
paradiso,
Quindi beata eternamente io sono.
Mentre l’un sì
parlò, l’altro in lui fiso
Tenea lo sguardo, e sì piangea,
che un velo
Le lagrime gli fean per tutto il
viso;
Simigliante ad
un fior che in su lo stelo
Di rugiada si copre in pria che il
sole
Co’ raggi il venga a colorar dal
cielo.
Poi, gli
amplessi mescendo e le parole,
De’ propri casi il satisfece
anch’esso,
Siccome fra cortesi alme si suole.
E questi, e
l’altro, e il cherubino appresso,
Adorando la croce e nella polve
In devoto cadendo atto sommesso,
Di Dio cantaro
la bontà che solve
Le rupi in fonte ed ha sì larghe
braccia
Che tutto prende ciò che a lei si
volve.
Sollecitando
poscia la sua traccia
L’alato duca, l’ombre benedette
Si disser vale e si baciaro in
faccia.
Ed una si
rimase alle vedette,
Ad aspettar che su la rea
Marsiglia
Sfreni l’arco di Dio le sue
saette.
Sovra il Rodano
l’altra il vol ripiglia,
E via trapassa d’Avignon la valle
Già di sangue civil fatta
vermiglia;
D’Avignon che,
smarrito il miglior calle,
Alla pastura intemerata e fresca
Dell’ovile roman volse le spalle,
Per gir co’
ciacchi di Parigi in tresca
A cibarsi di ghiande, onde la Senna,
Novella Circe a, gli amatori adesca.
Lasciò Garonna
addietro, e di Gebenna
Le cave rupi e la pianura immonda
Che ancor la strage camisarda
accenna.
Lasciò
l’irresoluta e stupid’onda
D’Arari a dritta, e Ligeri a
mancina,
Disdegnoso del ponte e della
sponda.
Indi varca la
falda tigurina,
A cui fe’ Giulio dell’augel di
Giove
Sentir la prima il morso e la
rapina.
Poi Niverno
trascorre, ed oltre move
Fino alla riva u’ d’Arco la
donzella
Fe’ contra gli Angli le famose
prove.
Di là ripiega
inverso la Rocella
Il remeggio dell’ali, e tutto mira
Il suol che l’aquitana onda
flagella.
Quindi ai
celtici boschi si rigira
Pieni del canto che il chiomato
bardo
Sposava al suon di bellicosa lira.
Traversa
Normandia, traversa il tardo
Sbocco di Senna e il lido che si
fiede
Dal mar britanno infino al mar piccardo.
Poi si converte
ai gioghi onde procede
La Mosa e al piano che la Marna lava,
E orror per tutto, e sangue e
pianto vede.
Libera vede
andar la colpa, e schiava
La virtù, la giustizia, e sue
bilance
In man del ladro e di vil ciurma
prava,
A cui le membra
grave-olenti e rance
Traspaiono da’ sai sdruciti e
sozzi,
Nè fur mai tinte per pudor le
guance.
Vede luride
forche e capi mozzi,
Vede piene le piazze e le contrade
Di fiamme, d’ululati e di
singhiozzi.
Vede in preda
al furor d’ingorde spade
Le caste chiese, e Cristo in
sacramento
Fuggir ramingo per deserte strade,
E i sacri
bronzi in flebile lamento
Giù calar dalle torri e liquefarsi
In rie bocche di morte e di
spavento.
Squallide vede
le campagne ed arsi
I pingui cólti, e le falci e le
stive
In duri stocchi e in lance
trasmutarsi.
Odi frattanto
risonar le rive
Non di giocondi pastorali accenti,
Non d’avene, di zuffoli e di pive,
Ma di tamburi e
trombe e di tormenti:
E il barbaro a soldato al
villanello
Le méssi invola e i lagrimati
armenti.
E invan si
batte l’anca il meschinello,
Invan si straccia il crin disperso
e bianco
In su la soglia del deserto
ostello:
Che non pago
d’avergli il ladron franco
Rotta del caro pecoril la sbarra,
I figli, i figli strappagli dal
fianco;
E del pungulo
invece e della marra
D’armi li cinge dispietate e
strane,
E la ronca converte in scimitarra.
All’orbo padre
intanto ahi! non rimane
Chi la cadente vita gli sostegna,
Chi sovra il desco gli divida il
pane.
Quindi lasso la
luce egli disdegna,
E brancolando per dolor già cieco
Si querela che morte ancor non
vegna;
Nè pietà di lui
sente altri che l’eco,
Che cupa ne ripete e lamentosa
Le querimonie dall’opposto speco.
Fremè d’orror,
di doglia generosa
Allo spettacol fero e miserando
La conversa d’Ugon alma sdegnosa,
E si fe’ del
color ch’il ciel è quando
Le nubi immote e rubiconde a sera
Par che piangano il dì che va
mancando.
E tutta pinta
di rossor com’era
Parlar, dolersi, dimandar volea,
Ma non usciva la parola intera;
Chè la piena
del cor lo contendea;
E tuttavolta il suo diverso
affetto
Palesemente col tacer dicea.
Ma la scorta
fedel, che dall’aspetto
Del pensier s’avvisò, dolce alla
sua
Dolorosa seguace ebbe sì detto:
Sospendi il tuo
terror, frena la tua
Indignata pietà, chè ancor non hai
Nell’immenso suo mar volta la
prua.
S’or sì forte
ti duoli, oh! che farai,
Quando l’orrido palco e la
bipenne...
Quando il colpo fatal..., quando
vedrai?...
E non finì; chè
tal gli sopravvenne
Per le membra immortali un
brividío,
Che a quel truce pensier troncò le
penne;
Sì che la voce
in un sospir morío.
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