CANTO SECONDO
Alle tronche
parole, all’improvviso
Dolor che di pietà l’angel
dipinse,
Tremò quell’ombra e si fe’ smorta
in viso;
E sull’orme
così si risospinse
Del suo buon duca che davanti
andava
Pien del crudo pensier che tutto
il vinse.
Senza far motto
il passo accelerava,
E l’aria intorno tenebrosa e mesta
Del suo volto la doglia
accompagnava.
Non stormiva
una fronda alla foresta,
E sol s’udía tra’ sassi il rio
lagnarsi,
Siccome all’appressar della
tempesta.
Ed ecco
manifeste al guardo farsi
Da lontano le torri, ecco
l’orrenda
Babilonia francese approssimarsi.
Or qui vigor la
fantasia riprenda,
E l’ira e la pietà mi sian la Musa
Che all’alto e fiero mio concetto
ascenda.
Curva la fronte
e tutta in sè racchiusa
La taciturna coppia oltre cammina;
E giunge alfine alla città
confusa,
Alla colma di
vizi atra sentina,
A Parigi, che tardi e mal si pente
Della sovrana plebe cittadina.
Sul primo
entrar della città dolente
Stanno il Pianto, le Cure e la Follía
Che salta e nulla vede e nulla
sente.
Evvi il turpe
Bisogno e la restía
Inerzia colle man sotto le ascelle
L’una all’altra appoggiati in
sulla via.
Evvi l’arbitra
Fame, a cui la pelle
Informasi dall’ossa e i lerci
denti
Fanno orribile siepe alle
mascelle.
Vi son le
rubiconde Ire furenti,
E la Discordia pazza il capo
avvolta
Di lacerate bende e di serpenti.
Vi son gli orbi
Desiri, e della stolta
Ciurmaglia i Sogni e le Paure
smorte
Sempre il crin rabbuffate e sempre
in volta.
Veglia custode
delle meste porte
E le chiude a suo senno e le
disserra
L’ancella e insieme la rival di
Morte;
La cruda, io
dico, furibonda Guerra
Che nel sangue s’abbevera e
gavazza
E sol del nome fa tremar la terra.
Stanle intorno
l’Erinni, e le fan piazza,
E allacciando le van l’elmo e la
maglia
Della gorgiera e della gran
corazza;
Mentre un
pugnal battuto alla tanaglia
De’ fabbri di Cocito in man le
caccia,
E la sprona e l’incuora alla
battaglia
Un’altra furia
di più acerba faccia,
Che in Flegra già del cielo
assalse il muro
E armò di Brïareo le cento
braccia,
E Dïagora
poscia e d’Epicuro
Dettò le carte, ed or le franche
scuole
Empie di nebbia e di blasfema
impuro,
E con sistemi e
con orrende fole
Sfida l’Eterno, e il tuono e le
saette
Tenta rapirgli e il padiglion del
sole.
Come vide le
facce maledette,
Arretrossi d’Ugon l’ombra turbata,
Chè in inferno arrivar la si
credette:
E in quel
sospetto sospettò cangiata
La sua sentenza, e dimandar volea
Se fra l’alme perdute iva dannata.
Quindi tutta
per téma si stringea
Al suo conducitor, che pensieroso
Le triste soglie già varcate avea.
Era il tempo
che tolto al procelloso
Capro, il sol monta alla troiana
stella
Scarso il raggio vibrando e
neghittoso;
E compito del dì
la nona ancella
L’officio suo, il governo
abbandonava
Del timon luminoso alla sorella:
Quando chiuso
da nube oscura e cava
L’angel coll’ombra inosservato e
queto
Nella città di tutti i mali
entrava.
Ei procedea
depresso ed inquïeto
Nel portamento, i rai celesti
empiendo
Di largo ad or ad or pianto
segreto;
E l’ombra si
stupía, quinci vedendo
Lagrimoso il suo duca e possedute
Quindi le strade da silenzio
orrendo.
Muto de’ bronzi
il sacro squillo, e mute
L’opre del giorno, e muto lo
stridore
Dell’aspre incudi e delle seghe
argute:
Sol per tutto
un bisbiglio ed un terrore,
Un domandare, un sogguardar
sospetto,
Una mestizia che ti piomba al
core;
E cupe voci di
confuso affetto,
Voci di madri pie, che
gl’innocenti
Figli si serran trepidando al
petto;
Voci di spose
che ai mariti ardenti
Contrastano l’uscita e sulle
soglie
Fan di lagrime intoppo e di
lamenti.
Ma tenerezza e
carità di moglie
Vinta è da furia di maggior
possanza,
Che dall’amplesso coniugal gli
scioglie.
Poichè fera
menando oscena danza
Scorrean di porta in porta
affaccendati
Fantasmi di terribile sembianza;
De’ Druidi i
fantasmi insanguinati,
Che fieramente dalla sete antiqua
Di vittime nefande stimolati,
A sbramarsi venían la vista obliqua
Del maggior de’ misfatti onde mai
possa
La loro superbir semenza iniqua.
Erano in veste
d’uman sangue rossa;
Sangue e tabe grondava ogni
capello,
E ne cadea una pioggia ad ogni
scossa.
Squassan altri
un tizzone, altri un flagello
Di chelidri e di verdi anfesibene,
Altri un nappo di tósco, altri un
coltello:
E con quei
serpi percotean le schiene
E le fronti mortali, e fean,
toccando
Con gli arsi tizzi, ribollir le
vene.
Allora delle
case infurïando
Uscían le genti, e si fuggía
smarrita
Da tutti i petti la pietade in
bando.
Allor trema la
terra oppressa e trita
Da cavalli, da rote e da pedoni;
E ne mormora l’aria sbigottita;
Simile al
mugghio di remoti tuoni,
Al notturno del mar roco lamento,
Al profondo ruggir degli aquiloni.
Che cor, misero
Ugon, che sentimento
Fu allora il tuo, che di morte vedesti
L’atro vessillo volteggiarsi al
vento?
E il terribile
palco erto scorgesti,
Ed alzata la scure, e al gran
misfatto
Salir bramosi i manigoldi e
presti;
E il tuo buon
rege, il re più grande in atto
D’agno innocente fra digiuni lupi,
Sul letto de’ ladroni a morir
tratto;
E fra i silenzi
delle turbe cupi
Lui sereno avanzar la fronte e il
passo
In vista che spetrar potea le
rupi?
Spetrar le rupi
e sciorre in pianto un sasso;
Non le galliche tigri. Ahi! dove
spinto
L’avete, o crude? Ed ei v’amava!
oh lasso!
Ma piangea il
sole di gramaglia cinto
E stava in forse di voltar le rote
Da questa Tebe che l’antica ha
vinto.
Piangevan
l’aure per terrore immote,
E l’anime del cielo cittadine
Scendean col pianto anch’esse in
su le gote;
L’anime che
costanti e pellegrine
Per la causa di Cristo e di Luigi
Lassù per sangue diventar divine.
Il duol di
Francia intanto e i gran litigi
Mirava Iddio dall’alto, e giusto e
buono
Pesava il fato della rea Parigi.
Sedea sublime
sul tremendo trono;
E sulla lance d’òr quinci ponea
L’alta sua pazïenza e il suo
perdono,
Dell’iniqua
città quindi mettea
Le scelleranze tutte; e nullo
ancora
Piegar de’ due gran carchi si
vedea.
Quando il
mortal giudizio e l’ultim’ora
Dell’augusto infelice alfin
v’impose
L’Onnipotente. Cigolando allora
Traboccâr le
bilancie ponderose:
Grave in terra cozzò la mortal
sorte,
Balzò l’altra alle sfere, e si
nascose,
In quel punto
al feral palco di morte
Giunge Luigi. Ei v’alza il guardo,
e viene
Fermo alla scala, imperturbato e
forte.
Già vi monta,
già il sommo egli ne tiene,
E va sì pien di maestà l’aspetto,
Ch’ai manigoldi fa tremar le vene.
E già battea
furtiva ad ogni petto
La pietà rinascente, ed anco parve
Che del furor svïato avría
l’effetto.
Ma fier
portento in questo mezzo apparve:
Sul patibolo infame all’improvviso
Asceser quattro smisurate larve,
Stringe ognuna
un pugnal di sangue intriso;
Alla strozza un capestro le
molesta;
Torvo il cipiglio, dispietato il
viso,
E scomposte le
chiome in su la testa,
Come campo di biada già matura
Nel cui mezzo passata è la
tempesta.
E sulla fronte
arroncigliata e scura
Scritto in sangue ciascuna il nome
avea,
Nome terror de’ regi e di natura.
Damiens l’uno,
Ankastrom l’altro dicea,
E l’altro Ravagliacco; ed il suo
scritto
Il quarto colla man si nascondea.
Da queste Dire
avvinto il derelitto
Sire Capeto dal maggior de’ troni
Alla mannaia già facea tragitto.
E a quel giusto
simíl che fra’ ladroni
Perdonando spirava ed esclamando:
Padre, padre, perchè tu
m’abbandoni?
Per chi a morte
lo tragge anch’ei pregando,
Il popol mio, dicea, che sì
delira,
E il mio spirto, Signor, ti
raccomando.
In questo dir
con impeto e con ira
Un degli spettri sospingendo il
venne
Sotto il taglio fatal; l’altro ve
’l tira.
Per le sacrate
auguste chiome il tenne
La terza furia, e la sottil
rudente
Quella quarta recise alla bipenne.
Alla caduta
dell’acciar tagliente
S’aprì tonando il cielo, e la
vermiglia
Terra si scosse e il mare
orribilmente.
Tremonne il
mondo, e per la maraviglia
E pel terror dal freddo al caldo
polo
Palpitando i potenti alzâr le
ciglia.
Tremò levante
ed occidente. Il solo
Barbaro celta, in suo furor più
saldo,
Del ciel derise e della terra il
duolo;
E di sua
libertà spietato e baldo
Tuffò le stolte insegne e le man
ladre
Nel sangue del suo re fumante e
caldo,
E si dolse che
misto a quel del padre
Quello pur anco non scorreva, ahi
rabbia!,
Del regal figlio e dell’augusta
madre.
Tal di lïoni un
branco, a cui non abbia
L’ucciso tauro appien sazie le
canne,
Anche il sangue ne lambe in su la
sabbia;
Poi ne’ presepi
insidïando vanne
La vedova giovenca ed il torello,
E rugghia, e arrota tuttavia le
zanne;
Ed ella, che i ruggiti ode al
cancello,
Di doppio timor trema, e di
quell’ugne
Si crede ad ogni scroscio esser
macello.
Tolta al dolor
delle terrene pugne
Apriva intanto la grand’alma il
volo,
Che alla prima cagion la
ricongiugne.
E ratto intorno
le si fea lo stuolo
Di quell’ombre beate, onde la fede
Stette e di Francia sanguinossi il
suolo.
E qual le corre
al collo, e qual si vede
Stender le braccia, e chi l’amato
volto
E chi la destra e chi le bacia il
piede.
Quando repente
della calca il folto
Ruppe un ombra dogliosa, e con un
rio
Di largo pianto sulle guance
sciolto,
Me, gridava, me
me lasciate al mio
Signor prostrarmi. Oh date il
passo! E presta
Al piè regale il varco ella
s’aprìo.
Dolce un guardo
abbassò su quella mesta
Luigi: e, Chi sei? disse; e qual
ti tocca
Rimorso il core? e che ferita è
questa?
Alzati, e
schiudi al tuo dolor la bocca.
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