Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Vincenzo Monti
Poesie

IntraText CT - Lettura del testo

  • PARTE III POEMETTI
    • In morte di Ugo Bassville
      • CANTO SECONDO
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

CANTO SECONDO

 

Alle tronche parole, all’improvviso

Dolor che di pietà l’angel dipinse,

Tremò quell’ombra e si fe’ smorta in viso;

E sull’orme così si risospinse

Del suo buon duca che davanti andava

Pien del crudo pensier che tutto il vinse.

Senza far motto il passo accelerava,

E l’aria intorno tenebrosa e mesta

Del suo volto la doglia accompagnava.

Non stormiva una fronda alla foresta,

E sol s’udía tra’ sassi il rio lagnarsi,

Siccome all’appressar della tempesta.

Ed ecco manifeste al guardo farsi

Da lontano le torri, ecco l’orrenda

Babilonia francese approssimarsi.

Or qui vigor la fantasia riprenda,

E l’ira e la pietà mi sian la Musa

Che all’alto e fiero mio concetto ascenda.

Curva la fronte e tutta in racchiusa

La taciturna coppia oltre cammina;

E giunge alfine alla città confusa,

Alla colma di vizi atra sentina,

A Parigi, che tardi e mal si pente

Della sovrana plebe cittadina.

Sul primo entrar della città dolente

Stanno il Pianto, le Cure e la Follía

Che salta e nulla vede e nulla sente.

Evvi il turpe Bisogno e la restía

Inerzia colle man sotto le ascelle

L’una all’altra appoggiati in sulla via.

Evvi l’arbitra Fame, a cui la pelle

Informasi dall’ossa e i lerci denti

Fanno orribile siepe alle mascelle.

Vi son le rubiconde Ire furenti,

E la Discordia pazza il capo avvolta

Di lacerate bende e di serpenti.

Vi son gli orbi Desiri, e della stolta

Ciurmaglia i Sogni e le Paure smorte

Sempre il crin rabbuffate e sempre in volta.

Veglia custode delle meste porte

E le chiude a suo senno e le disserra

L’ancella e insieme la rival di Morte;

La cruda, io dico, furibonda Guerra

Che nel sangue s’abbevera e gavazza

E sol del nome fa tremar la terra.

Stanle intorno l’Erinni, e le fan piazza,

E allacciando le van l’elmo e la maglia

Della gorgiera e della gran corazza;

Mentre un pugnal battuto alla tanaglia

De’ fabbri di Cocito in man le caccia,

E la sprona e l’incuora alla battaglia

Un’altra furia di più acerba faccia,

Che in Flegra già del cielo assalse il muro

E armò di Brïareo le cento braccia,

E Dïagora poscia e d’Epicuro

Dettò le carte, ed or le franche scuole

Empie di nebbia e di blasfema impuro,

E con sistemi e con orrende fole

Sfida l’Eterno, e il tuono e le saette

Tenta rapirgli e il padiglion del sole.

Come vide le facce maledette,

Arretrossi d’Ugon l’ombra turbata,

Chè in inferno arrivar la si credette:

E in quel sospetto sospettò cangiata

La sua sentenza, e dimandar volea

Se fra l’alme perdute iva dannata.

Quindi tutta per téma si stringea

Al suo conducitor, che pensieroso

Le triste soglie già varcate avea.

Era il tempo che tolto al procelloso

Capro, il sol monta alla troiana stella

Scarso il raggio vibrando e neghittoso;

E compito del la nona ancella

L’officio suo, il governo abbandonava

Del timon luminoso alla sorella:

Quando chiuso da nube oscura e cava

L’angel coll’ombra inosservato e queto

Nella città di tutti i mali entrava.

Ei procedea depresso ed inquïeto

Nel portamento, i rai celesti empiendo

Di largo ad or ad or pianto segreto;

E l’ombra si stupía, quinci vedendo

Lagrimoso il suo duca e possedute

Quindi le strade da silenzio orrendo.

Muto de’ bronzi il sacro squillo, e mute

L’opre del giorno, e muto lo stridore

Dell’aspre incudi e delle seghe argute:

Sol per tutto un bisbiglio ed un terrore,

Un domandare, un sogguardar sospetto,

Una mestizia che ti piomba al core;

E cupe voci di confuso affetto,

Voci di madri pie, che gl’innocenti

Figli si serran trepidando al petto;

Voci di spose che ai mariti ardenti

Contrastano l’uscita e sulle soglie

Fan di lagrime intoppo e di lamenti.

Ma tenerezza e carità di moglie

Vinta è da furia di maggior possanza,

Che dall’amplesso coniugal gli scioglie.

Poichè fera menando oscena danza

Scorrean di porta in porta affaccendati

Fantasmi di terribile sembianza;

De’ Druidi i fantasmi insanguinati,

Che fieramente dalla sete antiqua

Di vittime nefande stimolati,

A sbramarsi venían la vista obliqua

Del maggior de’ misfatti onde mai possa

La loro superbir semenza iniqua.

Erano in veste d’uman sangue rossa;

Sangue e tabe grondava ogni capello,

E ne cadea una pioggia ad ogni scossa.

Squassan altri un tizzone, altri un flagello

Di chelidri e di verdi anfesibene,

Altri un nappo di tósco, altri un coltello:

E con quei serpi percotean le schiene

E le fronti mortali, e fean, toccando

Con gli arsi tizzi, ribollir le vene.

Allora delle case infurïando

Uscían le genti, e si fuggía smarrita

Da tutti i petti la pietade in bando.

Allor trema la terra oppressa e trita

Da cavalli, da rote e da pedoni;

E ne mormora l’aria sbigottita;

Simile al mugghio di remoti tuoni,

Al notturno del mar roco lamento,

Al profondo ruggir degli aquiloni.

Che cor, misero Ugon, che sentimento

Fu allora il tuo, che di morte vedesti

L’atro vessillo volteggiarsi al vento?

E il terribile palco erto scorgesti,

Ed alzata la scure, e al gran misfatto

Salir bramosi i manigoldi e presti;

E il tuo buon rege, il re più grande in atto

D’agno innocente fra digiuni lupi,

Sul letto de’ ladroni a morir tratto;

E fra i silenzi delle turbe cupi

Lui sereno avanzar la fronte e il passo

In vista che spetrar potea le rupi?

Spetrar le rupi e sciorre in pianto un sasso;

Non le galliche tigri. Ahi! dove spinto

L’avete, o crude? Ed ei v’amava! oh lasso!

Ma piangea il sole di gramaglia cinto

E stava in forse di voltar le rote

Da questa Tebe che l’antica ha vinto.

Piangevan l’aure per terrore immote,

E l’anime del cielo cittadine

Scendean col pianto anch’esse in su le gote;

L’anime che costanti e pellegrine

Per la causa di Cristo e di Luigi

Lassù per sangue diventar divine.

Il duol di Francia intanto e i gran litigi

Mirava Iddio dall’alto, e giusto e buono

Pesava il fato della rea Parigi.

Sedea sublime sul tremendo trono;

E sulla lance d’òr quinci ponea

L’alta sua pazïenza e il suo perdono,

Dell’iniqua città quindi mettea

Le scelleranze tutte; e nullo ancora

Piegar de’ due gran carchi si vedea.

Quando il mortal giudizio e l’ultimora

Dell’augusto infelice alfin v’impose

L’Onnipotente. Cigolando allora

Traboccâr le bilancie ponderose:

Grave in terra cozzò la mortal sorte,

Balzò l’altra alle sfere, e si nascose,

In quel punto al feral palco di morte

Giunge Luigi. Ei v’alza il guardo, e viene

Fermo alla scala, imperturbato e forte.

Già vi monta, già il sommo egli ne tiene,

E vapien di maestà l’aspetto,

Ch’ai manigoldi fa tremar le vene.

E già battea furtiva ad ogni petto

La pietà rinascente, ed anco parve

Che del furor svïato avría l’effetto.

Ma fier portento in questo mezzo apparve:

Sul patibolo infame all’improvviso

Asceser quattro smisurate larve,

Stringe ognuna un pugnal di sangue intriso;

Alla strozza un capestro le molesta;

Torvo il cipiglio, dispietato il viso,

E scomposte le chiome in su la testa,

Come campo di biada già matura

Nel cui mezzo passata è la tempesta.

E sulla fronte arroncigliata e scura

Scritto in sangue ciascuna il nome avea,

Nome terror de’ regi e di natura.

Damiens l’uno, Ankastrom l’altro dicea,

E l’altro Ravagliacco; ed il suo scritto

Il quarto colla man si nascondea.

Da queste Dire avvinto il derelitto

Sire Capeto dal maggior de’ troni

Alla mannaia già facea tragitto.

E a quel giusto simíl che fra’ ladroni

Perdonando spirava ed esclamando:

Padre, padre, perchè tu m’abbandoni?

Per chi a morte lo tragge anch’ei pregando,

Il popol mio, dicea, che sì delira,

E il mio spirto, Signor, ti raccomando.

In questo dir con impeto e con ira

Un degli spettri sospingendo il venne

Sotto il taglio fatal; l’altro ve ’l tira.

Per le sacrate auguste chiome il tenne

La terza furia, e la sottil rudente

Quella quarta recise alla bipenne.

Alla caduta dell’acciar tagliente

S’aprì tonando il cielo, e la vermiglia

Terra si scosse e il mare orribilmente.

Tremonne il mondo, e per la maraviglia

E pel terror dal freddo al caldo polo

Palpitando i potenti alzâr le ciglia.

Tremò levante ed occidente. Il solo

Barbaro celta, in suo furor più saldo,

Del ciel derise e della terra il duolo;

E di sua libertà spietato e baldo

Tuffò le stolte insegne e le man ladre

Nel sangue del suo re fumante e caldo,

E si dolse che misto a quel del padre

Quello pur anco non scorreva, ahi rabbia!,

Del regal figlio e dell’augusta madre.

Tal di lïoni un branco, a cui non abbia

L’ucciso tauro appien sazie le canne,

Anche il sangue ne lambe in su la sabbia;

Poi ne’ presepi insidïando vanne

La vedova giovenca ed il torello,

E rugghia, e arrota tuttavia le zanne;

Ed ella, che i ruggiti ode al cancello,

Di doppio timor trema, e di quell’ugne

Si crede ad ogni scroscio esser macello.

Tolta al dolor delle terrene pugne

Apriva intanto la grand’alma il volo,

Che alla prima cagion la ricongiugne.

E ratto intorno le si fea lo stuolo

Di quell’ombre beate, onde la fede

Stette e di Francia sanguinossi il suolo.

E qual le corre al collo, e qual si vede

Stender le braccia, e chi l’amato volto

E chi la destra e chi le bacia il piede.

Quando repente della calca il folto

Ruppe un ombra dogliosa, e con un rio

Di largo pianto sulle guance sciolto,

Me, gridava, me me lasciate al mio

Signor prostrarmi. Oh date il passo! E presta

Al piè regale il varco ella s’aprìo.

Dolce un guardo abbassò su quella mesta

Luigi: e, Chi sei? disse; e qual ti tocca

Rimorso il core? e che ferita è questa?

Alzati, e schiudi al tuo dolor la bocca.

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License