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Vincenzo Monti
Poesie

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  • PARTE III POEMETTI
    • In morte di Ugo Bassville
      • CANTO TERZO
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CANTO TERZO

 

La fronte sollevò, rizzossi in piedi

L’addolorato spirto, e, le pupille

Tergendo a dire incominciò: Tu vedi,

Signor, nel tuo cospetto Ugo Bassville,

Della francese libertà mandato

Sul Tebro a suscitar le ree scintille.

Stolto, che volli coll’immobil fato

Cozzar della gran Roma, onde ne porto

Rotta la tempia e il fianco insanguinato;

Ché di Giuda il leon non anco è morto;

Ma vive e rugge, e il pelo arruffa e gli occhi,

Terror d’Egitto, e d’Israel conforto;

E se monta in furor, l’aste e gli stocchi

Sa spezzar de’ nemici, e par che gridi:

Son la forza di Dio, nessun mi tocchi.

Questo leone in Vaticano io vidi

Far coll’antico e venerato artiglio

Securi e sgombri di Quirino i lidi;

E a me, che nullo mi temea periglio,

Fe’ con un crollo della sacra chioma

Tremanti i polsi e riverente il ciglio,

Allor conobbi che fatale è Roma,

Che la tremenda vanità di Francia

Sul Tebro è nebbia che dal sol si doma,

E le minacce una sonora ciancia,

Un lieve insulto di villana auretta

D’abbronzato guerriero in su la guancia.

Spumava la tirrena onda suggetta

Sotto le franche prore, e la premea

Il timor della gallica vendetta;

E tutta per terror dalla scillea

Latrante rupe la selvosa schiena

Infino all’Alpe l’Appennin scotea.

Taciturno ed umíl volgea l’arena

L’Arno frattanto, e paurosa e mesta

Chinava il volto la regal Sirena.

Solo il Tebro levava alta la testa,

E all’elmo polveroso la sua donna

In Campidoglio rimettea la cresta:

E, divina guerriera in corta gonna,

Il cor più che la spada all’ire e all’onte

Di Rodano opponeva e di Garonna;

In Dio fidando, che i trecento al fonte

D’Arad prescelse, e al Madianita altero

Fe’ le spalle voltar, rotta la fronte;

In Dio fidando, io dico, e nel severo

Petto del santo suo pastor, che solo

In saldo pose la ragion di Piero.

Dal suo pregar, che dritto spiega il volo

Dell’Eterno all’orecchio e sulle stelle

Porta i sospiri della terra e il duolo,

I turbini fur mossi e le procelle

Che del Varo sommersero l’antenne

Per le sarde e le còrse onde sorelle.

Ei sol tarpò del franco ardir le penne;

L’onor d’Italia vilipesa e quello

Del borbonico nome egli sostenne.

E cento volte sul destin tuo fello

Bagnò di pianto i rai. Per lo dolore

La tua Roma fedel pianse con ello.

Poi, cangiate le lagrime in furore,

Corse urlando col ferro, ed il mio petto

Cercò d’orrende faci allo splendore;

E spense il suo magnanimo dispetto

Sì nel mio sangue, ch’io fui pria di rabbia,

Poi di pietade miserando obbietto.

Eran sangue i capei, sangue le labbia,

E sangue il seno: fe’ del resto un lago

La ferita, che miri, in su la sabbia.

E me, cui téma e amor rendean presago

Di maggior danno, e non avea consiglio,

Più che la morte combattèa l’immago

Dell’innocente mio tenero figlio

E della sposa, ahi lasso!; onde paura

Del lor mi strinse non del mio periglio.

Ma, come seppi che paterna cura

Di Pio salvi gli avea, brillommi il core,

E il suo sospese palpitar natura.

Lagrimai di rimorso; e sull’errore

Che già lunga stagion l’alma travolse

La carità poteo più che il terrore,

Luce dal ciel vibrata allor mi sciolse

Dell’intelletto il buio, e il cor pentito

Al mar di tutta la pietà si volse.

L’ali apersi a un sospiro; e l’infinito

Amor nel libro, dove tutto è scritto,

Il mio peccato cancellò col dito.

Ma giustizia mi niega al ciel tragitto,

E vagante ombra qui mi danna, intanto

Che di Francia non vegga ulto il delitto.

Questi me ’l disse, che mi viene accanto

(Ed accennòl suo duca) e che m’ha tolto

Alla fiumana dell’eterno pianto.

Tutte drizzaro allor quell’alme il volto

Al celeste campion, che in un sorriso

Dolcissimo le labbra avea disciolto.

Or tu, per l’alto sir del paradiso

Che al suo grembo t’aspetta e il ciel disserra

(Proseguì l’ombra più infiammata in viso),

Per le pene tue tante in su la terra,

Alla mia stolta fellonia perdona,

raccontar lassù che ti fei guerra.

Tacque; e tacendo ancor dicea: Perdona;

E l’affollate intorno ombre pietose

Concordemente replicâr: Perdona.

Allor l’alma regal con disiose

Braccia si strinse l’avversaria al seno,

E dolce in caro favellar rispose:

Questo amplesso ti parli, e noto appieno

Del re, del padre il core e dell’amico

Ti faccia, e sgombri il tuo timor terreno.

Amai, potendo odiarlo, anco il nemico;

Or m’è tolto il poterlo, e l’alma spiega

Più larghi i voli dell’amore antico.

Quindi dove meglio a Dio si prega

Il pregherò, che presto ti discioglia

Del divieto fatal che qui ti lega.

Se i tuoi destini intanto o la tua voglia

Alla sponda giammai ti torneranno

Ove lasciasti la trafitta spoglia;

Per me trova le due che si stanno

Mie regali congiunte, e che gli orrendi

Piangon miei mali ed il più rio non sanno.

Lieve sul capo ad ambedue discendi

Pietosa visïon (se la tua scorta

Lo ti consente), e il pianto ne sospendi.

Di tutto che vedesti annunzio apporta

Alle dolenti: ma del mio morire

Deh! sia l’immago fuggitiva e corta.

Pingi loro piuttosto il mio gioire,

Pingi il mio capo di corona adorno

Che non si frange si può rapire.

Di’ lor che feci in sen di Dio ritorno,

Ch’ivi le aspetto, e regnando in pace

Le nostre pene narreremci un giorno.

Vanne poscia a quel grande, a quel verace

Nume del Tebro, in cui la riverente

Europa affissa le pupille e tace;

Al sommo dittator della vincente

Repubblica di Cristo, a lui che il regno

Sortì minor del core e della mente:

Digli che tutta a sua pietà consegno

La franca fede combattuta; ed egli

Ne sia campione e tutelar sostegno.

Digli che tuoni dal suo monte, e svegli

L’addormentata Italia, e alla ritrosa

Le man sacrate avvolga entro i capegli,

Sì che dal fango suo la neghittosa

Alzi la fronte, e sia delle sue tresche

Contristata una volta e vergognosa.

Digli che invan l’ibere e le tedesche

E l’armi alpine e l’angliche e le prusse

Usciranno a cozzar colle francesche,

Se non v’ha quella onde Mosè percusse

Amalecco quel che i lunghi preghi

Sul monte infino al tramontar produsse,

Salga egli dunque sull’Orebbe, e spieghi

Alto le palme; e, s’avverrà che stanco

Talvolta il polso al pio voler si nieghi,

Gli sosterranno il destro braccio e il manco

Gl’imporporati Aronni e i Calebidi

De’ quai soffolto e coronato ha il fianco.

Parmi de’ nuovi Amaleciti i gridi

Dall’Olimpo sentir, parmi che Pio

Di Francia, orando, ei sol gli scacci e snidi.

Quindi ver’ lui di tutto il dover mio

Sdebiterommi in cielo, e finch’ei vegna,

Di sua virtù ragionerò con Dio.

Brillò, ciò detto, e sparve; e non è degna

Ritrar terrena fantasia gli ardori

Di ch’ella il cielo balenando segna.

Qual si solleva il sol fra le minori

Folgoranti sostanze, allor che spinge

Sulla fervida curva i corridori,

Che d’un solo color tutta dipinge

L’eterea volta, e ogni altra stella un velo

Ponsi alla fronte e di pallor si tinge;

Tal fiammeggiava di sidereo zelo,

E fra mille seguaci ombre festose

Tale ascendeva la bell’alma al cielo.

Rideano al suo passar le maestose

Tremule figlie della luce, e in giro

Scotean le chiome ardenti e rugiadose.

Ella tra lor d’amore e di desiro

Sfavillando s’estolle, infin che, giunta

Dinanzi al trino ed increato Spiro,

Ivi queta il suo volo, ivi s’appunta

In tre sguardi beata, ivi il cor tace

E tutta perde del desío la punta.

Poscia al crin la corona del vivace

Amaranto immortal e su le gote

Il bacio ottenne dell’eterna pace.

E allor s’udiro consonanze e note

D’ineffabil dolcezza, e i tondi balli

Ricominciar delle stellate rote.

Più veloci esultarono i cavalli

Portatori del giorno, e di grand’orme

Stampâr l’arringo degli eterei calli.

Gioiva intanto del misfatto enorme

L’accecata Parigi; e sull’arena

Giacea la regal testa e il tronco informe;

E il caldo rivo della sacra vena

La ria terra bagnava, ancor più ria

Di quella che mirò d’Atreo la cena.

Nuda e squallida intorno vi venía

Turba di larve di quel sangue ghiotte,

E tutta di lor bruna era la via.

Qual da fesse muraglie e cave grotte

Sbucano di Minèo l’atre figliuole,

Quando ai fiori il color toglie la notte,

Ch’ir le vedi e redire e far carole

Sul capo al vïandante o sovra il lago,

Finchè non esce a saettarle il sole;

Non altrimenti a volo strano e vago

D’ogni parte erompea l’oscena schiera;

Ed ulular s’udiva, a quell’immago

Che fan sul margo d’una fonte nera

I lupi sospettosi e vagabondi

A ber venuti a truppa in su la sera.

Correan quei vani simulacri immondi

Al sanguigno ruscel, sporgendo il muso,

L’un dall’altro incalzati e sitibondi.

Ma in guardia vi sedea nell’arme chiuso

Un fiero cherubin, che, steso il brando,

Quel barbaro sitir rendea deluso.

E le larve a dar volta, e mugolando

A stiparsi, e parer vento che rotto

Fra due scogli si vada lamentando.

Prime le quattro comparian che sotto

Poc’anzi al taglio dell’infame scure

L’infelice Capeto avean tradotto.

Di quei tristi seguían l’atre figure

Che d’uman sangue un macchiâr le glebe

di Marsiglia nelle selve impure.

Indi a guisa di pecore e di zebe

Venía lorda di piaghe il corpo tutto

D’ombre una vile miserabil plebe;

Ed eran quelli che fecondo e brutto

Del proprio sangue fecero il mal tronco

Che diè di libertàamaro il frutto.

Altri forato il ventre ed altri ha cionco

Di capo il busto, e chi trafitto il lombo,

E chi del braccio e chi del naso è monco;

E tutti intorno al regio sangue un rombo,

Un murmure facean che cupo il fiume

Dai cavi gorghi ne rendea rimbombo.

Ma lungi li tenea la punta e il lume

Della celeste spada, che mandava

Su i foschi ceffi un pallido barlume.

Scendi, pïeria dea, di questa prava

Masnada i più famosi a rammentarme,

Se l’orror la memoria non ti grava.

Dimmi, tu che li sai, gli assalti e l’arme

Onde il soglio percossero e la fede,

E di nobile bile empi il mio carme.

Capitano di mille alto si vede

Uno spettro passar lungo ed arcigno,

Superbamente coturnato il piede,

È costui di Ferney l’empio e maligno

Filosofante, ch’or tra’ morti è corbo,

E fu tra’ vivi poetando un cigno.

Gli vien seguace il furibondo e torbo

Diderotto, e colui che dello spirto

Svolse il lavoro e degli affetti il morbo.

Vassene solo l’eloquente ed irto

Orator del Contratto, e al par del manto

Di sofo ha caro l’afrodisio mirto;

Disdegnoso d’aver compagni accanto

Fra cotanta empietà, chè al trono e all’ara

Fe’ guerra ei sì, ma non de’ santi al santo.

Segue una coppia nequitosa e rara

Di due tali accigliate anime ree,

Che il diadema ne crolla e la tïara.

L’una raccolse dell’umane idee

L’infinito tesoro e l’oceàno

Ove stillato ogni venen si bee.

Finse l’altra del fosco americano

Tonar la causa, e regi e sacerdoti

Col fulmine ferì del labbro insano.

Dove te lascio, che per l’alto roti

strane ed ampie le comete, e il varco

D’ogni delirio apristi a’ tuoi nipoti?

E te che contro Luca e contro Marco

E contro gli altri duo così librato

Scocchi lo stral dal sillogisticarco?

Questa d’insania tutta e di peccato

Tenebrosa falange il fronte avea

Dal fulmine celeste abbrustolato;

E della piaga il solco si vedea

Mandar fumo e faville; e forte ognuno

Di quel tormento dolorar parea.

Curvo il capo ed in lungo abito bruno

Venía poscia uno stuol quasi di scheltri,

Dalle vigilie attriti e dal digiuno.

Sul ciglio rabbassati ha i larghi feltri,

Impiombate le cappe, e il pièlento,

Che le lumache al paragon son veltri.

Ma sotto il faticoso vestimento

Celan ferri e veleni; e qual tra’ vivi,

Tal vanno ancor tra’ morti al tradimento.

Dell’ipocrito d’Ipri ei son gli schivi

Settator tristi, per via bieca e torta

Con Cesare e del par con Dio cattivi.

crudo è il nume di costor, sì morta,

ripiena d’orror del ciel la strada,

Che a creder nulla e a disperar ne porta.

Per lor sovrasta al pastoral la spada,

Per lor tant’alto il soglio si sublima,

Ch’alfine è forza che nel fango cada.

Di lor empia fucina uscì la prima

Favilla, che segreta il casto seno

Della donna di Pietro incende e lima.

di tal peste sol va caldo e pieno

Borgofontana, ma d’Italia mia

Ne bulica e ne pute anco il terreno.

Ultimo al fier concilio comparía,

E su tutti gigante sollevarse

Coll’omero sovran si discopría

E colle chiome rabbuffate e sparse,

Colui che al discoperto e senza téma

Venne contro l’eterno ad accamparse;

E ne sfidò la folgore suprema,

Secondo Capaneo, sotto lo scudo

D’un gran delirio ch’ei chiamò sistema.

Dinanzi gli fuggía sprezzato e nudo

De’ minor spettri il vulgo: anche Cocito

N’avea ribrezzo, ed abborría quel crudo.

Poich’ebber densi e torvi circuito

Il cadavere sacro, ed in lui sazio

Lo sguardo, e steso sorridendo il dito;

Con fiera dilettanza in poco spazio

Strinsersi tutti, e diersi a far parole,

Quasi sospeso il sempiterno strazio.

A me (dicea l’un d’essi), a me si vuole

Dar dell’opra l’onor, che primo osai

Spezzar lo scettro e lacerar le stole.

A me piuttosto, a me che disvelai

De’ potenti le frodi (un altro grida)

E all’uom dischiusi sul suo dritto i rai.

Perchè l’uom surga e il suo tiranno uccida,

Uop’è (ripiglia un altro) in pria dal fianco

Dell’eterno timor tôrgli la guida.

Questo fe’ lo mio stil leggiadro e franco

E il sal samosatense onde condita

L’empietà piacque e l’uom di Dio fu stanco.

Allor fu questa orribil voce udita:

I’ fei di più, che Dio distrussi: e tacque;

Ed ogni fronte apparve sbigottita.

Primamente un silenzio cupo nacque,

Poi tal s’intese un mormorio profondo,

Che lo spesso cader parea dell’acque

Allor che tutto addormentato è il mondo.

 




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