CANTO TERZO
La fronte
sollevò, rizzossi in piedi
L’addolorato spirto, e, le pupille
Tergendo a dire incominciò: Tu
vedi,
Signor, nel tuo
cospetto Ugo Bassville,
Della francese libertà mandato
Sul Tebro a suscitar le ree
scintille.
Stolto, che
volli coll’immobil fato
Cozzar della gran Roma, onde ne
porto
Rotta la tempia e il fianco
insanguinato;
Ché di Giuda il
leon non anco è morto;
Ma vive e rugge, e il pelo arruffa
e gli occhi,
Terror d’Egitto, e d’Israel
conforto;
E se monta in
furor, l’aste e gli stocchi
Sa spezzar de’ nemici, e par che
gridi:
Son la forza di Dio, nessun mi
tocchi.
Questo leone in
Vaticano io vidi
Far coll’antico e venerato
artiglio
Securi e sgombri di Quirino i
lidi;
E a me, che
nullo mi temea periglio,
Fe’ con un crollo della sacra
chioma
Tremanti i polsi e riverente il
ciglio,
Allor conobbi
che fatale è Roma,
Che la tremenda vanità di Francia
Sul Tebro è nebbia che dal sol si
doma,
E le minacce
una sonora ciancia,
Un lieve insulto di villana
auretta
D’abbronzato guerriero in su la
guancia.
Spumava la
tirrena onda suggetta
Sotto le franche prore, e la
premea
Il timor della gallica vendetta;
E tutta per
terror dalla scillea
Latrante rupe la selvosa schiena
Infino all’Alpe l’Appennin scotea.
Taciturno ed
umíl volgea l’arena
L’Arno frattanto, e paurosa e
mesta
Chinava il volto la regal Sirena.
Solo il Tebro
levava alta la testa,
E all’elmo polveroso la sua donna
In Campidoglio rimettea la cresta:
E, divina
guerriera in corta gonna,
Il cor più che la spada all’ire e
all’onte
Di Rodano opponeva e di Garonna;
In Dio fidando,
che i trecento al fonte
D’Arad prescelse, e al Madianita
altero
Fe’ le spalle voltar, rotta la
fronte;
In Dio fidando,
io dico, e nel severo
Petto del santo suo pastor, che
solo
In saldo pose la ragion di Piero.
Dal suo pregar,
che dritto spiega il volo
Dell’Eterno all’orecchio e sulle
stelle
Porta i sospiri della terra e il
duolo,
I turbini fur
mossi e le procelle
Che del Varo sommersero l’antenne
Per le sarde e le còrse onde
sorelle.
Ei sol tarpò
del franco ardir le penne;
L’onor d’Italia vilipesa e quello
Del borbonico nome egli sostenne.
E cento volte
sul destin tuo fello
Bagnò di pianto i rai. Per lo
dolore
La tua Roma fedel pianse con ello.
Poi, cangiate
le lagrime in furore,
Corse urlando col ferro, ed il mio
petto
Cercò d’orrende faci allo
splendore;
E spense il suo
magnanimo dispetto
Sì nel mio sangue, ch’io fui pria
di rabbia,
Poi di pietade miserando obbietto.
Eran sangue i
capei, sangue le labbia,
E sangue il seno: fe’ del resto un
lago
La ferita, che miri, in su la
sabbia.
E me, cui téma
e amor rendean presago
Di maggior danno, e non avea
consiglio,
Più che la morte combattèa
l’immago
Dell’innocente
mio tenero figlio
E della sposa, ahi lasso!; onde
paura
Del lor mi strinse non del mio periglio.
Ma, come seppi
che paterna cura
Di Pio salvi gli avea, brillommi
il core,
E il suo sospese palpitar natura.
Lagrimai di
rimorso; e sull’errore
Che già lunga stagion l’alma
travolse
La carità poteo più che il
terrore,
Luce dal ciel
vibrata allor mi sciolse
Dell’intelletto il buio, e il cor
pentito
Al mar di tutta la pietà si volse.
L’ali apersi a
un sospiro; e l’infinito
Amor nel libro, dove tutto è
scritto,
Il mio peccato cancellò col dito.
Ma giustizia mi
niega al ciel tragitto,
E vagante ombra qui mi danna,
intanto
Che di Francia non vegga ulto il
delitto.
Questi me ’l
disse, che mi viene accanto
(Ed accennò ’l suo duca) e che
m’ha tolto
Alla fiumana dell’eterno pianto.
Tutte drizzaro
allor quell’alme il volto
Al celeste campion, che in un
sorriso
Dolcissimo le labbra avea
disciolto.
Or tu, per
l’alto sir del paradiso
Che al suo grembo t’aspetta e il
ciel disserra
(Proseguì l’ombra più infiammata
in viso),
Per le pene tue
tante in su la terra,
Alla mia stolta fellonia perdona,
Nè raccontar lassù che ti fei
guerra.
Tacque; e
tacendo ancor dicea: Perdona;
E l’affollate intorno ombre
pietose
Concordemente replicâr: Perdona.
Allor l’alma
regal con disiose
Braccia si strinse l’avversaria al
seno,
E dolce in caro favellar rispose:
Questo amplesso
ti parli, e noto appieno
Del re, del padre il core e
dell’amico
Ti faccia, e sgombri il tuo timor
terreno.
Amai, potendo
odiarlo, anco il nemico;
Or m’è tolto il poterlo, e l’alma
spiega
Più larghi i voli dell’amore
antico.
Quindi là dove
meglio a Dio si prega
Il pregherò, che presto ti
discioglia
Del divieto fatal che qui ti lega.
Se i tuoi
destini intanto o la tua voglia
Alla sponda giammai ti torneranno
Ove lasciasti la trafitta spoglia;
Per me trova le
due che là si stanno
Mie regali congiunte, e che gli
orrendi
Piangon miei mali ed il più rio
non sanno.
Lieve sul capo
ad ambedue discendi
Pietosa visïon (se la tua scorta
Lo ti consente), e il pianto ne
sospendi.
Di tutto che
vedesti annunzio apporta
Alle dolenti: ma del mio morire
Deh! sia l’immago fuggitiva e corta.
Pingi loro
piuttosto il mio gioire,
Pingi il mio capo di corona adorno
Che non si frange nè si può
rapire.
Di’ lor che
feci in sen di Dio ritorno,
Ch’ivi le aspetto, e là regnando
in pace
Le nostre pene narreremci un
giorno.
Vanne poscia a
quel grande, a quel verace
Nume del Tebro, in cui la
riverente
Europa affissa le pupille e tace;
Al sommo
dittator della vincente
Repubblica di Cristo, a lui che il
regno
Sortì minor del core e della
mente:
Digli che tutta
a sua pietà consegno
La franca fede combattuta; ed egli
Ne sia campione e tutelar
sostegno.
Digli che tuoni
dal suo monte, e svegli
L’addormentata Italia, e alla
ritrosa
Le man sacrate avvolga entro i
capegli,
Sì che dal
fango suo la neghittosa
Alzi la fronte, e sia delle sue
tresche
Contristata una volta e
vergognosa.
Digli che invan
l’ibere e le tedesche
E l’armi alpine e l’angliche e le
prusse
Usciranno a cozzar colle
francesche,
Se non v’ha
quella onde Mosè percusse
Amalecco quel dì che i lunghi
preghi
Sul monte infino al tramontar
produsse,
Salga egli
dunque sull’Orebbe, e spieghi
Alto le palme; e, s’avverrà che
stanco
Talvolta il polso al pio voler si
nieghi,
Gli sosterranno
il destro braccio e il manco
Gl’imporporati Aronni e i Calebidi
De’ quai soffolto e coronato ha il
fianco.
Parmi de’ nuovi
Amaleciti i gridi
Dall’Olimpo sentir, parmi che Pio
Di Francia, orando, ei sol gli
scacci e snidi.
Quindi ver’ lui
di tutto il dover mio
Sdebiterommi in cielo, e finch’ei
vegna,
Di sua virtù ragionerò con Dio.
Brillò, ciò
detto, e sparve; e non è degna
Ritrar terrena fantasia gli ardori
Di ch’ella il cielo balenando
segna.
Qual si solleva
il sol fra le minori
Folgoranti sostanze, allor che
spinge
Sulla fervida curva i corridori,
Che d’un solo
color tutta dipinge
L’eterea volta, e ogni altra stella
un velo
Ponsi alla fronte e di pallor si
tinge;
Tal
fiammeggiava di sidereo zelo,
E fra mille seguaci ombre festose
Tale ascendeva la bell’alma al
cielo.
Rideano al suo
passar le maestose
Tremule figlie della luce, e in
giro
Scotean le chiome ardenti e
rugiadose.
Ella tra lor
d’amore e di desiro
Sfavillando s’estolle, infin che,
giunta
Dinanzi al trino ed increato
Spiro,
Ivi queta il
suo volo, ivi s’appunta
In tre sguardi beata, ivi il cor
tace
E tutta perde del desío la punta.
Poscia al crin
la corona del vivace
Amaranto immortal e su le gote
Il bacio ottenne dell’eterna pace.
E allor s’udiro
consonanze e note
D’ineffabil dolcezza, e i tondi
balli
Ricominciar delle stellate rote.
Più veloci
esultarono i cavalli
Portatori del giorno, e di
grand’orme
Stampâr l’arringo degli eterei
calli.
Gioiva intanto
del misfatto enorme
L’accecata Parigi; e sull’arena
Giacea la regal testa e il tronco
informe;
E il caldo rivo
della sacra vena
La ria terra bagnava, ancor più
ria
Di quella che mirò d’Atreo la
cena.
Nuda e
squallida intorno vi venía
Turba di larve di quel sangue
ghiotte,
E tutta di lor bruna era la via.
Qual da fesse
muraglie e cave grotte
Sbucano di Minèo l’atre figliuole,
Quando ai fiori il color toglie la
notte,
Ch’ir le vedi e
redire e far carole
Sul capo al vïandante o sovra il
lago,
Finchè non esce a saettarle il
sole;
Non altrimenti
a volo strano e vago
D’ogni parte erompea l’oscena
schiera;
Ed ulular s’udiva, a quell’immago
Che fan sul
margo d’una fonte nera
I lupi sospettosi e vagabondi
A ber venuti a truppa in su la
sera.
Correan quei
vani simulacri immondi
Al sanguigno ruscel, sporgendo il
muso,
L’un dall’altro incalzati e
sitibondi.
Ma in guardia
vi sedea nell’arme chiuso
Un fiero cherubin, che, steso il
brando,
Quel barbaro sitir rendea deluso.
E le larve a
dar volta, e mugolando
A stiparsi, e parer vento che
rotto
Fra due scogli si vada lamentando.
Prime le
quattro comparian che sotto
Poc’anzi al taglio dell’infame
scure
L’infelice Capeto avean tradotto.
Di quei tristi
seguían l’atre figure
Che d’uman sangue un dì macchiâr
le glebe
Là di Marsiglia nelle selve
impure.
Indi a guisa di
pecore e di zebe
Venía lorda di piaghe il corpo
tutto
D’ombre una vile miserabil plebe;
Ed eran quelli
che fecondo e brutto
Del proprio sangue fecero il mal
tronco
Che diè di libertà sì amaro il
frutto.
Altri forato il
ventre ed altri ha cionco
Di capo il busto, e chi trafitto
il lombo,
E chi del braccio e chi del naso è
monco;
E tutti intorno
al regio sangue un rombo,
Un murmure facean che cupo il
fiume
Dai cavi gorghi ne rendea
rimbombo.
Ma lungi li
tenea la punta e il lume
Della celeste spada, che mandava
Su i foschi ceffi un pallido
barlume.
Scendi, pïeria
dea, di questa prava
Masnada i più famosi a
rammentarme,
Se l’orror la memoria non ti
grava.
Dimmi, tu che
li sai, gli assalti e l’arme
Onde il soglio percossero e la
fede,
E di nobile bile empi il mio
carme.
Capitano di
mille alto si vede
Uno spettro passar lungo ed
arcigno,
Superbamente coturnato il piede,
È costui di
Ferney l’empio e maligno
Filosofante, ch’or tra’ morti è
corbo,
E fu tra’ vivi poetando un cigno.
Gli vien
seguace il furibondo e torbo
Diderotto, e colui che dello
spirto
Svolse il lavoro e degli affetti
il morbo.
Vassene solo
l’eloquente ed irto
Orator del Contratto, e al par del
manto
Di sofo ha caro l’afrodisio mirto;
Disdegnoso
d’aver compagni accanto
Fra cotanta empietà, chè al trono
e all’ara
Fe’ guerra ei sì, ma non de’ santi
al santo.
Segue una
coppia nequitosa e rara
Di due tali accigliate anime ree,
Che il diadema ne crolla e la
tïara.
L’una raccolse
dell’umane idee
L’infinito tesoro e l’oceàno
Ove stillato ogni venen si bee.
Finse l’altra
del fosco americano
Tonar la causa, e regi e sacerdoti
Col fulmine ferì del labbro
insano.
Dove te lascio,
che per l’alto roti
Sì strane ed ampie le comete, e il
varco
D’ogni delirio apristi a’ tuoi
nipoti?
E te che contro
Luca e contro Marco
E contro gli altri duo così
librato
Scocchi lo stral dal
sillogistic’arco?
Questa
d’insania tutta e di peccato
Tenebrosa falange il fronte avea
Dal fulmine celeste abbrustolato;
E della piaga
il solco si vedea
Mandar fumo e faville; e forte
ognuno
Di quel tormento dolorar parea.
Curvo il capo
ed in lungo abito bruno
Venía poscia uno stuol quasi di
scheltri,
Dalle vigilie attriti e dal
digiuno.
Sul ciglio
rabbassati ha i larghi feltri,
Impiombate le cappe, e il piè sì
lento,
Che le lumache al paragon son
veltri.
Ma sotto il
faticoso vestimento
Celan ferri e veleni; e qual tra’
vivi,
Tal vanno ancor tra’ morti al
tradimento.
Dell’ipocrito
d’Ipri ei son gli schivi
Settator tristi, per via bieca e
torta
Con Cesare e del par con Dio
cattivi.
Sì crudo è il
nume di costor, sì morta,
Sì ripiena d’orror del ciel la
strada,
Che a creder nulla e a disperar ne
porta.
Per lor
sovrasta al pastoral la spada,
Per lor tant’alto il soglio si
sublima,
Ch’alfine è forza che nel fango
cada.
Di lor empia
fucina uscì la prima
Favilla, che segreta il casto seno
Della donna di Pietro incende e
lima.
Nè di tal peste
sol va caldo e pieno
Borgofontana, ma d’Italia mia
Ne bulica e ne pute anco il
terreno.
Ultimo al fier
concilio comparía,
E su tutti gigante sollevarse
Coll’omero sovran si discopría
E colle chiome
rabbuffate e sparse,
Colui che al discoperto e senza
téma
Venne contro l’eterno ad
accamparse;
E ne sfidò la
folgore suprema,
Secondo Capaneo, sotto lo scudo
D’un gran delirio ch’ei chiamò
sistema.
Dinanzi gli
fuggía sprezzato e nudo
De’ minor spettri il vulgo: anche
Cocito
N’avea ribrezzo, ed abborría quel
crudo.
Poich’ebber densi
e torvi circuito
Il cadavere sacro, ed in lui sazio
Lo sguardo, e steso sorridendo il
dito;
Con fiera
dilettanza in poco spazio
Strinsersi tutti, e diersi a far
parole,
Quasi sospeso il sempiterno
strazio.
A me (dicea
l’un d’essi), a me si vuole
Dar dell’opra l’onor, che primo
osai
Spezzar lo scettro e lacerar le
stole.
A me piuttosto,
a me che disvelai
De’ potenti le frodi (un altro
grida)
E all’uom dischiusi sul suo dritto
i rai.
Perchè l’uom
surga e il suo tiranno uccida,
Uop’è (ripiglia un altro) in pria
dal fianco
Dell’eterno timor tôrgli la guida.
Questo fe’ lo
mio stil leggiadro e franco
E il sal samosatense onde condita
L’empietà piacque e l’uom di Dio
fu stanco.
Allor fu questa
orribil voce udita:
I’ fei di più, che Dio distrussi:
e tacque;
Ed ogni fronte apparve sbigottita.
Primamente un
silenzio cupo nacque,
Poi tal s’intese un mormorio
profondo,
Che lo spesso cader parea
dell’acque
Allor che tutto
addormentato è il mondo.
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