CANTO QUARTO
Batte a vol più
sublime aura sicura
La farfalletta dell’ingegno mio,
Lasciando la città della sozzura.
E dirò come
congiurato uscío
A dannaggio di Francia il mondo
tutto:
Tale il senno supremo era di Dio.
Canterò l’ira
dell’Europa e il lutto,
Canterò le battaglie ed in
vermiglio
Tinto de’ fiumi e di due mari il
flutto.
E d’altro
pianto andar bagnata il ciglio
La bell’alma vedrem, di che la
diva
Mi va cantando l’affannoso
esiglio.
Il bestemmiar
di quei superbi udiva
La dolorosa; ed accennando al duce
La fiera di Renallo ombra cattiva,
—
Come, disse,
fra’ morti si conduce
Colui? Di polpe non si veste e
d’ossa?
Non bee per gli occhi tuttavia la
luce?
E l’altro: La
sua salma ancor la scossa
Di morte non sentì; ma la governa
Dentro Marsiglia d’un demón la
possa;
E l’alma geme
fra i perduti eterna-
mente perduta: nè a tal fato è
sola,
Ma molte che distingue ira
superna.
E in Erebo di
queste assai ne vola
Dall’infame congrèga, in che
s’affida
Cotanto Francia, ahi stolta!, e si
consola.
Quindi un
demone spesso ivi s’annida
In uman corpo, e scaldane le vene,
E siede e scrive nel senato e
grida;
Mentre lo
spirto alle cocenti pene
D’Averno si martíra. Or leva il
viso,
E vedi all’uopo chi dal ciel ne
viene.
Levò lo
sguardo: ed ecco all’improvviso,
Là dove il cancro il piè d’Alcide
abbranca
E discende la via del paradiso,
Ecco aprirsi
del ciel le porte a manca
Su i cardini di bronzo; e una
virtude
Intrinseca le gira e le spalanca.
Risonò d’un
fragor profondo e rude
Dell’olimpo la volta, e tre
guerrieri
Calar fûr visti di sembianze
crude.
Nere sul petto
le corazze, e neri
Nella manca gli scudi, e
nereggianti
Sul capo tremolavano i cimieri;
E furtive
dell’elmo e folgoranti
Scorrean le chiome della bionda
testa
Per lo collo e per l’omero
ondeggianti.
La volubile
bruna sopravvesta
Da brune penne ventilata addietro
Rendea rumor di pioggia e di
tempesta.
Del
sopracciglio sotto l’arco tetro
Uscían lampi dagli occhi, uscía
paura,
E la faccia parea bollente vetro.
Questi, e
l’altro campion seduto a cura
Dell’estinto Luigi, angeli sono
Di terrore, di morte e di
sventura.
Venir son usi
dell’Eterno al trono,
Quando acerba a’ mortai volge la
sorte
E rompe la ragion del suo perdono.
D’Egitto il
primo l’incruente porte
Nell’arcana percosse orribil
notte,
Che fûr de’ padri le speranze
morte,
L’altro è quel che
sul campo estinte e rotte
Lasciò le forze che il superbo
Assiro
Contro l’umile Giuda avea
condotte.
Dalla spada del
terzo i colpi usciro,
Che di pianto sonanti e di ruina
Fischiar per l’aure di Sion
s’udiro,
Quando la
provocata ira divina
Al mite genitor fe’ d’Absalone
Caro il censo costar di Palestina.
L’ultimo fiero
volator garzone
Uno è de’ sei cui vide
l’accigliato
Ezechiello arrivar dall’aquilone,
In mano aventi
uno stocco affilato
E percotenti ognun che per la via
Del Tau la fronte non
vedean segnato.
Tale e tanta
dal ciel se ne venía
Dei procellosi arcangeli possenti
La terribile e nera compagnia;
Come gruppo di
folgori cadenti
Sotto povero ciel, quando sparute
Taccion le stelle e fremon l’onde
e i venti.
Il sibilo sentì
delle battute
Ale Parigi; ed arretrò la Senna
Le sue correnti stupefatte e mute.
Vogeso ne
tremò, tremò Gebenna
E il Bebricio Pirene, e lungo e
roco
Corse un lamento per la mesta
Ardenna.
Al lor primo
apparir diêr ratto il loco
L’assetate del Tartaro caterve,
Un grido alzando lamentoso e
fioco.
Come fugge
talor delle proterve
Mosche lo sciame che alla beva
intento
Sul vaso pastoral brulica e ferve,
Che al toccar
della conca in un momento
Levansi tutte, e quale alla
muraglia,
Qual si lancia alla mano e quale
al mento;
Tal si dilegua
l’infernal ciurmaglia;
Ed altri una pendente nuvoletta,
D’ira sbuffando, a lacerar si
scaglia;
Sovra il mar
tremolante altri si getta,
E sveglia le procelle; altri
s’avvolve
Nel nembo genitor della saetta;
Si turbina
taluno entro la polve,
E tal altro col guizzo del baleno
Fende la terra e in fumo si
dissolve.
Dal sacro
intanto orror del tempio uscièno
Di mezzo all’atterrate are deserte
Due donne in atto d’amarezza
pieno.
L’una velate e
l’altra discoperte
Le dive luci avea, ma di gran
pianto
D’ambo le gote si parean coverte.
Era un vel
bianco della prima il manto,
Che parte cela e parte
all’intelletto
Rivela il corpo immaculato e
santo.
Una veste
inconsutile di schietto
Color di fiamma l’altra si cingea,
Siccome il pellican piagata il
petto.
E nella manca
l’una e l’altra dea
E nella dritta in mesto portamento
Una lucida coppa sostenea:
E sculto
ciascheduna un argomento
Avea di duolo, in bei rilievi
espresso
Di nitid’oro e di forbito argento.
In una sculto
si vedea con esso
Il figlio e la consorte un re
fuggire,
Pensoso più di lor che di sè
stesso;
E un dar subito
all’arme ed un fremire
Di cruda plebe, e dietro al
fuggitivo,
Siccome veltri dal guinzaglio,
uscire;
Poi tra le
spade ricondur cattivo
E tra l’onte quel misero
innocente,
Morto al gioire ed al patir sol
vivo.
Mirasi dopo una
perversa gente
Cercar furendo a morte una regina,
Dir non so se più bella o più
dolente;
Ed ancisi i
custodi alla meschina,
E per rabbia delusa, orrendo a
dirsi!
Trafitto il letto e la regal
cortina.
V’era l’urto in
un’altra ed il ferirsi
Di cinquecento incontra a mille e
mille,
E dell’armi il fragor parea
sentirsi.
Formidabile il
volto e le pupille,
La Discordia scorrea tra
l’irte lance,
Tra la polve, tra ’l fumo e le
faville
E i tronchi
capi e le squarciate pance,
Agitando la face che sanguigna
De’ combattenti scoloría le
guance.
Vienle appresso
la Morte che
digrigna
I bianchi denti, ed i feriti
artiglia
Con la grand’unghia antica e
ferrugigna;
E pria l’anime
felle ne ronciglia
Fuor delle membra, e le rassegna
in fretta
Fumanti e nude all’infernal
famiglia;
Poi, ghermite
le gambe, ne si getta
I pesanti cadaveri alle spalle,
Né più vi bada, e innanzi il campo
netta.
Dietro è tutto
di morti ingombro il calle:
Il sangue a fiumi il rio terreno
ingrassa,
E lubrico s’avvia verso la valle.
Scorre intorno
il Furor coll’asta bassa,
Scorre il Tumulto temerario, e il
Fato
Ch’un ne percuote ed un ne salva e
passa;
Scorre il
lacero Sdegno insanguinato,
E l’Orror co’ capelli in fronte
ritti,
Come l’istrice gonfio e
rabbuffato.
Al fine in
compagnia de’ suoi delitti
Vien la proterva Libertà francese;
Ch’ebbra il sangue si bee di quei
trafitti.
E son sì vivi i
volti e le contese,
Che non tacenti ma parlanti e vere
Quelle immagini credi e
quell’offese.
Altra scena di
pianto, onde il pensiere
Rifugge e in capo arricciasi ogni
pelo,
Nella terza scultura il guardo
fere.
Sacro
all’inclita donna del Carmelo
Apriasi un tempio, e distendea la
notte
Sul primo sonno de’ mortali il
velo:
Se non che
dell’oscure artiche grotte
Languían le mute abitatrici al
cheto
Raggio di luna indebolite e rotte.
Strascinavasi
quivi un mansueto
Di ministri di Dio sacro
drappello,
Ch’empio dannava popolar decreto.
Un barbaro di
lor si fea macello:
Ed ei, che schermo non avean di
scudo
Al calar del sacrilego coltello,
Pietà, Signor,
porgendo il collo ignudo,
Signor, pietà, gridavano: e venía
In quella il colpo inesorato e
crudo.
Cadean le
teste, e dalle gole uscía
Parole e sangue, per la polve il
nome
Di Gesù gorgogliando e di Maria.
E l’un su l’altro
si giacean, siccome
Scannate pecorelle; e fean
ribrezzo
L’aperte bocche e le riverse
chiome.
La luna il
raggio ai visi esangui in mezzo
Pauroso mandava e verecondo,
A tanta colpa non ben anco
avvezzo;
Ed implorar
parea d’un vagabondo
Nugolo il velo ed affrettar
raminga
Gli atterriti cavalli ad altro
mondo.
Chi mi darà le
voci ond’io dipinga
Il subbietto feral che quarto
avanza,
Sì ch’ogni ciglio a lagrimar
costringa?
Uom d’affannosa
ma regal sembianza,
A cui, rapita la corona e il
regno,
Sol del petto rimasta è la
costanza,
Venía di morte
a vil supplizio indegno
Chiamato, ahi lasso!, e ve ’l
traevan quelli
Che fur dell’amor suo poc’anzi il
segno.
Quinci e quindi
accorrean sciolte i capelli
Consorte e suora ad abbracciarlo,
e gli occhi
Ognuna avea conversi in due
ruscelli.
Stretto al seno
egli tiensi in su i ginocchi
Un dolente fanciullo; e par che
tutto
Negli amplessi e ne’ baci il cor
trabocchi,
E sì gli dica:
Da’ miei mali istrutto
Apprendi, o figlio, la virtude, e
cògli
Di mie fortune dolorose il frutto.
Stabile e santo
nel tuo cor germogli
Il timor del tuo Dio, nè mai d’un
trono
Mai lo stolto desir l’alma
t’invogli.
E se l’ira del
ciel sì tristo dono
Faratti, il padre ti rammenta, o
figlio:
Ma serba a chi l’uccide il tuo
perdono.
Questi accenti
parea, questo consiglio
Profferir l’infelice, e chete
intanto
Gli discorrean le lagrime dal
ciglio.
Piangean tutti
d’intorno; e dall’un canto
Le fiere guardie impietosite
anch’esse
Sciogliean, poggiate sulle lance,
il pianto.
Cotai sul vaso
acerbi fatti impresse
L’artefice divino; e, se vietato,
Se conteso il dolor non gliel
avesse,
Il resto de’
tuoi casi effigiato
V’avria pur anco, o re tradito, e
degno
Di miglior scettro e di più giusto
fato.
E ben lo
cominciò: ma l’alto sdegno
Quel lavoro interruppe, e alla
pietate
Cesse alfin l’arte ed all’orror
l’ingegno.
Poichè, di
doglia piene e d’onestate,
Si fûr l’alme due dive a quel
feroce
Spettacolo di sangue approssimate,
Sul petto delle
man fèro una croce;
E, sull’illustre estinto il guardo
fise,
Senza moto restarsi e senza voce,
Pallide e
smorte come due recise
Caste vïole o due ligustri occulti
Cui nè l’aura nè l’alba ancor
sorrise.
Poi con lagrime
rotte da’ singulti
Baciâr l’augusta fronte, e ne
serraro
Gli occhi nel sonno del Signor
sepulti;
Ed, il corpo
composto amato e caro,
Vi pregàr sopra l’eterno riposo,
Disser l’ultimo vale, e sospiraro.
E quindi in
riverente atto pietoso
Il sacro sangue, di che tutto
orrendo
Era intorno il terreno abbominoso,
Nell’auree
tazze accolsero piangendo;
Ed ai quattro guerrier vestiti a
bruno
Le presentâr spumanti; una
dicendo:
Sorga da questo
sangue un qualcheduno
Vendicator, che col ferro e col
foco
Insegua chi lo sparse: nè veruno
Del delitto si
goda, nè sia loco
Che lo ricovri: i flutti avversi
ai flutti,
I monti ai monti, e l’armi
all’armi invoco.
Il tradimento
tradimento frutti:
L’esiglio, il laccio, la prigion,
la spada
Tutti li perda e li disperda
tutti.
E chi sitía più
sangue per man cada
D’una virago, ed anima funèbre
A dissetarsi in Acheronte vada.
E chi, rïarso
da superba febre,
Del capo altrui si fea sgabello al
soglio
Sul patibolo chiuda le palpèbre,
E gli emunga il
carnefice l’orgoglio:
Nè ciglio il pianga; nè cor sia,
che fuora
Del suo tardi morir, senta
cordoglio.
La veneranda
dea parlava ancora;
E già fuman le coppe, e a quei
campioni
Il cherubico volto si scolora;
Pari a quel
della luna, allor che proni
Ruota i pallidi raggi e in giù la
tira
Il poter delle tessale canzoni.
E l’occhio
sotto l’elmo un terror spira,
Che buia e muta l’aria ne divenne,
E tremò di quei sguardi e di
quell’ira.
Dei quattro
opposti venti in su le penne
Tutti a un tempo fêr vela i
cherubini,
Ed ogni vento un cherubin
sostenne.
Già il sol
lavava lacrimoso i crini
Nell’onde maure, e dal timon
sciogliea
Impauriti i corridor divini;
Chè la memoria
ancor retrocedea
Dal veduto delitto; e chini e
mesti
Espero all’auree stalle i
conducea;
Mentre la notte
di pensier funesti
E di colpe nudrice e di rimorsi
Le mute riprendea danze celesti:
Quando per
l’aria cheta erte levôrsi
Le quattro oscure visïon tremende,
E l’una all’altra tenea vôlti i
dorsi.
Giunte là dove
la folgore prende
L’acuto volo e furibonda il seno
Della materna nuvola scoscende,
Inversero le
coppe; e in un baleno
Imporporossi il cielo e delle
stelle
Livido fessi il virginal sereno.
Inversero le
coppe; e piobber quelle
Il fatal sangue, che tempesta
roggia
Par di vivi carboni di fiammelle.
Sotto la strana
rubiconda pioggia
Ferve irato il terren che la
riceve,
E rompe in fumo: e il fumo in alto
poggia,
E i petti invade
penetrante e lieve
E le menti mortali, e fa che d’ira
Alto incendio da tutte si solleve.
Arme fremon le
genti, arme cospira
L’orto e l’occaso, l’austro e
l’aquilone,
E tutta quanta Europa arme delira.
Quind’escono
del fier settentrïone
L’aquile bellicose, e
coll’artiglio
Sfrondano il franco tricolor
bastone.
Quinci move
dell’anglico coviglio
Il biondo imperator della foresta
Il tronco stelo a vendicar del
giglio.
Al fraterno
ruggito alza la testa
L’annoverese impavido cavallo
E il campo colla soda unghia
calpesta.
D’altra parte
sdegnosa esce del vallo
E maestosa la gran donna ibera
Al crudele di Marte orrido ballo;
E, scossa la
cattolica bandiera,
In su la rupe pirenea s’affaccia,
Tratto il brando e calata la
visiera;
E la celtica
putta alto minaccia,
E l’osceno berretto alla ribalda
Scompiglia in capo e per lo fango
il caccia.
Ma del prisco
valor ripiena e calda
La sovrana dell’Alpi in su
l’entrata
Ponsi d’Italia, e ferma tiensi e
salda;
E alla nemica
la fatal giornata
Di Guastalla e d’Assietta ella
rammenta
E l’ombra di Bellisle invendicata,
Che rabbiosa
s’aggira e si lamenta
In val di Susa e arretra per paura
Qualunque la vendetta ancor
ritenta.
Mugge fra tanto
tempestosa e scura
Da lontan l’onda della sarda Teti,
Scoglio del franco ardire e
sepoltura.
Mugge l’onda
tirrena irrequïeti
Levando i flutti, e non aver si
pente
Da pria sommersi i mal raccolti
abeti.
Mugge l’onda
d’Atlante orribilmente,
Mugge l’onda britanna; e al suo
muggito
Rimormorar la baltica si sente.
Fin dall’estremo
americano lito
Il mar s’infuria; e il lusitan
n’ascolta
Nel buio della notte il gran
ruggito.
Sgomentossi,
ristette, e a quella volta
Drizzò l’orecchio di Bassville
anch’essa
L’attonit’ombra in suo dolor
sepolta.
Palpitando
ristette; e alla convessa
Regïon sollevando la pupilla
Traverso all’ombra sanguinosa e
spessa,
Vide in su per
la truce aria tranquilla
Correr spade infocate; ed aspri e
cupi
N’intese i cozzi ed un clangor di
squilla.
Quindi gemere i
boschi, urlar le rupi,
E piangere le fonti e le notturne
Strigi solinghe, e ulular cagne e
lupi;
E la quïete
abbandonar dell’urne
Pallid’ombre fur viste, e per le
vie
Vagolar sospirose e taciturne;
Starsi i fiumi,
sudar sangue le pie
Immagini de’ templi, ed involato
Temer le genti eternamente il die.
O pietosa mia
guida, che campato
M’hai dal lago d’Averno, e che mi
porti
A sciogliere per gli occhi il mio
peccato;
Certo di stragi
e di sangue e di morti
Segni orrendi vegg’io: ma come? e
donde?
E a chi propizie volgeran le
sorti?
Al suo duce sì disse,
e avea feconde
Di pianto la francese ombra le
ciglia.
Vienne meco, e il saprai, l’altro
risponde;
Ed amoroso per la man la piglia.
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