CANTICA
CANTO PRIMO
Come face al
mancar dell’alimento
Lambe gli aridi stami, e di
pallore
Veste il suo lume ognor più scarso
e lento;
E guizza
irresoluta, e par che amore
Di vita la richiami, infin che
scioglie
L’ultimo volo, e sfavillando
muore:
Tal quest’alma
gentil, che morte or toglie
All’italica speme e su lo stelo
Vital che verde ancor fioría, la
coglie,
Dopo molto
affannarsi entro il suo velo,
E anelar stanca su l’uscita,
alfine
L’ali aperse e raggiando alzossi
al cielo.
Le virtù, che diverse
e pellegrine
La vestir mentre visse, il mesto
letto
Cingean, bagnate i rai, scomposte
il crine,
Della patria
l’Amor santo e perfetto,
Che amor di figlio e di fratello
avanza,
Empie a mille la bocca, a dieci il
petto:
L’Amor di
libertà, bello se stanza
Ha in cor gentile, e, se in cor
basso e lordo,
Non virtù, ma furore e
scelleranza;
L’Amor di
tutti, a cui dolce è il ricordo
Non del suo dritto ma del suo
dovere,
E l’altrui bene oprando al proprio
è sordo:
Umiltà, che fa
suo l’altrui volere:
Amistà, che precorre al prego e
dona,
E il dono asconde con un bel
tacere:
Poi le nove
virtù che in Elicona
Danno al muto pensier con aurea
rima
L’ali il color la voce e la
persona;
Colei che
gl’intelletti apre e sublima,
E col valor di finte cifre il vero
Valor de’ corpi immaginati estima;
Colei che li
misura, e del primiero
Compasso armò di Dio la destra,
quando
Il grand’arco curvò dell’emispero
E spinse in
giro i soli, incoronando
L’ampio creato di fiammanti mura,
Contro cui del caosse il mar
mugghiando
E crollando le
dighe entro la scura
Eternità rimbomba e paurosa
Fa del suo regno dubitar natura.
Eran queste le
dee che lamentosa
Fean corona alla spoglia che d’un
tanto
Spirto di vita nel cammin fu
sposa.
Ecco il cor,
dicea l’una, in che sì santo
Sì fervido del giusto arse il
desiro:
E la man pose al core, e ruppe in
pianto.
Ecco la dotta
fronte onde s’apriro
Sì profondi pensieri, un’altra
disse:
E la fronte toccò con un sospiro.
Ecco la destra,
ohimè! che li descrisse,
Venía sclamando un’altra; e baci
ardenti
Su la man fredda singhiozzando
affisse.
Poggia intanto
quell’alma alle lucenti
Sideree rote, e or questa spera or
quella
Di sua luce l’invita entro i
torrenti.
Vieni, dicea
del terzo ciel la stella:
Qui di Valchiusa è il cigno, e
meno altera
La sua donna con seco e assai più
bella;
Qui di Bice il
cantor, qui l’altra schiera
De’ vati amanti: e tu, cantor
lodato
D’un’altra Lesbia, ascendi alla
mia spera.
Vien, di Giove
dicea l’astro lunato:
Qui riposa quel grande che su
l’Arno
Me di quattro pianeti ha coronato.
Vien quegli
occhi a mirar, che il ciel spïarno
Tutto quanto, e, lui visto, ebber
disdegno
Veder oltre la terra e
s’oscurarno.
Tu, che dei
raggi di quel divo ingegno
Filosofando ornasti i pensier tui,
Vien; tu con esso di goder se’
degno.
Ma di rincontro
folgorando i sui
Tabernacoli d’oro apriagli il
sole;
E, vieni, ei pur dicea, resta con
nui.
Io son la mente
della terrea mole,
Io la vita ti diedi, io la favilla
Che in te trasfuse la giapezia
prole.
Rendimi dunque
l’immortal scintilla
Che tua salma animò; nelle regali
Tende rientra del tuo padre e
brilla.
D’italo nome
troverai qui tali
Che dell’uman sapere archimandriti
Al tuo pronto intelletto impennâr
l’ali;
Colui che
strinse ne’ suoi specchi arditi
Di mia luce gli strali e fe’
parere
Cari a Marcello di Sicilia i liti;
Primo quadrò la
curva del cadere
De’ proietti creata, e primo vide
Il contener delle contente sfere.
Seco è il
calabro antico, che precide
Alle mie rote il giro e del mio
figlio
La sognata caduta ancor deride.
Qui Cassin, che
in me tutto affisse il ciglio,
Fortunato così, ch’altri giammai
Non fe’ più bello del veder
periglio;
Qui Bianchin,
qui Ricciòli, ed altri assai
Del ciel conquistatori, ed Orïano
L’amico tuo qui assunto un dì
vedrai;
Lui che
primiero dell’intatto Urano
Coi numeri frenò la via segreta,
Orian degli astri indagator
sovrano.
Questi dal
centro del maggior pianeta
Uscìan richiami; e: Vieni, anima
dia
Par ch’ogni stella per lo ciel
ripeta.
Sì dolce udíasi
intanto un’armonia,
Che qual più dolce suono arpa
produce
Di lavoro mortal mugghio saría.
E il sol sì
viva saettò la luce,
Che il più puro tra noi giorno
sereno
Notte agli occhi saría quando è
più truce.
Qual tra mille
fioretti in prato ameno,
Vago parto d’april, la fanciulletta,
Disïosa d’ornar le tempia e il
seno,
Or su questo or
su quel pronta si getta,
Vorría tutti predarli, e li divora
Tutti con gli occhi ingorda e
semplicetta;
Tal quell’alma
trasvola, e s’innamora
Or di quel raggio ed or di questo,
e brama
Fruir di tutti, e niun l’acqueta
ancora:
Perocché più
possente a sè la chiama
Cura d’amore di quei cari in
traccia
Che amò fra’ vivi e più fra gli
astri or ama.
Ella di Borda e
Spallanzan la faccia
E di Parin sol cerca; ed ogni
spera
N’inchiede, e prega che di lor non
taccia.
Ed ecco a suo
rincontro una leggiera
Lucida fiamma, che nel grembo
porta
Una dell’alme di cui fea
preghiera.
Qual fu suo
studio in terra, iva l’accorta
Misurando del cielo alle vedette
L’arco che l’ombra fa cader più
corta.
— Oh mio Lorenzo!
— oh Borda mio! — Fur dette
Queste, e non più, per lor,
parole: il resto
Disser le braccia al collo avvinte
e strette.
— Pur ti trovo.
— Pur giungi. — Io piansi mesto
L’amara tua partita, e su latino
Non vil plettro il mio duol fu
manifesto. —
— Io di quassù
l’intesi, o pellegrino
Canoro spirto; e desïai che ratto
Fosse il vol che dovea farti
divino. —
— Anzi tempo,
lo vedi, fu disfatto
Laggiù il mio frale. — Il veggo, e
nondimeno
«Qual di te
lungo quì aspettar s’è fatto! —
Così confusi l’un dell’altro in
seno,
E alternando il parlar, spinser le
piume
Là dove fa la lira il ciel sereno;
D’Orfeo la
lira, che il paterno nume
D’auree stelle ingemmò, mentre
volgea
Sanguinosa la testa il tracio
fiume,
E, misera
Euridice, ancor dicea
L’anima fuggitiva, ed Euridice,
Euridice, la ripa rispondea.
Conversa in
astro quella cetra elice
Sì dolci suoni ancor, che la
dannata
Gente gli udendo si faría felice.
Giunte a
quell’onda d’armonia beata
Le due celesti peregrine, un’alma
Scoprir che grave al suon si gode
e guata;
Sovra un lucido
raggio assisa in calma,
L’un su l’altro il ginocchio, e su
i ginocchi
L’una nell’altra delle man la
palma.
Torse ai due
che veniéno i fulgid’occhi,
Guardò Lorenzo, e in lei del caro
aspetto
Destàrsi i segni dall’obblio non
tocchi.
Non assurse
però; ma con diletto
Le man protese, e balenò d’un riso
Per la memoria dell’antico
affetto.
E ben giunto,
lui disse: alfin diviso
Ti se’ dal mondo, dal quel mondo
u’ solo
Lieta è la colpa ed il pudor
deriso.
Dopo il tuo dipartir
dal patrio suolo
Io misero Parini il fianco venni
Grave d’anni traendo e più di
duolo.
E, poich’oltre
veder più non sostenni
Della patria lo strazio e la
ruina,
Bramai morire, e di morire
ottenni.
Vidi prima il
dolor della meschina
Di cotal nuova libertà vestita,
Che libertà nomossi e fu rapina.
Serva la vidi,
e, ohimè!, serva schernita,
E tutta piaghe e sangue al ciel
dolersi
Che i suoi pur anco, i suoi
l’avean tradita.
Altri stolti,
altri vili, altri perversi,
Tiranni molti, cittadini pochi,
E i pochi o muti o insidïati o
spersi.
Inique leggi, e
per crearle rochi
Su la tribuna i gorgozzuli, e in
giro
La discordia co’ mantici e co’
fuochi,
E l’orgoglio
con lei l’odio il deliro
L’ignoranza l’error, mentre alla
sbarra
Sta del popolo il pianto ed il sospiro.
Tal s’allaccia
in senato la zimarra,
Che d’elleboro ha d’uopo e
d’esorcismo;
Tal vi tuona, che il callo ha
della marra;
Tal vi trama,
che tutto è parossismo
Di delfica manía, vate più destro
La calunnia a filar che il
sillogismo;
Vile! e tal altro
del rubar maestro
A Caton si pareggia, e monta i
rostri
Scappato al remo e al tiberin
capestro.
Oh iniqui! E
tutti in arroganti inchiostri
Parlar virtude, e sé dir Bruto e
Gracco,
Genuzii essendo Saturnini e
mostri.
Colmo era in
somma de’ delitti il sacco;
In pianto il giusto, in
gozzoviglia il ladro,
E i Bruti a desco con Ciprigna e
Bacco.
Venne il
nordico nembo, e quel leggiadro
Viver sommerse: ma novello
stroppio
La patria n’ebbe e l’ultimo
soqquadro.
Udii di Cristo
i bronzi suonar doppio
Per laudarlo che giunto era il
tiranno:
Ahi! che pensando ancor ne fremo e
scoppio.
Vidi il tartaro
ferro e l’alemanno
Strugger la speme dell’ausonie
glebe
Sì che i nepoti ancor ne
piangeranno.
Vidi chierche e
cocolle armar la plebe,
Consumar colpe che d’Atreo le cene
E le vendette vincerían di Tebe.
Vidi in cocchio
Adelasio, ed in catene
Paradisi e Fontana. Oh sventurati!
Virtù dunqu’ebbe del fallir le
pene?
Cui non duol di
Caprara e di Moscati?
Lor ceppi al vile detrattor fan
fede
Se amâr la patria o la tradir comprati.
Containi!
Lamberti! o ria mercede
D’opre onorate! ma di re giustizia
Lo scellerato assolve e il giusto
fiede.
Nella fiumana
di tanta nequizia,
Deh! trammi in porto, io dissi al
mio Fattore;
Ed ei m’assunse all’immortal
letizia.
Nè il guardo
vinto dal veduto orrore
Più rivolsi laggiù, dove soltanto
S’acquista libertà quando si
muore.
Ma tu, che
approdi da quel mar di pianto,
Che rechi? Italia che si fa?
L’artiglia
L’aquila ancora? O pur del suo
gran manto
Tornò la madre
a ricoprir la figlia?
E Francia intanto è seco in pace?
o in rio
Civil furore ancor la si periglia?
Tacquesi; e
tutta la pupilla aprío
Incontro alla risposta alzando il
mento.
Compose l’altro il volto, e quel
desío
Fe’ del
seguente ragionar contento.
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