CANTO TERZO
Due virtù, che
nimiche e in un sorelle
L’una grida rigor, l’altra
perdono,
Care entrambe di Dio figlie ed
ancelle,
Ritte in piè,
dell’Eterno innanzi al trono
Ecco a gran lite. Ad ascoltarle
intenti
Lascian l’arpe i celesti in
abbandono;
Lascian le
sacre danze, e su lucenti
Di crisolito scanni e di berillo
Si locàr taciturni e riverenti.
D’ogni parte
quetato era lo squillo
Delle angeliche tube, il tuon
dormiva,
E il fulmine giacea freddo e
tranquillo.
Allor Giustizia
inesorabil diva,
Incominciò: Sire del ciel, che
libri
Nell’alta tua tremenda estimativa
Le scelleranze
tutte e a tutte vibri
Il suo castigo, e fino a quando
inulti
Fian d’Europa i misfatti, e di
ludibri
Carco il tuo
nome? Ve’ tu come insulti
L’umano seme a tua bontade, e
ingrato
Del par che stolto nella colpa
esulti?
Vedi sozzi di
strage e di peccato
I troni della terra e dalla forza
Il delitto regal santificato.
Vedi come la
ria ne’ petti ammorza
Di ragion la scintilla, e i sacri
eterni
Dell’uom diritti cancellar si
sforza:
Mentre nuda al
rigor di caldi e verni
Getta la vita una misera plebe,
Che sol si ciba di dolor, di
scherni,
E a rio macello
spinta, come zebe,
Per l’utile d’un solo, in campo
esangue
L’itale ingrassa e le tedesche
glebe.
Di propria man
squarciata intanto langue
La peccatrice Europa, ed Anglia
cruda
L’onor ne compra e coll’onore il
sangue.
Per lei Megera
nell’inferno suda
Armi esecrate, per lei tòschi
mesce;
Suo brando è l’oro, ed il suo
Marte, Giuda.
Che di Francia
direm? A che rïesce
De’ suoi sublimi scotimenti il
frutto?
Mira che agli altri e a sè medesma
incresce.
Potea col senno
e col valor far tutto
Libero il mondo, e il fece di
tremende
Follie teatro e lo coprì di lutto.
Libertà, che
alle belle alme s’apprende,
Le spedisti dal ciel, di tua
divina
Luce adornata e di virginee bende;
Vaga sì che nè
greca nè latina
Riva mai vista non l’avea, giammai
Di più cara sembianza e
pellegrina.
Commossa al
lampo di que’ dolci rai
Ridea la terra intorno, ed io
t’adoro, —
Dir pareva ogni core, io ti
chiamai. —
Nobil fierezza,
matronal decoro,
Candida fede, e tutto la seguía
Delle smarrite virtù prische il
coro;
E maestosa al
fianco le venía
Ragion d’adamantine armi vestita
Con la nemica dell’error Sofia.
Allor mal ferma
in trono e sbigottita
La tirannia tremò; parve del mondo
Allor l’antica servitù finita.
Ma tutte pose
le speranze al fondo
La delira Parigi, e libertate
In Erinni cangiò, che furibondo
Spiegò
l’artiglio; e prime al suol troncate
Cadder le teste de’ suoi figli, e
quante
Fûr più sacre e famose ed onorate.
Poi, divenuta
in suo furor gigante,
L’orribil capo fra le nubi ascose,
E tentò porlo in ciel la
tracotante,
E gli sdegni
imitarne e le nembose
Folgori e i tuoni, e culto ambir
divino
Fra le genti d’orror mute e
pensose.
Tutta allor
mareggiò di cittadino
Sangue la Gallia: ed in quel sangue
il dito
Tinse il ladro, il pezzente e
l’assassino,
E in trono si
locò vile marito
Di più vil libertà, che di delitti
Sitibonda ruggía di lito in lito.
Quindi
proscritte le città, proscritti
Popoli interi, e di taglienti
scuri
Tutte ingombre le piazze e di
trafitti.
O voi che state
ad ascoltar, voi puri
Spirti del ciel, cui veggio al rio
pensiero
Farsi i bei volti per pietade
oscuri;
Che cor fu il
vostro allor che per sentiero
D’orrende stragi inferocir vedeste
E strugger Francia un solo, un
Robespiero?
Tacque, e al
nome crudel su l’auree teste
Si sollevâr le chiome
agl’immortali,
Frementi in suon di nembi e di
tempeste.
Gli angeli il
volto si velâr coll’ali,
E sotto ai piedi onnipossenti
irato
Mugolò il tuono e fiammeggiâr gli
strali.
E già bisbiglia
il ciel, già d’ogni lato
Grida vendetta; e vendetta iterava
Dell’Olimpo il convesso
interminato.
Carca d’ire
celesti cigolava
De’ fati intanto la bilancia; e
Dio,
Dio sol si stava immoto e
riguardava.
Surse allor la Pietade; e non aprío
Il divin labbro ancor, che già tacea
Di quell’ire tremende il mormorío.
Col dolce
strale d’un sol guardo avea
Già conquiso ogni petto. In questo
dire
La rosea bocca alfin sciolse la
dea:
Alte in mezzo
de’ giusti odo salire
Di vendetta le grida, ed io
domando
Anch’io vendetta, sempiterno Sire.
Anch’io
cacciata dai potenti in bando
Batto indarno ai lor cuori, e
inesaudita
Vo scorrendo la terra e
lagrimando.
Ma se i
regnanti han mia ragion tradita,
Perchè la colpa de’ regnanti, o
padre,
Negl’innocenti popoli è punita?
Perchè tante
perir misere squadre
Per la causa de’ vili? Ahi! caro i
crudi
Fanno il sacro costar nome di
madre.
Peccò Francia,
gli è ver; ma, spenti i drudi
D’insana libertà, perchè in suo
danno
Gemono ancora le nimiche incudi?
Dunque eterne
laggiù l’ire saranno?
E solo al pianto in avvenir le
spose,
Solo al ferro e al furor
partoriranno?
Dunque Europa
le guance lagrimose
Porterà sempre? E per chi poi? Per
una,
Per due, per poche insomma alme
orgogliose.
Taccio il nembo
di duol che denso imbruna
Tutto d’Olanda il ciel; taccio il
lamento
Della prostrata elvetica fortuna.
Ma l’affanno
non taccio e il tradimento
Che Italia or grava, Italia in cui
natura
Fe’ tanto di bellezza esperimento.
Duro il
servaggio la premea; più dura
Una sognata libertà la preme,
Che colma de’ suoi mali ha la
misura.
Su i cruenti
suoi campi più non freme
Di Marte il tuono; ma che val, se
in pace
Pur come in guerra si sospira e
geme?
Prepotente
rapina alla vorace
Squallida fame spalancò le porte,
E chi serrarle le dovea si tace.
Meglio era pur
dal ferro aver la morte,
Che spirar nudo e scarno e
derelitto
Tra i famelici figli e la
consorte.
Deh sia fine al
furor, fine al delitto,
Fine ai pianti mortali, e della
spada
Pèra una volta e de’ tiranni il
dritto!
Paghi di sangue
chi vuol sangue, e cada;
Ma l’innocente viva, e
dell’oppresso
Il sospiro, o Signor, ti persuada.
La dea qui
ruppe il suo parlar con esso
Le lagrime sul ciglio: e chi per
questa
Chi per quella fremea l’alto
consesso;
Qual freme
d’aquilon chiuso in foresta
Il primo spiro, allor che ciechi
aggira
I sussurri forier della tempesta.
Mentre vario il
favor ne’ petti ispira
Desïanze diverse, incerto ognuno
Qual fia vittrice, la clemenza o
l’ira;
Del ciel
cangiossi il volto e si fe’ bruno,
E caligine in cerchio orrenda e
folta
Il trono avvolse dell’Eterno ed
Uno.
E una voce
n’uscì che l’ardua vòlta
Dell’Olimpo intronava. Attenta e
muta
Trema natura e la gran voce
ascolta.
Cieli, udite,
odi, o terra, l’assoluta
Di Dio parola. Tu che l’alto
spegni
Patrio delirio, e Francia hai
restituta;
Tu che vincendo
moderanza insegni
All’orgoglio de’ re, cui tua
saggezza
Tolse la scusa di cotanti sdegni;
Fa cor! Quel
Dio che abbatte ogni grandezza,
Guerra e pace a te fida, a te
devolve
Il castigo d’Europa e la salvezza.
Tu sei polve al
mio sguardo, ed io la polve
Strumento fo del mio voler. Qui
tacque
Colui che immoto tutto move e
volve.
Qui sparve
l’alta vision: poi nacque
Per entro al negro vortice un
confuso
Romor d’ali e di piè che di
molt’acque
Parea lo
scroscio. Ma repente schiuso
Fiammeggiò quel gran buio, e folgorando
Due cherubini si calaro in giuso:
Que’ due
medesmi del divin comando
Esecutori, che nel pugno aviéno
L’un d’olivo la fronda, e l’altro
il brando.
Ratti a paro
scendean come baleno,
E due gran solchi di mirabil vista
Parallelli traean per lo sereno.
L’uno è pura di
luce argentea lista;
L’altro è turbo di fumo che
lampeggia,
E sangue piove che le stelle
attrista.
Di qua tutto
sorriso il ciel biancheggia;
Di là son tuoni e nembi, e in suon
di pianto
L’aria geme da lungi e romoreggia.
Seguían coll’ali
del vedere un tanto
Prodigio stupefatti i due
lombardi,
Coll’altro spirto di che parla il
canto;
Quando si vide
a passi gravi e tardi
Dalla parte ove rota il suo
vïaggio
La terra e obliqui al sole invia
gli sguardi
Pensierosa
salir l’ombra d’un saggio,
Che il dito al mento e corrugata
il ciglio,
Uom par che frema di veduto
oltraggio.
Dalla fronte
sublime e dal cipiglio
Nobilmente severo si procaccia
Testimonianza il senno ed il
consiglio.
Come trasse
vicino, alzò la faccia,
Gl’insubri ravvisò spirti diletti;
E mosse prima che il parlar, le
braccia.
Allor si vide
con amor tre petti
Confondersi e serrarsi, ed
affollarse
Gli uni su gli altri d’amicizia i
detti.
Lo stringersi a
vicenda e il dimandarse
Tra quell’alme finito ancor non
era,
Che di note sembianze altra
n’apparse;
E corse
anch’ella, ed abbracciò la schiera
Concittadina. Il volto avea
negletto,
Negletta la persona e la maniera:
Ma la fronte,
prigion d’alto intelletto,
Ad ora ad or s’infosca, e lampi
invia
Dell’eminente suo divin concetto.
Scrisse quel
primo l’alta economia
Che i popoli conserva, e tutta
svolse
Del piacer la sottile anatomia.
Intrepido a
librar l’altro si volse
I delitti e le pene, ed al tiranno
L’insanguinato scettro di man
tolse.
Poscia che le
accoglienze, onde si fanno
Lieti gli amici, s’iterâr fra
questi
Che fur primieri tra color che
sanno,
Disse Parini —
Perchè irati e mesti
Son tuoi sguardi, o mio Verri? Ed
ei rispose:
Piango la patria; e chinò gli
occhi onesti.
E anch’io la piango,
anch’io, con sospirose
Voci soggiunse Beccaria; poi mise
Su la fronte la mano, e la
nascose.
Di duol che
sdegna testimon conquise
Vide Borda quell’alme, e in atto
umano
Disse a tutte: Salvete; e si
divise.
Col salutar
degli occhi e della mano
Risposer quelle, e in preda alla
lor cura
Mosser tacendo per l’etereo piano.
Come gli amici
in tempo di sventura
Van talvolta per via, nè alcun
domanda
Per temenza d’udire cosa dura;
Tale andar si
vedea quell’onoranda
Di sofi compagnia, curva le
fronti,
Aspettando chi primo il suo cor
spanda.
Luogo è
d’Olimpo su gli eccelsi monti
Di piante chiuso che non han qui
nome,
E rugiadoso di nettarei fonti,
Ch’eterno il
verde edúcano alle chiome
Degli odorati rami, e i più bei
fiori
Di colei che fa il tutto e cela il
come;
Poi cadendo
precipiti e sonori
Tra scogli di smeraldo e di
zaffiro
Scendono a valle per diversi
errori:
E là danzando
del beato empiro
A inebrïar si vanno i cittadini
Dell’ambrosia che spegne ogni
desiro.
A quest’ermo
recesso i peregrini
Spirti avviârsi; e qui, seduti al
rezzo
Tra color persi azzurri e
porporini,
Fèr di sè
stessi un cerchio. O tu che in mezzo
Di lor sedesti, olimpia dea, nè
l’ira
Temi del forte nè del vil lo
sprezzo,
Tu verace
consegna alla mia lira
L’alte loro parole; e siano spiedi
A infame ciurma che alle forche
aspira
Nè vale il
fango che mi lorda i piedi.
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