Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Vincenzo Monti
Poesie

IntraText CT - Lettura del testo

  • PARTE III POEMETTI
    • In morte di Lorenzo Mascheroni CANTICA
      • CANTO QUARTO
Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

CANTO QUARTO

 

Sacro di patria amor che forza acquista,

Ed eterno rivive oltre l’avello

(Cominciò l’alto insùbre economista);

Desío che pure ne’ sepolti è bello

Di visitar talvolta ombra romita

Le care mura del paterno ostello,

E con gli affetti della prima vita

Le vicende veder di quel pianeta

Che l’alme al fango per partir marita,

Mi fean poc’anzi abbandonar la lieta

Regïon delle stelle: e il patrio nido

Fu dolce e prima del mio vol la mèta.

Per tutto armi e guerrier, tripudio e grido

Di libertà; per tutto e danze e canti,

Ed altari alle Grazie ed a Cupido,

E operose officine, e di volanti

Splendidi cocchi fervida la via,

E care donne e giovinetti amanti,

Sclamar mi fenno a prima giunta: Oh mia

Gentil Milano, tu sei bella ancora!

Ancor bella e beata è Lombardia!

Poi nell’ascoso penetrai (chè fuora

Sta le più volte il riso e dentro il pianto),

E venir mi credei nell’Antenòra,

Nella Caína, o s’altro luogo è tanto

Maledetto in inferno ove raccoglia

Tutte insieme le colpe Radamanto.

Dell’albergo fatal guardan la soglia

Le Cabale pensose e l’Impostura

Che per vestirsi la virtù dispoglia,

La Fraude che si tocca il petto e giura,

La fallace Amistà che sul tuo danno

Piange e poi t’abbandona alla ventura.

Carezzanti negli atti in volta vanno

Le bugiarde Promesse, accompagnate

Dalle garrule Ciance e dall’Inganno.

Sta fra le valve a piè profan vietate

Il Favor, che bifronte or apre or chiude,

E dice all’un: Non puossi; e all’altro: Entrate.

Su e giù sospinte le Speranze nude

Van zoppicando, e inseguele per tutto

Colei che tutte le speranze esclude.

Con umil carta in man lurido e brutto

Grida il Bisogno, e sua ragione apporta;

Ma duro niego de’ suoi gridi è il frutto:

Chè voce di ragion dentro è morta,

E de’ pieni scaffali tra le borre

Dorme Giustizia in gran letargo assorta;

dall’alto suo sonno la può sciôrre

Che il sonante cader di quella piova

Che fe’ lo stupro dell’acrisia torre.

Quest’io vidi nell’antro in cui si cova

Della patria il dolor, che con grand’arte

Tutto giorno si affina e si rinnova;

Tal che, guasta il bel corpo d’ogni parte,

Trae già l’ultimo fiato e muore in culla

La figlia del valor di Buonaparte.

Circuisce la misera fanciulla

Multiforme di mostri una congrega

Che la sugge la spolpa e la maciulla:

Il furto, ch’al poter fatto è collega;

Tirannia, che col dito entro gli orecchi,

Scòstati, grida alla pietà che prega;

Ignoranza che lósca fra gli specchi

Banchetta, e l’osso che non unge arcigna

Getta al merto giacente in su gli stecchi.

E la patria frattanto, empia matrigna,

Nega il pane a’ suoi figli, e a tal lo dona

Stranier, cui meglio si daría gramigna.

Mossi più addentro il piede; e in logra zona

Vidi l’inferma che Finanza ha nome,

Che scheletro pareva e non persona.

Colle man disperate entro le chiome

Guarda i vuoti suoi scrigni, e stupefatta

Cerca e non trova dell’empirli il come.

Or la Forza le invía fusa e disfatta

La pubblica sostanza; or la meschina

Perdendo merca e supplicando accatta.

Scorre a fiumi il danaro, e la rapina

Di color mille a cento man l’ingozza

E giù nell’ampio ventre lo ruina

Con sì gran fretta, che talor la strozza

Tutto nol cape, e il vome, e vomitato

Lo ricaccia nell’epa e lo rimpozza:

del pubblico sazia, anco il privato

Aver divora; e il vede e lo consente

Suprema e muta autorità di stato.

Chiusa e stretta la forza prepotente,

(Dolce interruppe allor Lorenzo), e in forse

Di maggior danno, e inerme e dependente,

Che far poteva autorità? — Deporse,

Gridò fiero Parini: e, steso il dito,

Gli occhi e la spalla brontolando torse.

Strinse allora le labbia in romito

Dei delitti il sottil ponderatore;

E, — Fu giusto, poi disse, il tuo garrito.

Forza li vinse: e che può forza in core

Che verace virtute in raduna?

Cede il giusto la vita e non l’onore;

L’onor su cui strale di fortuna,

brando tiranno lo stesso

Onnipossente non ha possa alcuna.

Qual madre che del figlio intende espresso

Grave fallo, si tace e non fa scusa,

Ma china il guardo per dolor dimesso,

E tuttavolta col tacer l’escusa;

Tal si fece Lorenzo, mansueta

Alma cortese a perdonar sol usa.

Ma col cenno del capo il fier poeta

Plause a quel dir, che il generoso fiele

De’ bollenti precordii in parte acqueta.

Aprì di nuovo al ragionar le vele

Verri frattanto, e, non ancor, soggiunse,

Tutto scorremmo questo mar crudele.

Poichè protetta la rapina emunse

Del popolo le vene, e di ben doma

Putta sfacciata il portamento assunse;

La meretrice che laggiù si noma

Libertà depurata, iva in bordello

Coi vizi tutti che dier morte a Roma.

Alla fronte lasciva era cappello

Il berretto di Bruto, ma di serva

Avea gli atti, il parlare ed il mantello.

E la seguía di drudi una caterva,

Che da questa d’Italia a quella fogna

A fornicar correa colla proterva.

Altri, perduta nel peccar vergogna,

Fuggì la patria no, ma il manigoldo;

Altri è resto di scopa, altri di gogna:

Qual repe e busca ruffianando il soldo;

Qual è spia; qual il falso testimonio

Vende pel quarto e men d’un leopoldo.

Quei chiede un Robespier che il sangue ausonio

Sparga, e le funi e la Senavra impetra

Con questo che biscazza il patrimonio.

V’ha, ventoso raschiator di cetra,

Il pudor caccia e medesmo in brago,

E segnato da Dio corre alla Vetra.

V’ha chi salta in bigoncia dallo spago;

V’ha chi versuto ciurmador le quadre

Muta in tonde figure, e non è mago.

Disse rea d’adulterio altri la madre,

E di vile semenza di convento

Sparso il solco accusò del proprio padre.

Altri è schiuma di prete, e fraudolento

De’ galeotti aringator, per fame

Va trafficando Cristo in sacramento.

Tutto è strame letame e putridame

D’intollerando puzzo, e lo fermenta

Tutto quanto de’ vizi il bulicame.

E questa ciurma ell’è colei che addenta

I migliori, colei che tuona e getta

D’Itala libertà le fondamenta?

Oh inopia di capestri! oh maladetta

Lue cisalpina! oh patria! oh giusto Iddio!

Perchè pigra in tua mano è la saetta?

Terror mi prese a tanto; e nell’oblio

Del mio stato immortale, al patrio tetto

Per celarmi, tremante il piè fuggío.

Oh mia dolce consorte! oh mio diletto

Fratello! Oh quanto nell’udir mi piacqui

Da voi nomarmi coll’antico affetto,

E ricordar siccome amai tacqui

La pubblica ragion, sin che, già franta

De’ buon la speme, addio vi dissi, e giacqui!

Piansi di gioia nel veder cotanta

Carità della patria, e come intera

De’ miei figli nel cor la si trapianta.

Ed io vana allor corsi ombra leggera,

E gli strinsi, e sentii tutta in quel punto

La dolcezza di padre, e più sincera.

Ma il tenero lor petto al mio congiunto

Ahi! quell’amplesso non intese, e invano

Vivi corpi abbracciai spirto defunto.

Mi staccai da’ miei cari: e di Milano

Ratto fuggendo, a quel sordo mi tolsi

Delle lagrime altrui gonfio oceàno.

Città discorsi e campi; e pria mi volsi

Al longobardo piano, ove superbe

Strinser catene al re de’ Franchi i polsi,

E il villan coll’aratro ancor tra l’erbe

Urta le gallicossa, e quell’aspetto

Par che ’l natío rancor gli disacerbe.

Vidil campo ove Scipio giovinetto

Contro i punici dardi allo spirante

Padre fe’ scudo del roman suo petto.

Vidi l’umil Agogna intollerante

Del suo fato novel: vidi la valle

Cui nome ed ubertà fa la sonante

Sesia. Di varcai per arduo calle

L’Alpe che il nutritor di molte genti

Verbano adombra colle verdi spalle.

Quindi del Lario attinsi le ridenti

Rive e la terra ove alla luce aprîrsi

I solerti di Plinio occhi veggenti,

Ed or l’odi di Volta insuperbirsi,

Che vita infonde pecontatti estremi

Di due metalli (maraviglia a dirsi!)

Nei membri già di pelle e capo scemi

Delle rauche di stagno abitatrici,

E di Galvan ricrea gli alti sistemi.

I placidi cercai poggi felici

Che con dolce pendío cingon le liete

Dell’Eupili lagune irrigatrici;

E nel vederli mi sclamai: Salvete,

Piagge dilette al ciel, che al mio Parini

Foste cortesi di vostrombre quete,

Quando ei fabbro di numeri divini,

L’acre bile fe’ dolce, e la vestía

Di tebani concenti e venosini.

Parea de’ carmi tuoi la melodìa

Per quell’aure ancor viva, e l’aure e l’onde

E le selve eran tutte un’armonìa.

Parean d’intorno i fior, l’erbe, le fronde

Animarsi e iterarmi in suon pietoso:

Il cantor nostro ov’è? chi lo nasconde?

Ed ecco in mezzo di ricinto ombroso

Sculto un sasso funèbre che dicea:

Ai sacri mani di Parin riposo.

E donna di beltà che dolce ardea

(Tese l’orecchio, e fiammeggiando il vate

Alzò l’arco del ciglio, e sorridea)

Colle dita venía bianco-rosate

Spargendolo di fiori e di mortella,

Di rispetto atteggiata e di pietate.

Bella la guancia in suo pudor; più bella

Su la fronte splendea l’alma serena,

Come in limpido rio raggio di stella.

Poscia che dati i mirti ebbe a man piena,

Di lauro, che parea lieto fiorisse

Tra le sue man, fe’ al sasso una catena;

E un sospir trasse affettuoso, e disse:

Pace eterna all’amico: e te chiamando

I lumi al cielopietosi affisse,

Che gli occhi anch’io levai, certa aspettando

La tua discesa. Ah qual mai cura, o quale

Parte d’Olimpo ratteneati, quando

Di que’ bei labbri il prego erse a te l’ale?

Se questa indarno l’udir tuo percuote,

Qual altra ascolterai voce mortale?

Riverente in disparte alle devote

Ceremonie assistea colle tranquille

Luci nel volto della donna immote,

Uom d’alta cortesia, che il ciel sortille,

Più che consorte, amico. Ed ei, che vuole

Il voler delle care alme pupille,

Ergea d’attico gusto eccelsa mole,

Sovra cui d’ogni nube immacolato

Raggiava immemor del suo corso il sole.

E Amalia la dicea dal nome amato

Di costei che del loco era la diva,

E più del cor che al suo congiunse il fato.

Al pio rito funèbre, a quella viva

Gara d’amor mirando, già di mente

Del mio gir oltre la cagion m’usciva.

Mossi al fine; e quei colli ove si sente

Tutto il bel di natura, abbandonai,

L’orme segnando al cor contrarie e lente.

Vagai per tutto: nel tugurio entrai

Dell’infelice, e il ricco vidi in grembo

Dell’auree case più infelice assai.

Salii discesi e risalii lo sghembo

Sentier di balze e fiumi, e il mio cammino

Oltre l’Adda affrettando ed oltre il Brembo,

Alla tua patria giunsi, o pellegrino

Di Bergamo splendor che qui m’ascolti;

E mesta la trovai del repentino

Tuo dipartire, e lagrimosi i volti

Su la morte di Lesbia illustre salma,

Che al cielo i vanni per seguirti ha sciolti.

Brillò di gaudio a quell’annunzio l’alma

Dell’amoroso geomètra, e uscire

Parve alcun poco dell’usata calma.

E già surto partía, per lo desire

Di riveder quel volto che le penne

Di Pindo ai voli gli solea vestire;

Ma dignitosa coscïenza il tenne,

E il narrar grave di quell’altro saggio,

Che, precorso un sorriso, così venne

Seguitando il suo dir: Dritto il vïaggio

Di volsi al terren che il Mella irriga,

Ricco d’onor di ferro e di coraggio.

Quindi al Benàco che dal vento ha briga

Pari al liquido grembo d’Amfitrite

Quando irato Aquilon l’onde castiga;

Quindi al fiume, ove tardi diffinite

Fur l’italiche sorti, e non del duce,

Ma de’ condotti il cor vinse la lite.

E l’Adige seguii fino alla truce

Adria, ove stanchi già del lungo corso

Trenta seguaci il re de’ fiumi adduce.

Tutto insomma il paese ebbi trascorso

Che alla manca del Po tra ’l mare e ’l monte,

Sente de’ freni cisalpini il morso.

E di dolore di bestemmie e d’onte

Per tutto intesi orribili favelle,

Che le chiome arricciar ti fanno in fronte:

Pianto di scarna plebe a cui la pelle

Si figura dall’ossa, e per le vie

Famelica suonar fa le mascelle:

Pianto d’orbi fanciulli e madri pie

D’erba e d’acqua cibate, onde di mulse

E d’orzo sagginar lupi ed arpie;

Pianto d’attrite meschinelle, avulse

Ai sacri asili, e con tremanti petti

Di porta in porta ad accattar compulse:

Pianto di padri, ahi lassi!, a dar costretti

L’aver la dote e tutto, anche le poche

Care memorie de’ più sacri affetti:

Cupi sospiri e voci or alte or fioche

Di tutte genti, per gridar pietade

E per continuo maledir già roche.

D’orror fremetti; e venni alla cittade

Che dal ferro si noma. O dalle Muse

Abitate mai sempre alme contrade,

Onde tanta pel mondo si diffuse

Itala gloria e tal di carmi vena

Che non Ascra, non Chio la maggior schiuse,

D’onor di cortesia nutrice arena,

Come giaci deserta! e dal primiero

Splendor caduta, e di squallor sol piena!

Questi sensi io volgea nel mio pensiero,

Quando un’ombra m’occorse alla veduta

Mesta sì, ma sdegnosa e in atto altero.

Sovresso un marmo sepolcral seduta

Stava l’afflitta, e della manca il dosso

Era letto alla guancia irta e sparuta.

Ombrata avea di lauro non mai scosso

La spazïosa fronte, e sui ginocchi

Epico plettro, che dall’aura mosso

Dir fremendo parea: Nessun mi tocchi.

Ver’ lei mi spinsi, e dissi: O tu che spiri

Dolor cotanto e maestà dagli occhi,

Soddisfami d’un detto a’ miei desiri;

Parlamil nome tuo, spirto gentile,

Parlami la cagion de’ tuoi sospiri,

Se nulla puote onesto prego umile.

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License