CANTO QUARTO
Sacro di patria
amor che forza acquista,
Ed eterno rivive oltre l’avello
(Cominciò l’alto insùbre
economista);
Desío che pure
ne’ sepolti è bello
Di visitar talvolta ombra romita
Le care mura del paterno ostello,
E con gli
affetti della prima vita
Le vicende veder di quel pianeta
Che l’alme al fango per partir
marita,
Mi fean
poc’anzi abbandonar la lieta
Regïon delle stelle: e il patrio
nido
Fu dolce e prima del mio vol la
mèta.
Per tutto armi
e guerrier, tripudio e grido
Di libertà; per tutto e danze e
canti,
Ed altari alle Grazie ed a Cupido,
E operose
officine, e di volanti
Splendidi cocchi fervida la via,
E care donne e giovinetti amanti,
Sclamar mi
fenno a prima giunta: Oh mia
Gentil Milano, tu sei bella
ancora!
Ancor bella e beata è Lombardia!
Poi nell’ascoso
penetrai (chè fuora
Sta le più volte il riso e dentro
il pianto),
E venir mi credei nell’Antenòra,
Nella Caína, o
s’altro luogo è tanto
Maledetto in inferno ove raccoglia
Tutte insieme le colpe Radamanto.
Dell’albergo
fatal guardan la soglia
Le Cabale pensose e l’Impostura
Che per vestirsi la virtù
dispoglia,
La Fraude che si tocca il
petto e giura,
La fallace Amistà che sul tuo
danno
Piange e poi t’abbandona alla
ventura.
Carezzanti
negli atti in volta vanno
Le bugiarde Promesse, accompagnate
Dalle garrule Ciance e
dall’Inganno.
Sta fra le
valve a piè profan vietate
Il Favor, che bifronte or apre or
chiude,
E dice all’un: Non puossi; e
all’altro: Entrate.
Su e giù
sospinte le Speranze nude
Van zoppicando, e inseguele per
tutto
Colei che tutte le speranze
esclude.
Con umil carta
in man lurido e brutto
Grida il Bisogno, e sua ragione
apporta;
Ma duro niego de’ suoi gridi è il
frutto:
Chè voce di
ragion là dentro è morta,
E de’ pieni scaffali tra le borre
Dorme Giustizia in gran letargo
assorta;
Nè dall’alto
suo sonno la può sciôrre
Che il sonante cader di quella
piova
Che fe’ lo stupro dell’acrisia
torre.
Quest’io vidi
nell’antro in cui si cova
Della patria il dolor, che con
grand’arte
Tutto giorno si affina e si
rinnova;
Tal che, guasta
il bel corpo d’ogni parte,
Trae già l’ultimo fiato e muore in
culla
La figlia del valor di Buonaparte.
Circuisce la
misera fanciulla
Multiforme di mostri una congrega
Che la sugge la spolpa e la
maciulla:
Il furto, ch’al
poter fatto è collega;
Tirannia, che col dito entro gli
orecchi,
Scòstati, grida alla pietà che
prega;
Ignoranza che
lósca fra gli specchi
Banchetta, e l’osso che non unge
arcigna
Getta al merto giacente in su gli
stecchi.
E la patria
frattanto, empia matrigna,
Nega il pane a’ suoi figli, e a
tal lo dona
Stranier, cui meglio si daría
gramigna.
Mossi più addentro
il piede; e in logra zona
Vidi l’inferma che Finanza
ha nome,
Che scheletro pareva e non
persona.
Colle man
disperate entro le chiome
Guarda i vuoti suoi scrigni, e
stupefatta
Cerca e non trova dell’empirli il
come.
Or la Forza le invía fusa e disfatta
La pubblica sostanza; or la
meschina
Perdendo merca e supplicando
accatta.
Scorre a fiumi
il danaro, e la rapina
Di color mille a cento man
l’ingozza
E giù nell’ampio ventre lo ruina
Con sì gran
fretta, che talor la strozza
Tutto nol cape, e il vome, e
vomitato
Lo ricaccia nell’epa e lo
rimpozza:
Nè del pubblico
sazia, anco il privato
Aver divora; e il vede e lo
consente
Suprema e muta autorità di stato.
Chiusa e
stretta la forza prepotente,
(Dolce interruppe allor Lorenzo),
e in forse
Di maggior danno, e inerme e
dependente,
Che far poteva
autorità? — Deporse,
Gridò fiero Parini: e, steso il
dito,
Gli occhi e la spalla brontolando
torse.
Strinse allora
le labbia in sè romito
Dei delitti il sottil ponderatore;
E, — Fu giusto, poi disse, il tuo
garrito.
Forza li vinse:
e che può forza in core
Che verace virtute in sè raduna?
Cede il giusto la vita e non
l’onore;
L’onor su cui
nè strale di fortuna,
Nè brando nè tiranno nè lo stesso
Onnipossente non ha possa alcuna.
Qual madre che
del figlio intende espresso
Grave fallo, si tace e non fa
scusa,
Ma china il guardo per dolor
dimesso,
E tuttavolta
col tacer l’escusa;
Tal si fece Lorenzo, mansueta
Alma cortese a perdonar sol usa.
Ma col cenno
del capo il fier poeta
Plause a quel dir, che il generoso
fiele
De’ bollenti precordii in parte
acqueta.
Aprì di nuovo
al ragionar le vele
Verri frattanto, e, non ancor,
soggiunse,
Tutto scorremmo questo mar
crudele.
Poichè protetta
la rapina emunse
Del popolo le vene, e di ben doma
Putta sfacciata il portamento
assunse;
La meretrice
che laggiù si noma
Libertà depurata, iva in
bordello
Coi vizi tutti che dier morte a
Roma.
Alla fronte
lasciva era cappello
Il berretto di Bruto, ma di serva
Avea gli atti, il parlare ed il
mantello.
E la seguía di
drudi una caterva,
Che da questa d’Italia a quella
fogna
A fornicar correa colla proterva.
Altri, perduta
nel peccar vergogna,
Fuggì la patria no, ma il
manigoldo;
Altri è resto di scopa, altri di
gogna:
Qual repe e
busca ruffianando il soldo;
Qual è spia; qual il falso testimonio
Vende pel quarto e men d’un
leopoldo.
Quei chiede un
Robespier che il sangue ausonio
Sparga, e le funi e la Senavra impetra
Con questo che biscazza il
patrimonio.
V’ha, ventoso
raschiator di cetra,
Il pudor caccia e sè medesmo in
brago,
E segnato da Dio corre alla Vetra.
V’ha chi salta
in bigoncia dallo spago;
V’ha chi versuto ciurmador le
quadre
Muta in tonde figure, e non è
mago.
Disse rea
d’adulterio altri la madre,
E di vile semenza di convento
Sparso il solco accusò del proprio
padre.
Altri è schiuma
di prete, e fraudolento
De’ galeotti aringator, per fame
Va trafficando Cristo in
sacramento.
Tutto è strame
letame e putridame
D’intollerando puzzo, e lo
fermenta
Tutto quanto de’ vizi il bulicame.
E questa ciurma
ell’è colei che addenta
I migliori, colei che tuona e
getta
D’Itala libertà le fondamenta?
Oh inopia di
capestri! oh maladetta
Lue cisalpina! oh patria! oh
giusto Iddio!
Perchè pigra in tua mano è la
saetta?
Terror mi prese
a tanto; e nell’oblio
Del mio stato immortale, al patrio
tetto
Per celarmi, tremante il piè
fuggío.
Oh mia dolce
consorte! oh mio diletto
Fratello! Oh quanto nell’udir mi
piacqui
Da voi nomarmi coll’antico
affetto,
E ricordar
siccome amai nè tacqui
La pubblica ragion, sin che, già
franta
De’ buon la speme, addio vi dissi,
e giacqui!
Piansi di gioia
nel veder cotanta
Carità della patria, e come intera
De’ miei figli nel cor la si
trapianta.
Ed io vana
allor corsi ombra leggera,
E gli strinsi, e sentii tutta in
quel punto
La dolcezza di padre, e più
sincera.
Ma il tenero
lor petto al mio congiunto
Ahi! quell’amplesso non intese, e
invano
Vivi corpi abbracciai spirto
defunto.
Mi staccai da’
miei cari: e di Milano
Ratto fuggendo, a quel sordo mi
tolsi
Delle lagrime altrui gonfio
oceàno.
Città discorsi e
campi; e pria mi volsi
Al longobardo piano, ove superbe
Strinser catene al re de’ Franchi
i polsi,
E il villan
coll’aratro ancor tra l’erbe
Urta le gallic’ossa, e
quell’aspetto
Par che ’l natío rancor gli
disacerbe.
Vidi ’l campo
ove Scipio giovinetto
Contro i punici dardi allo
spirante
Padre fe’ scudo del roman suo
petto.
Vidi l’umil
Agogna intollerante
Del suo fato novel: vidi la valle
Cui nome ed ubertà fa la sonante
Sesia. Di là
varcai per arduo calle
L’Alpe che il nutritor di molte
genti
Verbano adombra colle verdi
spalle.
Quindi del
Lario attinsi le ridenti
Rive e la terra ove alla luce
aprîrsi
I solerti di Plinio occhi
veggenti,
Ed or l’odi di
Volta insuperbirsi,
Che vita infonde pe’ contatti
estremi
Di due metalli (maraviglia a
dirsi!)
Nei membri già
di pelle e capo scemi
Delle rauche di stagno abitatrici,
E di Galvan ricrea gli alti
sistemi.
I placidi
cercai poggi felici
Che con dolce pendío cingon le
liete
Dell’Eupili lagune irrigatrici;
E nel vederli
mi sclamai: Salvete,
Piagge dilette al ciel, che al mio
Parini
Foste cortesi di vostr’ombre
quete,
Quando ei
fabbro di numeri divini,
L’acre bile fe’ dolce, e la vestía
Di tebani concenti e venosini.
Parea de’ carmi
tuoi la melodìa
Per quell’aure ancor viva, e
l’aure e l’onde
E le selve eran tutte un’armonìa.
Parean
d’intorno i fior, l’erbe, le fronde
Animarsi e iterarmi in suon
pietoso:
Il cantor nostro ov’è? chi lo
nasconde?
Ed ecco in
mezzo di ricinto ombroso
Sculto un sasso funèbre che dicea:
Ai
sacri mani di Parin riposo.
E donna di
beltà che dolce ardea
(Tese l’orecchio, e fiammeggiando
il vate
Alzò l’arco del ciglio, e
sorridea)
Colle dita
venía bianco-rosate
Spargendolo di fiori e di
mortella,
Di rispetto atteggiata e di
pietate.
Bella la
guancia in suo pudor; più bella
Su la fronte splendea l’alma
serena,
Come in limpido rio raggio di
stella.
Poscia che dati
i mirti ebbe a man piena,
Di lauro, che parea lieto fiorisse
Tra le sue man, fe’ al sasso una
catena;
E un sospir
trasse affettuoso, e disse:
Pace eterna all’amico: e te
chiamando
I lumi al cielo sì pietosi
affisse,
Che gli occhi
anch’io levai, certa aspettando
La tua discesa. Ah qual mai cura,
o quale
Parte d’Olimpo ratteneati, quando
Di que’ bei
labbri il prego erse a te l’ale?
Se questa indarno l’udir tuo
percuote,
Qual altra ascolterai voce
mortale?
Riverente in
disparte alle devote
Ceremonie assistea colle
tranquille
Luci nel volto della donna immote,
Uom d’alta
cortesia, che il ciel sortille,
Più che consorte, amico. Ed ei,
che vuole
Il voler delle care alme pupille,
Ergea d’attico
gusto eccelsa mole,
Sovra cui d’ogni nube immacolato
Raggiava immemor del suo corso il
sole.
E Amalia la dicea dal nome amato
Di costei che del loco era la
diva,
E più del cor che al suo congiunse
il fato.
Al pio rito
funèbre, a quella viva
Gara d’amor mirando, già di mente
Del mio gir oltre la cagion
m’usciva.
Mossi al fine;
e quei colli ove si sente
Tutto il bel di natura,
abbandonai,
L’orme segnando al cor contrarie e
lente.
Vagai per
tutto: nel tugurio entrai
Dell’infelice, e il ricco vidi in
grembo
Dell’auree case più infelice
assai.
Salii discesi e
risalii lo sghembo
Sentier di balze e fiumi, e il mio
cammino
Oltre l’Adda affrettando ed oltre
il Brembo,
Alla tua patria
giunsi, o pellegrino
Di Bergamo splendor che qui
m’ascolti;
E mesta la trovai del repentino
Tuo dipartire,
e lagrimosi i volti
Su la morte di Lesbia illustre
salma,
Che al cielo i vanni per seguirti
ha sciolti.
Brillò di
gaudio a quell’annunzio l’alma
Dell’amoroso geomètra, e uscire
Parve alcun poco dell’usata calma.
E già surto
partía, per lo desire
Di riveder quel volto che le penne
Di Pindo ai voli gli solea
vestire;
Ma dignitosa
coscïenza il tenne,
E il narrar grave di quell’altro
saggio,
Che, precorso un sorriso, così
venne
Seguitando il
suo dir: Dritto il vïaggio
Di là volsi al terren che il Mella
irriga,
Ricco d’onor di ferro e di
coraggio.
Quindi al
Benàco che dal vento ha briga
Pari al liquido grembo d’Amfitrite
Quando irato Aquilon l’onde castiga;
Quindi al
fiume, ove tardi diffinite
Fur l’italiche sorti, e non del
duce,
Ma de’ condotti il cor vinse la
lite.
E l’Adige
seguii fino alla truce
Adria, ove stanchi già del lungo
corso
Trenta seguaci il re de’ fiumi
adduce.
Tutto insomma
il paese ebbi trascorso
Che alla manca del Po tra ’l mare
e ’l monte,
Sente de’ freni cisalpini il
morso.
E di dolore di
bestemmie e d’onte
Per tutto intesi orribili favelle,
Che le chiome arricciar ti fanno
in fronte:
Pianto di
scarna plebe a cui la pelle
Si figura dall’ossa, e per le vie
Famelica suonar fa le mascelle:
Pianto d’orbi
fanciulli e madri pie
D’erba e d’acqua cibate, onde di
mulse
E d’orzo sagginar lupi ed arpie;
Pianto
d’attrite meschinelle, avulse
Ai sacri asili, e con tremanti
petti
Di porta in porta ad accattar
compulse:
Pianto di
padri, ahi lassi!, a dar costretti
L’aver la dote e tutto, anche le
poche
Care memorie de’ più sacri
affetti:
Cupi sospiri e
voci or alte or fioche
Di tutte genti, per gridar pietade
E per continuo maledir già roche.
D’orror
fremetti; e venni alla cittade
Che dal ferro si noma. O dalle
Muse
Abitate mai sempre alme contrade,
Onde tanta pel
mondo si diffuse
Itala gloria e tal di carmi vena
Che non Ascra, non Chio la maggior
schiuse,
D’onor di
cortesia nutrice arena,
Come giaci deserta! e dal primiero
Splendor caduta, e di squallor sol
piena!
Questi sensi io
volgea nel mio pensiero,
Quando un’ombra m’occorse alla
veduta
Mesta sì, ma sdegnosa e in atto
altero.
Sovresso un
marmo sepolcral seduta
Stava l’afflitta, e della manca il
dosso
Era letto alla guancia irta e
sparuta.
Ombrata avea di
lauro non mai scosso
La spazïosa fronte, e sui ginocchi
Epico plettro, che dall’aura mosso
Dir fremendo
parea: Nessun mi tocchi.
Ver’ lei mi spinsi, e dissi: O tu
che spiri
Dolor cotanto e maestà dagli
occhi,
Soddisfami d’un
detto a’ miei desiri;
Parlami ’l nome tuo, spirto
gentile,
Parlami la cagion de’ tuoi
sospiri,
Se nulla puote
onesto prego umile.
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