CANTO QUINTO
Non mi fece
risposta quell’acerbo,
Ma riguardommi colla testa eretta
A guisa di leon queto e superbo.
Qual uomo io
stava che a scusar s’affretta
Involontaria offesa, e più
coll’atto
Che col disdirsi, umíl fa sua
disdetta.
E lo spirto
parea quei che distratto
Guata un oggetto, e in altro ha
l’alma intesa,
Finchè dal suo pensier sbattuto e
ratto
Gridò con voce
d’acre bile accesa:
«Oh d’ogni vizio fetida sentina,
«Dormi, Italia imbriaca, e non ti
pesa
Ch’or questa
gente, or quella è tua reina
Che già serva ti fu? Dove
lasciasti,
Poltra vegliarda, la virtù latina?
La gola e ’l sonno
ti spogliâr de’ casti
Primi costumi, e fra l’altare e ’l
trono
Co’ tuoi mille tiranni
adulterasti;
E mitre e gonne
e ciondolini e suono
Di molli cetre abbandonar ti fenno
Elmo ed asta, e tremar dell’armi
al tuono.
Senza pace tra’
figli e senza senno,
Senza un Camillo, a che stupir, se
avaro
Un’altra volta a’ danni tuoi vien
Brenno?
Or va! coltiva
il crin, fatti riparo
Delle tue psalmodíe; godi, se
puoi,
D’aver cangiato in pastoral
l’acciaro!
Taque ciò detto
il disdegnoso. I suoi
Liberi accenti e al crin gli
avvolti allori,
De’ poeti superbia e degli eroi,
M’eran già del
suo nome accusatori,
All’intelletto mio manifestando
Quel grande che cantò l’armi e gli
amori.
Perch’io la
fronte e ’l ciglio umíl chinando,
Oh gran vate, sclamai, per cui va
pare
D’Achille all’ira la follia
d’Orlando!
Ben ti disdegni
a dritto, e con amare
Parole Italia ne rampogni, in cui
Dell’antico valore orma non pare.
Ma dimmi, o
padre: chi da’ marmi bui
Suscitò l’ombra tua? —
Concittadino
Amor, rispose, e dirò come il fui.
Fra i boati di
barbaro latino
Son tre secoli omai ch’io mi
dormía
Nel tempio sacro al divo di
Cassino.
Pietosa cura
della patria mia
Qui concesse più degna e taciturna
Sede alla pietra che il mio fral
copría.
Fra il canto
delle Muse alla dïurna
Luce fui tratto; e la mia polve
anch’essa
Riviver parve e s’agitò nell’urna.
Ma desto non
foss’io, chè manomessa
Non vedrei questa terra, e questi
marmi
Molli del pianto di mia gente
oppressa!
Oh! qualunque
tu sia, non dimandarmi
Le sue piaghe, e, per Dio!, ma
trar m’aita
Di lassù la vendetta a consolarmi.
Di ragion, di
pietade hanno schernita
I tiranni la voce; e fu delitto
Supplicare e mostrar la sua
ferita.
Fu chiamato
ribelle ed interditto.
Anche il sospiro, e il cittadin
fedele
Or per odio percosso, or per
profitto;
E le preghiere
intanto e le querele
Derise e storpie gemono alle porte
Inesorate di pretor crudele.
Mentr’egli sì
dicea, ferinne un forte
Muggir di fiumi, che tolte le
sponde
S’avean sul corno, orror portando
e morte.
Stendean Reno e
Panár le indomit’onde
Con immensi volumi alla pianura;
E struggendo venian le furibonde
La speranza de’
campi già matura.
Co’ piangenti figliuoi fugge
compreso
Di pietade il villano e di paura;
Ed, uno in
braccio e un altro per man preso,
Ad or ad or si volge, e studia il
passo
Pel compagno tremando e per lo
peso;
Ch’alto il
flutto l’insegue, e con fracasso
Le capanne ingoiando e i cari
armenti,
Fa vortice di tutto e piomba al
basso.
Ed allora un
rumor d’alti lamenti,
Un lagrimare, un dimandar mercede,
Con voci che farian miti i
serpenti.
Ma non le
ascolta chi in eccelso siede
Correttor delle cose, e con
asperso
Auro di pianto al suo poter
provvede.
Mentre che
d’una parte in mar converso
Geme il pian ferrarese, ecco un
secondo
Strano lutto dall’altra e più
diverso.
In terra, in
mare e per lo ciel profondo
Ecco farsi silenzio; il sol tacere
All’improvviso, e parer morto il
mondo.
Le nubi in alto
orribilmente nere,
Altre stan come rupi, altre ne
miri
Senza vento passar basse e
leggere.
Tutti dell’aure
i garruli sospiri
Eran queti, e le foglie al suol
cadute
Si movean roteando in presti giri.
D’ogni parte al
coperto le pennute
Torme accorrono, e in téma di
salvarse
Empiono il ciel di querimonie
acute.
Fiutan l’aria
le vacche, e immote e sparse
Invitan sotto alle materne poppe
Mugolando i lor nati a ripararse.
Ma con muso
atterrato e avverse groppe
L’una all’altra s’addossano le
agnelle,
Pria le gagliarde e poi le stanche
e zoppe.
Cupo regnava lo
spavento; e in quelle
Meste sembianze di natura il core
L’appressar già sentía delle
procelle:
Quando repente
udissi alto un rumore
Qual se a’ tuoni commisto giù da’
monti
Vien di molte e spezzate acque il
fragore.
Quindi un
grido: Ecco il turbo: e mille fronti
Si fan bianche; e le nebbie e le
tenèbre
Spazza il vento sì ratto, che più
pronti
Vanno appena i
pensier. S’alza di crebre
Stipe un nembo e di foglie e di
rotata
Polvere che serrar fa le palpèbre.
Mugge volta a
ritroso e spaventata
Dell’Eridano l’onda, e sotto i
piedi
Tremar senti la ripa affaticata.
Ruggiscono le
selve; ed or le vedi
Come fiaccate rovesciarsi in
giuso,
E inabbissarsi se allo sguardo
credi:
Or gemebonde rïalzar diffuso
L’enorme capo, e giù tornarlo
ancora,
Qual pendolo che fa l’arco
all’insuso.
Batte il turbo
crudel l’ala sonora,
Schianta uccide le messi e le
travolve;
Poi con rapido vortice le vora;
E tratte in
alto le diffonde e solve
Con immenso sparpaglio. Il crin si
straccia
Il pallido villan, che tra la
polve
Scorge rasa de’
campi già la faccia,
E per l’aria dispersa la fatica
Onde ai figli la vita e a sè
procaccia;
E percosso
l’ovil, svelta l’aprica
Vite appiè del marito olmo, che
geme
Con tronche braccia su la tolta
amica.
Oh giorno di
dolor! giorno d’estreme
Lagrime! E crudo chi cader le vede
E non le asciuga, ma più rio le
spreme!
E chi le
spreme? Chi in eccelso siede
Correttor delle cose, e con ôr
lordo
Di sangue e pianto al suo poter
provvede.
Poi che al duol
di sua gente ogni cor sordo
Vide il cantore della gran follía,
E di pietà sprezzato ogni ricordo,
Mise un grido e
sparì. Mentre fuggía,
Si percotea l’irata ombra la testa
Col chiuso pugno, e mormorar
s’udìa.
Già il sol
cadendo raccogliea la mesta
Luce dal campo della strage
orrenda;
Ed io, com’uom che pavido si desta
Nè sa ben per
timor qual via si prenda,
Smarrito errava, e alla città
giungea
Che spinge obliqua al ciel la Garisenda.
Cercai la sua
grandezza; e non vedea
Che mestizia e squallor, tanto che
appena
Il memore pensier la conoscea.
Ne cercai
l’ardimento; e nella piena
De’ suoi mali esalava ire e disdegni
Che parean di lion messo in
catena.
Ne cercai le
bell’arti e i sacri ingegni
Che alzar sublime le facean la
fronte
E toccar tutti del sapere i segni;
Ed il Felsineo
vidi Anacreonte
Cacciato di suo seggio, e da
profani
Labbri inquinato d’eloquenza il
fonte.
Vidi in vuoto
liceo spander Palcani
Del suo senno i tesori, e in
tenebroso
Ciel la stella languir di
Canterzani;
E per la notte
intanto un lamentoso
Chieder pane s’udía di poverelli
Che agli orecchi toglieva ogni
riposo.
Giacean
squallidi, nudi, irti i capelli,
E di lampe notturne al chiaror
tetro
Larve uscite parean dai muffi
avelli.
Batte la fame
ad ogni porta, e dietro
Le vien la febbre, e l’angoscia, e
la dira
Che locato il suo trono ha sul
ferètro.
Mentre presso
al suo fin l’egro sospira,
Entra la Forza, e grida: Cittadino,
Muori, ma paga: e il miser paga e
spira.
Oh virtù! come
crudo è il tuo destino!
Io so ben, che più bello è
mantenuto
Pur dai delitti il tuo splendor
divino:
So che sono gli
affanni il tuo tributo:
Ma perchè spesso al cor che ti
rinserra,
Forz’è il blasfema proferir di
Bruto?
Con la sventura
al fianco su la terra
Dio ti mandò, ma inerme ed
impotente
De’ tuoi nemici a sostener la
guerra;
E il reo felice
e il misero innocente
Fan sull’eterno provveder pur anco
Del saggio vacillar dubbia la
mente.
Come che
intorno il guardo io mova e ’l fianco,
Strazio tanto vedea, tante ruine,
Che la memoria fugge, e il dir
vien manco.
Langue cara a
Minerva e alle divine
Muse la donna del Panar, nè quella
Più sembra che fu invidia alle
vicine:
Ma sul Crostolo
assisa la sorella
Freme, e l’ira premendo in suo
segreto,
Le sue piaghe contempla e non
favella.
Freme Emilia, e
col fianco irrequïeto
Stanca del rubro fiumicel la riva
Che Cesare saltò, rotto il
decreto.
E de’ gemiti al
suon che il ciel feriva,
D’ogni parte iracondo e senza
posa,
L’adriaco flutto ed il tirren
muggiva.
Ripetea quel
muggir l’Alpe pietosa,
E alla Senna il mandava, che
pentita
Dell’indugio pareva e vergognosa.
E spero io ben
che la promessa aita
Piena e presta sarà, chè la parola
Di lui che diella non fu mai
tradita:
Spero io ben
che il mio Melzi, a cui rivola
Della patria il sospiro... E più
bramava
Quel magnanimo dir; ma nella gola
Spense i detti
una voce che gridava:
Pace al mondo: e quel grido un
improvviso
Suon di cetere e d’arpe
accompagnava.
Tutto quanto
l’olimpo era un sorriso
D’amor; nè dirlo nè spiegarlo
appieno
Pur lingua lo potría di paradiso.
Si rizzâr tutte
e quattro in un baleno
L’alme lombarde in piedi; e ver’
la plaga,
D’onde il forte venía nuovo
sereno,
Con pupilla
cercâro intenta e vaga
Quest’atomo rotante, ove dell’ire
E degli odii sì caro il fio si
paga.
E largo un
fiume dalla Senna uscire
Vider di luce, che la terra
inonda,
E ne fa parte al ciel nel suo
salire.
Tutto di lei si
fascia e si circonda
Un eroe, del cui brando alla ruina
Tacea muta l’Europa e tremebonda.
Ed ei l’amava:
e nella gran vagina
Rimesso il ferro, offrì l’olivo al
crudo
Avversario maggior della meschina,
E col terror
del nome e coll’ignudo
Petto e col senno disarmollo, e
pose
Fine al lungo di Marte orrido
ludo.
Sovra il libero
mar le rugiadose
Figlie di Dori uscîr, che de’
metalli
Fluttuanti il tonar tenea nascose:
Drimo, Nemerte,
e Glauce de’ cavalli
Di Nettuno custode, e Toe
vermiglia,
Di zoofiti amante e di coralli;
Galatea, che
nel sen della conchiglia
La prima perla invenne, e Doto e
Proto,
E tutta di Nerèo l’ampia famiglia,
Tra cui confuse
de’ Tritoni a nuoto
Van le torme proterve. In mezzo a
tutti
Dell’onde il re da’ gorghi imi
commoto,
Sporge il capo
divino, e, al carro addutti
Gli alipedi immortali, il mar
trascorre
Su le rote volanti e adegua i
flutti.
Cade al
commercio, che ritorte abborre,
Il britannico ceppo, e per le
tarde
Vene la vita che languía ricorre.
Al destarsi, al
fiorir delle gagliarde
Membra del nume, la percossa ed
egra
Europa a nuova sanità rïarde.
Nuova lena le
genti erge e rintegra:
E tu di questo, o patria mia, se
saggio
Farai pensiero, andrai più
ch’altri allegra;
E le piaghe tue
tante e l’alto oltraggio
Emenderai, che fêrti anime ingorde
Di libertà più ria che lo
servaggio;
Anime stolte,
svergognate e lorde
D’ogni sozzura. Or fa che tu ti
forba
Di tal peste, e il passato ti
ricorde.
E voi che in
questa procellosa e torba
Laguna di dolore il piè ponete,
Onde il puzzo purgarne che n’ammorba;
Voi ch’alla
mano il temo vi mettete
Di conquassata nave (e tal vi move
Senno e valor, che in porto la
trarrete);
Voi della
patria le speranze nuove
Tutte adempite; e di giustizia il
telo
Animosi vibrando, udir vi giove
Che disse in
terra, e che poi disse in cielo
Lo scrittor dei delitti e delle
pene:
Ei di parlarvi, e voi, rimosso il
velo
D’ascoltar
degni il ver che v’appartiene.
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