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Vincenzo Monti
Poesie

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  • PARTE III POEMETTI
    • La Feroniade
      • CANTO PRIMO
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La Feroniade

 

CANTO PRIMO

 

I lunghi affanni ed il perduto regno

Di Feronia dirò, Diva latina,

Che del suo nome fe’ beata un giorno

Di Saturno la terra. Ella per fiere

Balze e foreste errò gran tempo esclusa

Da’ suoi santi delubri, e molto pianse,

Dai superbi disdegni esercitata

D’una diva maggior, che l’inseguía,

Finchè novelli sacrifici ottenne

Sugli altari sabini, e le fûr resi

Per voler delle Parche i tolti onori.

Ma qual de’ numi l’infelice afflisse,

E lei, ch’era pur diva, in tanto lutto

Avvolgere potéo? Fu la crudele

Moglie di Giove, e un suo furor geloso.

Tu che tutte ne sai l’alte cagioni,

Tu le mi narra, o Musa, e dall’oblio

Traggi alla luce il memorando fatto

Non ancor manifesto in Elicona.

E se dianzi di nuove itale note

L’ira vestendo del Pelide Achille,

Alcuna meritai grazia o mercede,

Su questi carmi, che tentando or vegno,

Di quel nèttare, o dea, spargi una stilla

Che dal mëonio fonte si deriva,

Non già quando con piena impetuosa

Gl’iliaci campi inonda, a tal che gonfi

Dell’alta strage Simoenta e Xanto

Al mar non ponno ritrovar la via,

Ma quando lene mormorando irriga

I feacii giardini: e dolce rendi

Su le mie labbra la pimplea favella.

dove impôsto a biancheggianti sassi

Su la circèa marina Ansuro pende,

E nebulosa il piede aspro gli bagna

La pomezia palude, a cui fan lunga

Le montagne lepine ombra e corona,

Una ninfa già fu delle propinque

Selve leggiadra abitatrice, ed era

Il suo nome Feronia. I laurentini

Boschi, e quei che la fulva onda nudrisce

Del sacro fiume tiberin, quantunque

Di Canente superbi e di Pomona,

Non videro giammai forme più care.

Qual verno fiore che segreto nasce

In rinchiuso giardin, piede il tocca

Di pastor, di greggia; amorosetta

L’aura il molce, di sue tremule perle

L’alba l’ingemma, e lo dipinge il sole

Di sì vivo color, che il crine e il seno

D’ogni donzella innamorata il brama;

Tal di Feronia la beltà crescea.

Era diletto suo di peregrine

Piante e di fiori in suolo estranio nati

L’odorosa educar dolce famiglia,

Propagarne le stirpi, e cittadina

Dell’ausonio terren farne la prole.

Sotto la mano della pia cultrice

Ricevean nuove leggi e nuova vita

Le selvatiche madri, e, il fero ingegno

Mansüefatto e il barbaro costume,

Del ciel cangiato si godean superbe.

Ed essa la gentil ninfa sagace

Con lungo studio e pazïente cura

I tenerelli parti ne nudría,

Castigando i ritrosi, e a culto onesto

Traducendo i malnati. Essa il rigoglio

Ne correggeva ed il non casto istinto,

Essa gli odii segreti e i morbi e i sonni

E gli amor ne curava e i maritaggi,

Securo a tutti procacciando il seggio,

E salubri ruscelli ed aure amiche;

vïolarli ardía comorsi acuti

D’Orizia il rapitor, che irato altrove

Volgea le furie, e con le forti penne

L’antiche flagellava áppule selve,

O di Lucrino i risonanti lidi.

Ma chi potría di tutti a parte a parte

Il sesso riferir, la patria, il nome?

V’era la rosa che mandâr primieri

Di Damasco i giardini e di Mileto;

Quella rosa che poi, nel fortunato

Grembo traslata dell’ausonia terra,

Fu pestana nomata e prenestina.

Sua sorella minor, ma di più grido,

Le fioriva da canto la modesta

Licnide figlia delle ambrosie linfe,

Di che le Grazie un le belle membra

Lavâr di Citerèa, quando dai primi

Ruvidi amplessi di Vulcan si sciolse.

Altro amor di Ciprigna in altra parte

L’amaraco olezzava. In su la sponda

L’avean del Xanto le sue rosee dita

Piantato; e il petto e le divine chiome

Adornarsi di questo ella solea,

Quando desire la pungea di farsi

Al suo fero amatore ancor più bella.

Ecco prole gentil d’egizia madre

Vivaci aprirsi su l’allegro stelo

Il sonnifero loto, e il molle acanto

Che alla soave colocasia gode

Intrecciar le sue fronde. Ecco il portento

Dell’arte che talor vince natura,

Il superbo ranuncolo; un vile

Mal noto fiore, ed or per l’opra e il senno

Di Feronia, che molto amor gli pose,

Fattobello, che il diresti rege

Degl’itali giardini. Aleppo e Cipro,

Candia, Rodi e Damasco in umil pompa

Il mandâro alla Diva; ed ella, esperta

De’ botanici arcani, immantinenti

Di varïate polveri ne sparse

L’ima radice, che le bebbe, e a lui

Di ben cento color tinse le chiome.

E tale or questo di bell’arte figlio

Di donzelle non solo e di fiorenti

Spose, a cui lode è la beltà nudrire,

Ma di matrone ancor cura e desío,

Ne’ romani teatri e ne’ conviti

Alle antiche patrizie il petto adorna,

Ove Amor spegne la sua face, e ride.

Ma più cara alle Grazie ed alla casta

Man di Feronia, con più pio riguardo

Educata tu cresci, o mammoletta,

Tu che negli orti cirenei dal fiato

Generata d’Amore e dallo stesso

Amor sul colle pallantèo tradutta,

Di Zefiro la sposa innamorasti,

E del suo seno e de’ pensier suoi primi

Conseguisti l’onor. Pudica e cara

Nunzia d’april, deh! quando per le siepi

Dell’ameno Cernobbio in sul mattino

Isabella ed Emilia, alme fanciulle,

Di te fan preda e festa, e tu beata

Vai fra la neve de’ virginei petti

Nuove fragranze ad acquistar, deh! movi,

Mammoletta gentil, queste parole:

Di primavera il primo fior saluta

Di Cernobbio le rose, onde s’ingemma

Della regale Olona il paradiso,

Che di bei fior penuria unqua non soffre.

Felice l’aura che vi bacia e tutta

Di ben olenti spirti in voi s’imbeve,

E felice lo stelo onde vi venne

schietta leggiadria: ma mille volte

Più felice e beato al par de’ numi

Chi con man pura da virtù guidata

Dispicciarvi saprà dalla natía

Fiorita spina, e d’Imeneo sull’ara

Con amoroso ardor farvi più belle;

Chè senza amor non è beltà perfetta,

mai perfetto amor senza virtude.

Dove te lascio ne’ meonii campi

lodato, o d’incanti e di malíe

Possente domator, tu che dai numi

Moly sei detto con parola al volgo

Non conceduta, e sol dal saggio intesa?

(Chè al volgo corruttor d’ogni favella

Parlar la lingua degli déi non lice).

Se di Circe fra le mandre Ulisse

Non stampò di ferine orme il terreno

Di questa erbetta e del suo latteo fiore

Alla virtù si dee: parlante emblema,

Del cui velo copría l’antico senno

La temperanza, che de’ turpi affetti

Doma il poter. Di questo portentoso

Vegetante fra noi, siccome è grido,

Di Maia il figlio dal natío Cillene

La tenera portò bruna radice,

E dell’accorto dio fu degno il dono.

Con questa ei tutti della maga i filtri

Contra l’itaco eroe fece impotenti;

E il suo bel fior, che da non casta mano

Sdegna esser tocco, di Feronia poscia

Dolce cura divenne, che di mille

Felici erbette gli fe’ siepe intorno;

Altre d’eterno verde, altre dotate

Di medica virtude, onde il furore

Placar de’ morbi, addormentar le serpi,

E sanarne i veleni; altre che il sonno

Inducono benigne, il dolce sonno

Degli afflitticaro alle palpebre.

E tal di tutte un indistinto uscía

Soave olezzo che apprendeasi al core.

Che di mille dirò scelti arboscelli

Lieti a dovizia di nettarei frutti,

E di fiori e di chiome, in cui natura

Per infinite varïate guise

Spiegò la pompa della sua ricchezza?

Alle ben nate piante peregrine,

Qual d’arabo lignaggio e qual d’assiro,

Qual dall’Indo venuta e qual dal Nilo,

L’italo suolo arrise, e sue le fece;

Sì che in lor della patria e della prima

Origine il ricordo oggi è perduto.

Tanto è l’amor del nuovo cielo, e tanta

Fu la cura di lei, che nel ben chiuso

Suo viridario ad educarle prese,

Or con arte confuse, ed or disposte

In bei filari, come stral diritti,

Rallegrando di molli ombre i sentieri.

Ecco schiuder dal seno i bei rubini,

A Minerva e a Giunon pianta gradita,

E a Cerere cagion d’alto disdegno,

Il coronato melagrano, e tutti

Adescar gli occhi ed invitar le mani.

Ecco il melo cidonio alle gibbose

Sue tarde figlie di lasciva e molle

Lanugine vestir le bionde gote,

Del cui fragrante sugo hanno in costume

Le amorose donzelle in orïente

Nudrir la bocca ed il virgineo fiato,

Quando la face d’Imeneo le guida

Di bramoso garzone ai caldi amplessi.

Vedi il perso arboscel che i rosei frutti

Ne mostra di lontan; vedi il fratello

D’armena stirpe, che con gli aurei figli

Gli contende superbo i primi onori;

Perocché dai regali orti sconfitti

Dell’atterrata Cerasunte ancora

Quel fiammante rival giunto non era,

Che, di corpo minor, ma di più viva

Porpora acceso, avría lor tolto un giorno

E di bellezza e di dolcezza il vanto.

Ma stillante più ch’altri ibleo sapore,

L’onor dispiega di sue larghe chiome

Il calcidico fico, il cui bel frutto,

Se verace è la fama, alle celesti

Mense sol noto, fra’ mortali addusse,

E a Fitalo donò la vagabonda

Cerere, allor che tutta iva scorrendo

La terra in traccia della tolta figlia.

All’apparir della divina pianta

Di molte forme e molti nomi altera

Tutte esultâr le rive; e Cipro e Chio

E gli orti ircani e i misii e il verde Egitto,

E la gran madre d’ogni bella cosa,

L’itala terra, con attento amore

La coltivaro, e de’ suoi dolci pomi,

Solo a Serse e a Cartago agri e funesti,

Fêr gioconde le mense anche più vili.

Né te, quantunque umíl pianta vulgare,

Lascerò ne’ miei carmi inonorato,

Babilonico salcio, che piangente

Ami nomarti, e or sovra i laghi e i fonti

Spandi la pioggia de’ tuoi lunghi crini,

Or su le tombe degli amati estinti,

Che ne’ cupi silenzii della notte

Escono consolate ombre a raccôrre

Sul freddo sasso degli amici il pianto.

Tu non vanti dei lauri e delle querce

Il trionfale onor, ma delle Muse,

Che di tenere idee pascon la mente,

Agli studi sei caro: e da’ tuoi rami

Pendon l’arpe e le cetre, onde si sparge

Di pia dolcezza il cor degl’infelici.

Salve, sacra al dolor mistica pianta,

E l’umil zolla, che i mortali avanzi

Del mio Giulio nasconde, in cui sepolto

Giace il sostegno di mia stanca vita,

Della dolce ombra tua copri cortese.

E tu, strazio d’amore e di fortuna,

Tu derelitta sua misera sposa,

Che del caldo tuo cor tempio ed avello

Festi a tanto marito, e quivi il vedi,

E gli parli, e ti struggi in vòti amplessi

Da trista e cara illusïon rapita,

Datti pace, o meschina; e ti conforti

Che non sei sola al danno. Odi il compianto

D’Italia tutta; i monumenti mira,

Che alla memoria di quel divo ingegno

Consacrano pietose anime belle.

E, se tanto d’onore e di cordoglio

Argomento non salda la ferita

Che ti geme nel petto, e tuttavia

Il lagrimar ti giova, e forza cresce

Al generoso tuo dolor l’asciutto

Ciglio de’ tristi, che, alla voce sordi

Di natura e del ciel, d’un sospiro,

d’un sol fiore consolâr l’estinto,

Dolce almeno ti sia, che su l’avaro

Di quell’ossa sacrate infando obblío

Freme il pubblico sdegno, e fa severa

Delle lagrime tue giusta vendetta.

Ma dove, o Musa, di sentiero uscita

Ti tragge ira e pietà? Deh! torna al riso

Del cantato giardin, torna ai profumi,

Alle fragranze che l’erbette e i fiori

Ti esalano d’intorno. A ti chiama

Principalmente ed il tuo canto aspetta

L’odorato de’ Medi arbor felice,

Di cui non avvi più possente e pronto

(Se fede acquista di Maron la Musa)

Medicame verun contra i veneni

Delle dire matrigne, allor che seco

Scellerate parole mormorando,

Empion le tazze di nocenti sughi.

Chioma e volto di lauro ha l’almo arbusto;

E, se diverso e vivo in lontananza

Non gittasse l’odor, lauro saría.

Candidissimo è il fior di che s’ingemma,

, per molto soffiar che faccia il vento,

L’onor mai perde della verde fronda.

Ora etrusco limone, or cedro ed ora

Arancio lusitan l’appella il vulgo,

Sotto vario sembiante ognor lo stesso.

Questa è la pianta che nel ciel creata

L’aureo pomo fatal lassù produsse

Ch’Ilio in faville fe’ cader: con questo

L’ardito Aconzio e Ippòmene già fèro

(Che non insegni, Amor?) alle lor crude

Belle nemiche il fortunato inganno.

E fu pur questa che ad immane drago

Diè negli orti a vegliar d’Esperetusa

Il sospettoso mauritano Atlante;

Finchè di la svelse il forte Alcide,

Spento il fero custode, e peregrino

Seco l’addusse nell’ausonio lito,

Quando di Spagna vincitor tornando,

Nel Tevere lavò l’armento ibero,

E fe’ sopra il ladron dell’Aventino

Delle tolte giovenche alta vendetta.

Poi, com’egli d’Evandro abbandonate

Ebbe le mense e l’ospital ricetto,

E a quel giogo pervenne, ove nascoso

Agl’Itali mostrò la prima vite

Il ramingo dal ciel padre Saturno,

Ivi sul dorso edificò del monte

Sezia, un’umil città, donde Setina

Fu nomata la rupe; e qui di Giove

L’errante figlio alla saturnia terra

Primiero maritò l’arbor divino

Che tutti empiè di meraviglia i colli

E d’invidia le selve. Al primo spiro

Del suo celeste odor vinta temette

(E fu giusto il timor) la sua fragranza

Di Preneste la rosa: al primo aspetto

Di quel candido fior vinte temette

Le sue vergini tinte il gelsomino.

A baciarlo lascive, a carezzarlo

D’ogni parte volâr l’aure tirrene,

Desïose d’aver carchi del caro

Effluvio i vanni rugiadosi: corsero

A fregiarsene il crine e il colmo seno

D’Alba le ninfe e di Laurento, e quelle

Del Vulturno arenoso e del Taburno.

Corser da tutte le propinque rive

Gli Egipani protervi, e, saltellando,

E via gittando ognun l’ispido pino,

Di questo ramo ghirlandâr le fronti.

Lo volle il dio d’Arcadia, e lo prepose

Agli ebuli sanguigni ed ai corimbi;

E lo volle Silvan, dimenticate

Le ferule fiorenti e i suoi gran gigli.

Venne anch’essa del Sol Circe la figlia,

E di sua mano un ramoscel spiccando

Della scesa dal ciel pianta diletta,

In grembo al sacro suo terreno il pose.

Così crebbe il divin bosco odorato,

Che di soave olezzo intorno tutte

Della maga spargea le rilucenti

Tremende case, ov’ella ognor cantando,

E con l’arguto pettine le tele

Percorrendo, facea dolce da lungi

E periglioso ai naviganti invito,

Mentre pel buio della tarda notte

Lamentarsi e ruggir s’udian leoni

Disdegnosi di sbarre e di catene,

Urlar lupi, e grugnire ed adirarsi

Nelle stalle cinghiali ed orsi orrendi,

Che fûr uomini in prima, e della cruda

Incantatrice sventurati amanti.

Queste ed altre infinite eran le piante,

E l’erbe e i fiori che godea l’attenta

Di Feronia educar mano pudica;

Di tutti quanti i fiori ella il più bello.

Ma, sotto vago aspetto alma chiudendo

Superbetta, d’amor tutte parole

La ritrosa fanciulla ebbe in dispregio.

la vinse il pregar di madri afflitte,

Che la chiedeano in nuora, e per la schiva

Vedean languire i giovinetti figli;

mai lusinghe la piegâr di quanti

Déi le latine ad abitar contrade

Dai pelasghi confini eran venuti;

Ch’ella a tutti s’invola, e non si cura

Conoscere d’amor l’alma dolcezza.

Ma di Giove non seppe un’amorosa

Frode fuggir. La vide, e da’ begli occhi

Trafitto, il nume, la sembianza assunse

D’un imberbe fanciullo, e sì deluse

L’incauta ninfa, e la si strinse al seno

Con divino imeneo. L’ombra d’un elce

Del dio protesse il dolce furto: e lieta

Sotto i lor fianchi germogliò la terra

La violetta, il croco ed il giacinto,

Ed abbondanti tenerelle erbette,

Che il talamo forniro; e le segrete

Opre d’amore una profonda e sacra

Caligine coprío; ma di baleni

Arse il ciel consapevole, ed i lunghi

Ululati iterâr su la suprema

Vetta del monte le presaghe ninfe.

Questi fûr delle nozze inauspicate

I cantici, le faci, i testimoni;

Questo alla nuova del Tonante sposa

De’ suoi mali il principio, e nol conobbe

L’infelice; ma ben di Giove il vide

L’eterno senno; potendo il duro

Fato stornar, nel suo segreto il chiuse;

E, la doglia, che solo il cor sapea,

Premendosi nel petto, a far più mite

Il funesto avvenir volse il pensiero.

Primamente quel bosco e quella rupe

Sì gli piacque onorar, dove la ninfa

Dell’occulto amor suo gli fu cortese,

Che per loro obbliò Dodona ed Ida,

E men care di Creta ebbe le selve;

Tal che le genti la presenza alfine

Sentîr del nume, e l’inchinâr devote,

E Giove Imberbe l’invocâr sull’are;

Ch’egli loro così mise in pensiero

Per la memoria del felice inganno.

Qui del culto novel consorte ei volle

La dolce amica sua; qui degli eterni

In aurea tazza il nèttare le porse,

E la fece immortal. Poscia, tonando,

Del monte il fianco occidental percosse;

E una súbita fonte cristallina

Scaturì mormorando, e dalla balza

Comandò che perenne ella scorresse,

E da Feronia si nomasse: ed oggi

Serba quel nome ed il ricordo ancora

Dell’antico prodigio. Allor le volsche

Genti lor diva l’adoraro, e lei

Antefora chiamaro e Filostefana,

E Persefone, e tutte a lei de’ campi

Fûr sacre le primizie. Ad inchinarla

Sovrana e diva i numi adunque tutti

Corser d’Ausonia; chè il voler tal era

Del supremo amator: e non pur quelli

A cui per valli e campi e per montagne

Fuman l’are latine, e di plebeo

Rito van lieti, e di minori han nome;

Ma mossero frequenti ad onorarla

Di cortese saluto anche i maggiori.

Primo il padre Lieo, ch’indi non lungi

In un temuto e per antico orrore

Sacro delubro raccogliea benigno

Dal timor de’ mortali incensi e voti;

E la bionda inventrice era con lui

Dell’auree spiche e delle sante leggi,

Cerere, che solea le pometine

Spesso anteporre alle trinacrie mèssi.

te d’Aricia il bosco, e il nemorense

Lago trattenne, o vergine Dïana;

Chè tu pur, del lunato argenteo carro

Al temo aggiunte le parrasie cerve,

Con gli altri divi ad abbracciar venisti

La novella immortale, e di te degna

Fu l’alta cortesia che ti condusse.

Col favor di Feronia iva frattanto

Scorrendo i campi l’Abbondanza, e, tutto

Versando il corno, ben compiuta e ricca

Fea dell’avaro agricoltor la speme.

Ogni prato, ogni colle, ogni foresta

Di pastorali avene e di muggiti

E nitriti e belati alto risuona;

E prigioniera dall’opposte rupi

Le dolci querimonie Eco ripete.

Venti e quattro cittadi, onde l’immensa

Fertile valle si vedea cosparsa,

S’animâr, s’abbelliro, e, strette in nodo

Di care parentele, in mezzo al sangue

De’ torelli giurâr dell’alleanza

Il sacramento; e l’invocata diva

Le dilesse, e su lor piovve la piena

Di tranquilla ricchezza. Incontanente

Crebbero i lari, crebbero le mura;

Di maestà, di forza e di rispetto

Le sante leggi si vestîr; fûr sacri

I reverendi magistrati; sacra

La patria carità; sacro l’amore

Della fatica e dell’industria. Quindi

Tutte piene di strepito le vie,

E i teatri e le curie; e dappertutto

Un gemere di rote, un picchio assiduo

Di martelli e d’incudi, un suonar d’arme

Buone in pace ed in guerra, onde si crebbe

La feroce de’ Rutuli potenza,

Che al pietoso Troian tanto fe’ poscia

Sotto il cimiero impallidir la fronte,

Quando gli disputâr Camilla e Turno

Di Lavinia e d’Italia il grande acquisto.

Eran le genti pometine adunque

Molte e forti e felici; e manifesta

Di Feronia apparía per ogni parte

La presenza, il favor, la possa e l’opra.

Però da cento altari a lei salía

Delle vittime il fumo, e ne godea

Il tonante amator, che stanco e carco

Delle cure del mondo, a serenarle

Scendea sovente ne’ segreti amplessi

Della diva fanciulla. Un aureo nembo

Li copriva; e ozïosa al sole aprico

Col rostro della folgore ministro,

L’aquila sacra si pulía le piume;

Mentre sicure dal furor di Giove

Tacean d’Ato e di Rodope le rupi,

E avea Bronte riposo in Mongibello.

Erasi intanto la saturnia Giuno

Fatta accorta del dolo, e i suoi grand’occhi,

Che gelosia più grandi anche facea,

Non fallibili segni avean già scorto

Di nuova infedeltà. Raro il soggiorno

Del marito in Olimpo: alto il silenzio

Dei talami divini: inoltre mute

Della foresta dodonea le querce,

Cheti i tuoni dell’Ida, e dissipato

Il denso fumo che facea palese

La presenza del nume. Onde, turbata

In suo sospetto, alle nevose cime

Dell’Olimpo salita, in giù rivolse

L’attento sguardo, e ricercò l’infido

Sul mar sidonio, sul nonacrio giogo,

Sull’Ismen, sull’Asopo, ove sovente

Delle vaghe mortali amor lo prese.

Indi in Ausonia declinando i lumi,

D’Ansuro nereggiar sul balzo vide

Tale un nugolo denso, che per vento

Non si movea di loco, ancorchè tutta

Fosse in moto la selva. A cotal vista

Le si ristrinse il cor; le corse un gelo

Per le membra immortali, e si fèr truci

I neri sopraccigli. Immantinente

Iri a chiama, e: Prestami, le dice

Su via prestami, o fida, il tuo piovoso

Arco d’oro e di luce. E, sì dicendo,

risposta aspettando, entro si chiude

A’ taumanzii vapori, e taciturna

Su le rupi setine si precipita.

Tocca pur anco non avea la terra

Coleggeri vestigi, che levarsi

L’invisibile dea l’aquila vide,

L’aquila testimon del dio marito;

E sotto l’ombra delle grandi penne

Furtiva e cheta camminar la nube,

E tra le piante dileguarsi. A lei

Dovunque passa riverenti e curvi

Dan loco i rami della selva; e l’aure

Non osano di far rissa e bisbiglio.

Volse indi l’occhio addietro, e donde tolta

S’era la nube, in piè rizzarsi mira

Così bella una ninfa, che alla stessa

Corrucciosa Giunon bella parea.

Sventurata beltà! L’ira e il dispetto

Tu crescesti nel cor della gelosa,

Che spiccossi qual lampo e rabbuffata

Con questi accenti alla rival fu sopra:

E qual ti prese insania ed arroganza,

Insolente mortal, che una cotanta

A me far osi ingiuria, e non mi temi?

Ravvisami, proterva; io degli dei

Son l’eterna reina, io la sorella,

Io la sposa di Giove. Scolorossi,

Tremò, si sgomentò, non fe’ parola

La misera Feronia; e, siccome era

Scomposta i veli e le bende e le chiome,

Dell’amplesso celeste accusatrici,

Mise in tutto furor la sua nemica;

La qual su lei di rinnovar bramosa

Di Callisto la pena, ad un vincastro

Diè rabbiosa di piglio, e la percosse.

Attonito restò l’occhio e la mano

Dell’acerba Giunon, quando dell’altra

Vide al colpo divino invïolata

Resistere la salma, e le primiere

Sembianze rimaner: tosto conobbe

Che di tempra immortal fatta l’avea

L’onnipossente nume; onde sdegnosa,

Chè a vôto mira uscito il suo disegno,

E terribile e ria più che mai fosse:

Questo, disse, al mio scorno anco mancava,

Adultera impudente, che dovesse

Farlosi eterno! Semele ed Alcmena

Eran poca vergogna all’onor mio,

E i due figli di Leda, e Ganimede,

Ch’altra ancor ne s’aggiunge, e di malnati

Mi si fan piene le celesti mense.

Ma inulta non andrò, se Giuno io sono;

tu senza castigo. Via di qua,

Via di qua, svergognata! E in questo dire

Il bianco braccio fieramente stese,

S’aggrandì, si scurò, gli occhi mandaro

Due fiamme a guisa di baleni in mezzo

Di tenebrosa nube; e la grand’ira,

Che il senno ancor degl’immortali invola,

Quasi obbliar di diva e di reina

Le fe’ modi e costumi. E di rincontro

Di Giove allor la dolorosa amante,

Che di rimorso trema e di rispetto,

Con basso ciglio e con incerto piede

Lagrimando partissi. Ella per monti

E per valli e per fiumi si dilunga,

E sempre a tergo ha la tremenda Giuno,

Che con minacce e dure onte e rampogne

Stimola e incalza l’infelice. Ahi! dunque

Era da tanto un amoroso errore?

E già varcate avea le veliterne

Pendici, e gli ardui sassi, ove costrusse

Cora la sua città, Cora il fratello

Di Catillo e Tiburte; e non lontano

Era di Cinzia il sacro lago e il bosco,

Ove a Stige ritolto, e della ninfa

Egeria in cura, Ippolito traeva,

Cangiato in Virbio, la seconda vita.

Qui di Saturno l’adirata figlia

Sostenne i passi, e in balze aspre e deserte

Qui lasciò la meschina, e, desïosa

Di vendetta maggior, diè volta addietro.

Tra le priverne rupi e le setine

S’apre immane spelonca, a cui di sopra

Grava il dosso una negra orrida selva,

E per lo mezzo la rinfresca un rivo,

Che con grato rumor casca e zampilla

Dalle fesse pareti. Ha di sedili

In vivo marmo una corona intorno,

E tal dalle muscose erbe si spande

Una fragranza, che da lungi avvisa

Veramente di dei stanza e ricetto.

Qui da tutta la volsca regïone

Per cento cave sotterranee vie

Vengon sovente a visitarsi i fiumi,

Il freddo Ufente, il lamentoso Astura,

Il sonoro Ninfeo, che tra le sacre

Sue danzanti isolette ad Anfitrite

Rapido volve e cristallino il flutto;

E il superbo Amasen, che le gran corna

Mai non si terge, e strepitoso e torbo

Empie di loto i campi e di paura.

E cent’altri v’accorrono di fama

Poveri e d’onda fiumicei seguaci,

E cento ninfe, che il cader degli astri

Conoscono e del sole e della luna

Le armoniche vicende, e sanno i venti

E le piogge predire e le procelle.

Colà bieca sbuffando s’incammina

La di vendetta sitibonda dea:

Simile a nembo di gragnuole gravido,

Che bruno il ciel vïaggia e orrendo stendesi

Su la bionda vallea, quando le Pleiadi,

Che d’Orïon la spada incalza e stimola,

Negli atlantici flutti si sommergono,

E tutto ferve per burrasca il pelago.

Tal terribile in vista ella s’avanza;

E, giunta al mezzo dello speco, in atto

Di maestà, di cruccio e di preghiera,

Fa dal labbro volar queste parole:

Fiumi, a cui delle volsche acque l’impero

Diè degli uomini il padre e degli dei,

E voi le correggete e a vostro senno

Le mandate a nudrir l’onda tirrena;

Una vil mia nemica, una spregiata

Di boschi abitatrice, il cor mi tolse

Del mio consorte; e non è tutto. A lei,

A costei l’immortal vita è concessa,

Privilegio avvilito, e dea l’adora

La bagnata da voi terra pontina.

Vendicate l’offesa; e, s’io dall’etra

Vi dispenso le piogge, ite, abbattete,

Distruggete, spegnete. Altari e templi

E città rovesciate: io le vi dono,

E saran vostro regno; orma non resti

Dell’abborrito culto, e raddolcisca

La mia giustira di Feronia il pianto.

Disse; e per tutti a lei tosto l’Ufente

Diserto e chiaro parlator rispose:

— A te l’esaminar conviensi, o diva,

Il tuo desire, e l’adempirlo a noi.

Delle piove e de’ nembi genitrice

Tu ne riempi l’urne, tu ne fai

Giove propizio, e ne concedi a mensa

Su l’Olimpo seder con gli altri eterni.

Ciò detto, frettolosi e furïosi

Si dileguâr per la caverna i fiumi,

Chi qua, chi ciascuno alla sua sede;

E partendo ne fêr tale un tumulto,

Tale un fracasso, che tremonne il monte.

N’udirono il fragor le pometine

Valli da lungi, e ne mandâr muggiti,

Di ruina presaghe; e palpitanti

Strinser le madri i pargoletti al seno.

Mentre corrono quelli il rio precetto

A compir della diva, e ai duri sassi

Aguzzano per via le corna e l’ira,

Levossi Giuno in aria, e spiegò il manto,

In cui ravvolge le tempeste e i nembi,

E subito gonfiâr le bocche i venti,

E le nubi aggruppâr, che cielo e luce

Ai mortali rapiro, e si fe’ notte,

Orrenda notte dal guizzar de’ lampi

Rotta al fero de’ tuoni fragor cupo.

Carco d’atre caligini la fronte,

Vola l’umido Noto, ed afferrate

Con le gran palme le pendenti nubi,

Le squarcia risonante, e tenebrosa

Sgorga la piova; il rotto aere ne rugge;

E il suol ne geme e le battute selve.

Scende un mar dalle rupi. Allora i fiumi

Versano l’urne abbeverate e colme;

E quattro di maggior superbia e lena

Da quattro parti sul soggetto piano,

Svelte, atterrate le tremanti ripe,

Con furor si devolvono. Spumosa

E fragorosa la terribil piena

Le capanne divora e i pingui cólti,

E gli armenti e i pastori. E già le mura

Delle cittadi assalta e le percote,

Di cadaveri ingombra e della fatta

Strage ne’ campi: già delle bastite

Crollano i fianchi; già sfasciati piombano,

E dan la porta all’inimico flutto.

S’alza allora un compianto, un ululato

Di vergini, di vegli e di fanciulli:

Corrono ai templi; ed invocar Feronia

E Feronia gridar odi piangenti

Le smorte turbe; e non le udía la diva;

Chè maggior diva il vieta. Essa, la fiera

Moglie di Giove, di sua man riversa

Dell’esule nemica i simulacri,

Ne sovverte gli altari; e la soccorre

Ministra al suo furor l’onda crudele

Che tutte attorno le cittadi inghiotte.

Tre ne leva sul corno infurïando

Il veloce Ninfeo che lutulenti

Spinse quel la prima volta i flutti,

L’umil Trapunzio e Longula e Polusca:

Tre la ferocia del possente Astura,

L’opima Mucamite, e l’alta Ulubra,

E la vetusta Satrico, a cui nulla

Il nume valse della dia Matuta.

E per te cadde, strepitoso Ufente,

Pomezia, la più ricca e la più bella.

Pianse il giogo circèo la sua caduta,

E la pianser le ninfe, a cui commessa

De’ suoi vaghi giardini era la cura.

Il tremendo Amaseno avea frattanto

Sotto i vortici suoi sepolti intorno

I barbarici campi, e fatto un lago

Della misera Ausonia, e l’alte mura

D’Aurunca percotea, la più guerriera

Delle volsche cittadi, e la più antica.

Oltre gli anni di Dardano e Pelasgo

La sua fama ascendeva, e degli Aurunci

Venerevoli padri alto suonava

E glorïoso fra le genti il grido.

L’avea quel fier divelta e conquassata

Dai fondamenti. Alle vicine rupi

Traggonsi in salvo gli abitanti; e il fiume

Li persegue mugghiando, e ne raggiunge

Altri al tallone, e li travolve; ed altri,

Che più pronti afferrâr già la montagna,

Con l’immenso suo spruzzo li flagella,

E di paura li fa bianchi in viso.

Ben mille ne contorse entro i suoi gorghi

Quell’orribile dio; ma di due soli,

Timbro e Larina, il miserando fato

Non tacerò, se a tanto il cor resiste,

E pietoso il pensier non mi rifugge.

Amavansi così quegl’infelici,

Ch’altro mai tale non fu visto amore,

E d’Imeneo già pronte eran le tede,

E consentian gioiosi al casto affetto

I genitori. Ahi brevi e false in terra

Le speranze e le gioie! In riva al mare,

Cui d’Anzio regge la Fortuna, avea

Pochi prima all’afrodisia madre

Porti i suoi voti il giovinetto amante,

E abbracciato l’altar. Letta nel fato

Del misero la sorte avea la diva;

E della diva il santo simulacro

Tremò, e sudante (maraviglia a dirsi!)

Torse altrove il bel capo, e non sostenne

Tanta pietà. Ma ben di Giuno il crudo

Cor la sostenne: e la virtude umana

Abbandonata si velò la fronte.

Nella comun sventura erasi Timbro,

Dopo molti in cercar la sua fedele

Scórsi perigli, l’ultimo su l’erta

Spinto in sicuro; e fra i dolenti amici

Di Larina inchiedea; Larina intorno,

Larina iva chiamando, e forsennato

Con le man tese e costillanti crini

Per la balza scorrea; quando spumosa

L’onda, che n’ebbe una pietà crudele,

La morta salma gliene spinse al piede.

Ahi vista! ahi, Timbro, che facesti allora?

La raccolse quel misero, ed in braccio

La si recò; pianse ei già, chè tanto

Non permise il dolor, ma freddo e muto

Pendè gran pezza sul funesto incarco,

Poi mise un grido doloroso e disse:

Così mi torni? e son questi gli amplessi

Che mi dovevi? e questi i baci? e ch’io,

Ch’io sopravviva?... E non seguì; ma stette

Sovr’essa immoto con le luci alquanto;

Poi sull’estinta abbandonossi, e i volti

E le labbra confuse; e così stretto

Si versò disperato entro dell’onda,

Che li ravvolse, e sovra lor si chiuse.

 




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