CANTO PRIMO
I lunghi affanni ed il perduto
regno
Di Feronia dirò, Diva latina,
Che del suo nome fe’ beata un
giorno
Di Saturno la terra. Ella per
fiere
Balze e foreste errò gran tempo
esclusa
Da’ suoi santi delubri, e molto
pianse,
Dai superbi disdegni esercitata
D’una diva maggior, che
l’inseguía,
Finchè novelli sacrifici ottenne
Sugli altari sabini, e le fûr resi
Per voler delle Parche i tolti
onori.
Ma qual de’
numi l’infelice afflisse,
E lei, ch’era pur diva, in tanto
lutto
Avvolgere potéo? Fu la crudele
Moglie di Giove, e un suo furor
geloso.
Tu che tutte ne sai l’alte
cagioni,
Tu le mi narra, o Musa, e
dall’oblio
Traggi alla luce il memorando
fatto
Non ancor manifesto in Elicona.
E se dianzi di nuove itale note
L’ira vestendo del Pelide Achille,
Alcuna meritai grazia o mercede,
Su questi carmi, che tentando or
vegno,
Di quel nèttare, o dea, spargi una
stilla
Che dal mëonio fonte si deriva,
Non già quando con piena impetuosa
Gl’iliaci campi inonda, a tal che
gonfi
Dell’alta strage Simoenta e Xanto
Al mar non ponno ritrovar la via,
Ma quando lene mormorando irriga
I feacii giardini: e dolce rendi
Su le mie labbra la pimplea
favella.
Là dove impôsto
a biancheggianti sassi
Su la circèa marina Ansuro pende,
E nebulosa il piede aspro gli
bagna
La pomezia palude, a cui fan lunga
Le montagne lepine ombra e corona,
Una ninfa già fu delle propinque
Selve leggiadra abitatrice, ed era
Il suo nome Feronia. I laurentini
Boschi, e quei che la fulva onda
nudrisce
Del sacro fiume tiberin,
quantunque
Di Canente superbi e di Pomona,
Non videro giammai forme più care.
Qual verno fiore che segreto nasce
In rinchiuso giardin, nè piede il
tocca
Di pastor, nè di greggia;
amorosetta
L’aura il molce, di sue tremule
perle
L’alba l’ingemma, e lo dipinge il
sole
Di sì vivo color, che il crine e
il seno
D’ogni donzella innamorata il
brama;
Tal di Feronia la beltà crescea.
Era diletto suo di peregrine
Piante e di fiori in suolo
estranio nati
L’odorosa educar dolce famiglia,
Propagarne le stirpi, e cittadina
Dell’ausonio terren farne la
prole.
Sotto la mano della pia cultrice
Ricevean nuove leggi e nuova vita
Le selvatiche madri, e, il fero
ingegno
Mansüefatto e il barbaro costume,
Del ciel cangiato si godean
superbe.
Ed essa la gentil ninfa sagace
Con lungo studio e pazïente cura
I tenerelli parti ne nudría,
Castigando i ritrosi, e a culto
onesto
Traducendo i malnati. Essa il
rigoglio
Ne correggeva ed il non casto
istinto,
Essa gli odii segreti e i morbi e
i sonni
E gli amor ne curava e i
maritaggi,
Securo a tutti procacciando il
seggio,
E salubri ruscelli ed aure amiche;
Nè vïolarli ardía co’ morsi acuti
D’Orizia il rapitor, che irato
altrove
Volgea le furie, e con le forti
penne
L’antiche flagellava áppule selve,
O di Lucrino i risonanti lidi.
Ma chi potría
di tutti a parte a parte
Il sesso riferir, la patria, il
nome?
V’era la rosa che mandâr primieri
Di Damasco i giardini e di Mileto;
Quella rosa che poi, nel fortunato
Grembo traslata dell’ausonia
terra,
Fu pestana nomata e prenestina.
Sua sorella minor, ma di più
grido,
Le fioriva da canto la modesta
Licnide figlia delle ambrosie
linfe,
Di che le Grazie un dì le belle
membra
Lavâr di Citerèa, quando dai primi
Ruvidi amplessi di Vulcan si
sciolse.
Altro amor di
Ciprigna in altra parte
L’amaraco olezzava. In su la
sponda
L’avean del Xanto le sue rosee
dita
Piantato; e il petto e le divine
chiome
Adornarsi di questo ella solea,
Quando desire la pungea di farsi
Al suo fero amatore ancor più
bella.
Ecco prole gentil
d’egizia madre
Vivaci aprirsi su l’allegro stelo
Il sonnifero loto, e il molle
acanto
Che alla soave colocasia gode
Intrecciar le sue fronde. Ecco il
portento
Dell’arte che talor vince natura,
Il superbo ranuncolo; un dì vile
Mal noto fiore, ed or per l’opra e
il senno
Di Feronia, che molto amor gli
pose,
Fatto sì bello, che il diresti
rege
Degl’itali giardini. Aleppo e
Cipro,
Candia, Rodi e Damasco in umil
pompa
Il mandâro alla Diva; ed ella,
esperta
De’ botanici arcani, immantinenti
Di varïate polveri ne sparse
L’ima radice, che le bebbe, e a
lui
Di ben cento color tinse le
chiome.
E tale or questo di bell’arte
figlio
Di donzelle non solo e di fiorenti
Spose, a cui lode è la beltà
nudrire,
Ma di matrone ancor cura e desío,
Ne’ romani teatri e ne’ conviti
Alle antiche patrizie il petto
adorna,
Ove Amor spegne la sua face, e
ride.
Ma più cara
alle Grazie ed alla casta
Man di Feronia, con più pio
riguardo
Educata tu cresci, o mammoletta,
Tu che negli orti cirenei dal
fiato
Generata d’Amore e dallo stesso
Amor sul colle pallantèo tradutta,
Di Zefiro la sposa innamorasti,
E del suo seno e de’ pensier suoi
primi
Conseguisti l’onor. Pudica e cara
Nunzia d’april, deh! quando per le
siepi
Dell’ameno Cernobbio in sul
mattino
Isabella ed Emilia, alme
fanciulle,
Di te fan preda e festa, e tu
beata
Vai fra la neve de’ virginei petti
Nuove fragranze ad acquistar, deh!
movi,
Mammoletta gentil, queste parole:
Di primavera il primo fior saluta
Di Cernobbio le rose, onde
s’ingemma
Della regale Olona il paradiso,
Che di bei fior penuria unqua non
soffre.
Felice l’aura che vi bacia e tutta
Di ben olenti spirti in voi
s’imbeve,
E felice lo stelo onde vi venne
Sì schietta leggiadria: ma mille
volte
Più felice e beato al par de’ numi
Chi con man pura da virtù guidata
Dispicciarvi saprà dalla natía
Fiorita spina, e d’Imeneo sull’ara
Con amoroso ardor farvi più belle;
Chè senza amor non è beltà
perfetta,
Nè mai perfetto amor senza
virtude.
Dove te lascio
ne’ meonii campi
Sì lodato, o d’incanti e di malíe
Possente domator, tu che dai numi
Moly sei detto con parola
al volgo
Non conceduta, e sol dal saggio
intesa?
(Chè al volgo corruttor d’ogni
favella
Parlar la lingua degli déi non
lice).
Se là di Circe fra le mandre
Ulisse
Non stampò di ferine orme il
terreno
Di questa erbetta e del suo latteo
fiore
Alla virtù si dee: parlante
emblema,
Del cui velo copría l’antico senno
La temperanza, che de’ turpi
affetti
Doma il poter. Di questo
portentoso
Vegetante fra noi, siccome è grido,
Di Maia il figlio dal natío
Cillene
La tenera portò bruna radice,
E dell’accorto dio fu degno il
dono.
Con questa ei tutti della maga i
filtri
Contra l’itaco eroe fece
impotenti;
E il suo bel fior, che da non
casta mano
Sdegna esser tocco, di Feronia poscia
Dolce cura divenne, che di mille
Felici erbette gli fe’ siepe
intorno;
Altre d’eterno verde, altre dotate
Di medica virtude, onde il furore
Placar de’ morbi, addormentar le serpi,
E sanarne i veleni; altre che il
sonno
Inducono benigne, il dolce sonno
Degli afflitti sì caro alle
palpebre.
E tal di tutte un indistinto uscía
Soave olezzo che apprendeasi al
core.
Che di mille
dirò scelti arboscelli
Lieti a dovizia di nettarei
frutti,
E di fiori e di chiome, in cui
natura
Per infinite varïate guise
Spiegò la pompa della sua
ricchezza?
Alle ben nate piante peregrine,
Qual d’arabo lignaggio e qual d’assiro,
Qual dall’Indo venuta e qual dal
Nilo,
L’italo suolo arrise, e sue le
fece;
Sì che in lor della patria e della
prima
Origine il ricordo oggi è perduto.
Tanto è l’amor del nuovo cielo, e
tanta
Fu la cura di lei, che nel ben
chiuso
Suo viridario ad educarle prese,
Or con arte confuse, ed or
disposte
In bei filari, come stral diritti,
Rallegrando di molli ombre i
sentieri.
Ecco schiuder
dal seno i bei rubini,
A Minerva e a Giunon pianta
gradita,
E a Cerere cagion d’alto disdegno,
Il coronato melagrano, e tutti
Adescar gli occhi ed invitar le
mani.
Ecco il melo cidonio alle gibbose
Sue tarde figlie di lasciva e
molle
Lanugine vestir le bionde gote,
Del cui fragrante sugo hanno in
costume
Le amorose donzelle in orïente
Nudrir la bocca ed il virgineo
fiato,
Quando la face d’Imeneo le guida
Di bramoso garzone ai caldi
amplessi.
Vedi il perso arboscel che i rosei
frutti
Ne mostra di lontan; vedi il
fratello
D’armena stirpe, che con gli aurei
figli
Gli contende superbo i primi
onori;
Perocché dai regali orti sconfitti
Dell’atterrata Cerasunte ancora
Quel fiammante rival giunto non
era,
Che, di corpo minor, ma di più
viva
Porpora acceso, avría lor tolto un
giorno
E di bellezza e di dolcezza il
vanto.
Ma stillante più ch’altri ibleo
sapore,
L’onor dispiega di sue larghe
chiome
Il calcidico fico, il cui bel
frutto,
Se verace è la fama, alle celesti
Mense sol noto, fra’ mortali
addusse,
E a Fitalo donò la vagabonda
Cerere, allor che tutta iva
scorrendo
La terra in traccia della tolta
figlia.
All’apparir della divina pianta
Di molte forme e molti nomi altera
Tutte esultâr le rive; e Cipro e
Chio
E gli orti ircani e i misii e il
verde Egitto,
E la gran madre d’ogni bella cosa,
L’itala terra, con attento amore
La coltivaro, e de’ suoi dolci
pomi,
Solo a Serse e a Cartago agri e
funesti,
Fêr gioconde le mense anche più
vili.
Né te,
quantunque umíl pianta vulgare,
Lascerò ne’ miei carmi inonorato,
Babilonico salcio, che piangente
Ami nomarti, e or sovra i laghi e
i fonti
Spandi la pioggia de’ tuoi lunghi
crini,
Or su le tombe degli amati
estinti,
Che ne’ cupi silenzii della notte
Escono consolate ombre a raccôrre
Sul freddo sasso degli amici il
pianto.
Tu non vanti dei lauri e delle
querce
Il trionfale onor, ma delle Muse,
Che di tenere idee pascon la
mente,
Agli studi sei caro: e da’ tuoi
rami
Pendon l’arpe e le cetre, onde si
sparge
Di pia dolcezza il cor
degl’infelici.
Salve, sacra al dolor mistica
pianta,
E l’umil zolla, che i mortali
avanzi
Del mio Giulio nasconde, in cui
sepolto
Giace il sostegno di mia stanca
vita,
Della dolce ombra tua copri
cortese.
E tu, strazio d’amore e di
fortuna,
Tu derelitta sua misera sposa,
Che del caldo tuo cor tempio ed
avello
Festi a tanto marito, e quivi il
vedi,
E gli parli, e ti struggi in vòti
amplessi
Da trista e cara illusïon rapita,
Datti pace, o meschina; e ti
conforti
Che non sei sola al danno. Odi il
compianto
D’Italia tutta; i monumenti mira,
Che alla memoria di quel divo
ingegno
Consacrano pietose anime belle.
E, se tanto d’onore e di cordoglio
Argomento non salda la ferita
Che ti geme nel petto, e tuttavia
Il lagrimar ti giova, e forza
cresce
Al generoso tuo dolor l’asciutto
Ciglio de’ tristi, che, alla voce
sordi
Di natura e del ciel, nè d’un
sospiro,
Nè d’un sol fiore consolâr
l’estinto,
Dolce almeno ti sia, che su
l’avaro
Di quell’ossa sacrate infando
obblío
Freme il pubblico sdegno, e fa
severa
Delle lagrime tue giusta vendetta.
Ma dove, o
Musa, di sentiero uscita
Ti tragge ira e pietà? Deh! torna
al riso
Del cantato giardin, torna ai
profumi,
Alle fragranze che l’erbette e i
fiori
Ti esalano d’intorno. A sè ti
chiama
Principalmente ed il tuo canto
aspetta
L’odorato de’ Medi arbor felice,
Di cui non avvi più possente e
pronto
(Se fede acquista di Maron la Musa)
Medicame verun contra i veneni
Delle dire matrigne, allor che
seco
Scellerate parole mormorando,
Empion le tazze di nocenti sughi.
Chioma e volto di lauro ha l’almo
arbusto;
E, se diverso e vivo in lontananza
Non gittasse l’odor, lauro saría.
Candidissimo è il fior di che
s’ingemma,
Nè, per molto soffiar che faccia
il vento,
L’onor mai perde della verde
fronda.
Ora etrusco limone, or cedro ed
ora
Arancio lusitan l’appella il vulgo,
Sotto vario sembiante ognor lo
stesso.
Questa è la pianta che nel ciel
creata
L’aureo pomo fatal lassù produsse
Ch’Ilio in faville fe’ cader: con
questo
L’ardito Aconzio e Ippòmene già
fèro
(Che non insegni, Amor?) alle lor
crude
Belle nemiche il fortunato
inganno.
E fu pur questa che ad immane
drago
Diè negli orti a vegliar
d’Esperetusa
Il sospettoso mauritano Atlante;
Finchè di là la svelse il forte
Alcide,
Spento il fero custode, e
peregrino
Seco l’addusse nell’ausonio lito,
Quando di Spagna vincitor
tornando,
Nel Tevere lavò l’armento ibero,
E fe’ sopra il ladron
dell’Aventino
Delle tolte giovenche alta
vendetta.
Poi, com’egli d’Evandro
abbandonate
Ebbe le mense e l’ospital ricetto,
E a quel giogo pervenne, ove
nascoso
Agl’Itali mostrò la prima vite
Il ramingo dal ciel padre Saturno,
Ivi sul dorso edificò del monte
Sezia, un’umil città, donde Setina
Fu nomata la rupe; e qui di Giove
L’errante figlio alla saturnia
terra
Primiero maritò l’arbor divino
Che tutti empiè di meraviglia i
colli
E d’invidia le selve. Al primo
spiro
Del suo celeste odor vinta temette
(E fu giusto il timor) la sua
fragranza
Di Preneste la rosa: al primo
aspetto
Di quel candido fior vinte temette
Le sue vergini tinte il gelsomino.
A baciarlo lascive, a carezzarlo
D’ogni parte volâr l’aure tirrene,
Desïose d’aver carchi del caro
Effluvio i vanni rugiadosi:
corsero
A fregiarsene il crine e il colmo
seno
D’Alba le ninfe e di Laurento, e
quelle
Del Vulturno arenoso e del
Taburno.
Corser da tutte le propinque rive
Gli Egipani protervi, e,
saltellando,
E via gittando ognun l’ispido
pino,
Di questo ramo ghirlandâr le
fronti.
Lo volle il dio d’Arcadia, e lo
prepose
Agli ebuli sanguigni ed ai
corimbi;
E lo volle Silvan, dimenticate
Le ferule fiorenti e i suoi gran
gigli.
Venne anch’essa del Sol Circe la
figlia,
E di sua mano un ramoscel
spiccando
Della scesa dal ciel pianta
diletta,
In grembo al sacro suo terreno il
pose.
Così crebbe il divin bosco
odorato,
Che di soave olezzo intorno tutte
Della maga spargea le rilucenti
Tremende case, ov’ella ognor
cantando,
E con l’arguto pettine le tele
Percorrendo, facea dolce da lungi
E periglioso ai naviganti invito,
Mentre pel buio della tarda notte
Lamentarsi e ruggir s’udian leoni
Disdegnosi di sbarre e di catene,
Urlar lupi, e grugnire ed adirarsi
Nelle stalle cinghiali ed orsi
orrendi,
Che fûr uomini in prima, e della
cruda
Incantatrice sventurati amanti.
Queste ed altre
infinite eran le piante,
E l’erbe e i fiori che godea
l’attenta
Di Feronia educar mano pudica;
Di tutti quanti i fiori ella il
più bello.
Ma, sotto vago aspetto alma
chiudendo
Superbetta, d’amor tutte parole
La ritrosa fanciulla ebbe in
dispregio.
Nè la vinse il pregar di madri
afflitte,
Che la chiedeano in nuora, e per la
schiva
Vedean languire i giovinetti
figli;
Nè mai lusinghe la piegâr di
quanti
Déi le latine ad abitar contrade
Dai pelasghi confini eran venuti;
Ch’ella a tutti s’invola, e non si
cura
Conoscere d’amor l’alma dolcezza.
Ma di Giove non seppe un’amorosa
Frode fuggir. La vide, e da’ begli
occhi
Trafitto, il nume, la sembianza
assunse
D’un imberbe fanciullo, e sì
deluse
L’incauta ninfa, e la si strinse
al seno
Con divino imeneo. L’ombra d’un
elce
Del dio protesse il dolce furto: e
lieta
Sotto i lor fianchi germogliò la
terra
La violetta, il croco ed il
giacinto,
Ed abbondanti tenerelle erbette,
Che il talamo forniro; e le
segrete
Opre d’amore una profonda e sacra
Caligine coprío; ma di baleni
Arse il ciel consapevole, ed i
lunghi
Ululati iterâr su la suprema
Vetta del monte le presaghe ninfe.
Questi fûr delle nozze inauspicate
I cantici, le faci, i testimoni;
Questo alla nuova del Tonante
sposa
De’ suoi mali il principio, e nol
conobbe
L’infelice; ma ben di Giove il
vide
L’eterno senno; nè potendo il duro
Fato stornar, nel suo segreto il
chiuse;
E, la doglia, che solo il cor
sapea,
Premendosi nel petto, a far più
mite
Il funesto avvenir volse il
pensiero.
Primamente quel bosco e quella
rupe
Sì gli piacque onorar, dove la
ninfa
Dell’occulto amor suo gli fu cortese,
Che per loro obbliò Dodona ed Ida,
E men care di Creta ebbe le selve;
Tal che le genti la presenza
alfine
Sentîr del nume, e l’inchinâr
devote,
E Giove Imberbe l’invocâr
sull’are;
Ch’egli loro così mise in pensiero
Per la memoria del felice inganno.
Qui del culto novel consorte ei
volle
La dolce amica sua; qui degli
eterni
In aurea tazza il nèttare le
porse,
E la fece immortal. Poscia,
tonando,
Del monte il fianco occidental
percosse;
E una súbita fonte cristallina
Scaturì mormorando, e dalla balza
Comandò che perenne ella
scorresse,
E da Feronia si nomasse: ed oggi
Serba quel nome ed il ricordo
ancora
Dell’antico prodigio. Allor le
volsche
Genti lor diva l’adoraro, e lei
Antefora chiamaro e Filostefana,
E Persefone, e tutte a lei de’
campi
Fûr sacre le primizie. Ad
inchinarla
Sovrana e diva i numi adunque
tutti
Corser d’Ausonia; chè il voler tal
era
Del supremo amator: e non pur
quelli
A cui per valli e campi e per
montagne
Fuman l’are latine, e di plebeo
Rito van lieti, e di minori han
nome;
Ma mossero frequenti ad onorarla
Di cortese saluto anche i
maggiori.
Primo il padre Lieo, ch’indi non
lungi
In un temuto e per antico orrore
Sacro delubro raccogliea benigno
Dal timor de’ mortali incensi e
voti;
E la bionda inventrice era con lui
Dell’auree spiche e delle sante
leggi,
Cerere, che solea le pometine
Spesso anteporre alle trinacrie
mèssi.
Nè te d’Aricia il bosco, e il
nemorense
Lago trattenne, o vergine Dïana;
Chè tu pur, del lunato argenteo
carro
Al temo aggiunte le parrasie
cerve,
Con gli altri divi ad abbracciar
venisti
La novella immortale, e di te
degna
Fu l’alta cortesia che ti
condusse.
Col favor di
Feronia iva frattanto
Scorrendo i campi l’Abbondanza, e,
tutto
Versando il corno, ben compiuta e
ricca
Fea dell’avaro agricoltor la
speme.
Ogni prato, ogni colle, ogni
foresta
Di pastorali avene e di muggiti
E nitriti e belati alto risuona;
E prigioniera dall’opposte rupi
Le dolci querimonie Eco ripete.
Venti e quattro cittadi, onde
l’immensa
Fertile valle si vedea cosparsa,
S’animâr, s’abbelliro, e, strette
in nodo
Di care parentele, in mezzo al
sangue
De’ torelli giurâr dell’alleanza
Il sacramento; e l’invocata diva
Le dilesse, e su lor piovve la
piena
Di tranquilla ricchezza.
Incontanente
Crebbero i lari, crebbero le mura;
Di maestà, di forza e di rispetto
Le sante leggi si vestîr; fûr
sacri
I reverendi magistrati; sacra
La patria carità; sacro l’amore
Della fatica e dell’industria.
Quindi
Tutte piene di strepito le vie,
E i teatri e le curie; e
dappertutto
Un gemere di rote, un picchio assiduo
Di martelli e d’incudi, un suonar
d’arme
Buone in pace ed in guerra, onde
si crebbe
La feroce de’ Rutuli potenza,
Che al pietoso Troian tanto fe’
poscia
Sotto il cimiero impallidir la
fronte,
Quando gli disputâr Camilla e
Turno
Di Lavinia e d’Italia il grande
acquisto.
Eran le genti
pometine adunque
Molte e forti e felici; e
manifesta
Di Feronia apparía per ogni parte
La presenza, il favor, la possa e
l’opra.
Però da cento altari a lei salía
Delle vittime il fumo, e ne godea
Il tonante amator, che stanco e
carco
Delle cure del mondo, a serenarle
Scendea sovente ne’ segreti
amplessi
Della diva fanciulla. Un aureo
nembo
Li copriva; e ozïosa al sole
aprico
Col rostro della folgore ministro,
L’aquila sacra si pulía le piume;
Mentre sicure dal furor di Giove
Tacean d’Ato e di Rodope le rupi,
E avea Bronte riposo in
Mongibello.
Erasi intanto
la saturnia Giuno
Fatta accorta del dolo, e i suoi
grand’occhi,
Che gelosia più grandi anche
facea,
Non fallibili segni avean già
scorto
Di nuova infedeltà. Raro il
soggiorno
Del marito in Olimpo: alto il
silenzio
Dei talami divini: inoltre mute
Della foresta dodonea le querce,
Cheti i tuoni dell’Ida, e
dissipato
Il denso fumo che facea palese
La presenza del nume. Onde,
turbata
In suo sospetto, alle nevose cime
Dell’Olimpo salita, in giù rivolse
L’attento sguardo, e ricercò
l’infido
Sul mar sidonio, sul nonacrio
giogo,
Sull’Ismen, sull’Asopo, ove
sovente
Delle vaghe mortali amor lo prese.
Indi in Ausonia declinando i lumi,
D’Ansuro nereggiar sul balzo vide
Tale un nugolo denso, che per
vento
Non si movea di loco, ancorchè
tutta
Fosse in moto la selva. A cotal
vista
Le si ristrinse il cor; le corse
un gelo
Per le membra immortali, e si fèr
truci
I neri sopraccigli. Immantinente
Iri a sè chiama, e: Prestami, le
dice
Su via prestami, o fida, il tuo
piovoso
Arco d’oro e di luce. E, sì
dicendo,
Nè risposta aspettando, entro si
chiude
A’ taumanzii vapori, e taciturna
Su le rupi setine si precipita.
Tocca pur anco non avea la terra
Co’ leggeri vestigi, che levarsi
L’invisibile dea l’aquila vide,
L’aquila testimon del dio marito;
E sotto l’ombra delle grandi penne
Furtiva e cheta camminar la nube,
E tra le piante dileguarsi. A lei
Dovunque passa riverenti e curvi
Dan loco i rami della selva; e
l’aure
Non osano di far rissa e
bisbiglio.
Volse indi l’occhio addietro, e
donde tolta
S’era la nube, in piè rizzarsi
mira
Così bella una ninfa, che alla
stessa
Corrucciosa Giunon bella parea.
Sventurata beltà! L’ira e il
dispetto
Tu crescesti nel cor della gelosa,
Che spiccossi qual lampo e
rabbuffata
Con questi accenti alla rival fu
sopra:
E qual ti prese insania ed
arroganza,
Insolente mortal, che una cotanta
A me far osi ingiuria, e non mi
temi?
Ravvisami, proterva; io degli dei
Son l’eterna reina, io la sorella,
Io la sposa di Giove. Scolorossi,
Tremò, si sgomentò, non fe’ parola
La misera Feronia; e, siccome era
Scomposta i veli e le bende e le
chiome,
Dell’amplesso celeste accusatrici,
Mise in tutto furor la sua nemica;
La qual su lei di rinnovar bramosa
Di Callisto la pena, ad un
vincastro
Diè rabbiosa di piglio, e la
percosse.
Attonito restò l’occhio e la mano
Dell’acerba Giunon, quando
dell’altra
Vide al colpo divino invïolata
Resistere la salma, e le primiere
Sembianze rimaner: tosto conobbe
Che di tempra immortal fatta
l’avea
L’onnipossente nume; onde sdegnosa,
Chè a vôto mira uscito il suo
disegno,
E terribile e ria più che mai
fosse:
Questo, disse, al mio scorno anco
mancava,
Adultera impudente, che dovesse
Farlosi eterno! Semele ed Alcmena
Eran poca vergogna all’onor mio,
E i due figli di Leda, e Ganimede,
Ch’altra ancor ne s’aggiunge, e di
malnati
Mi si fan piene le celesti mense.
Ma inulta non andrò, se Giuno io
sono;
Nè tu senza castigo. Via di qua,
Via di qua, svergognata! E in
questo dire
Il bianco braccio fieramente
stese,
S’aggrandì, si scurò, gli occhi
mandaro
Due fiamme a guisa di baleni in
mezzo
Di tenebrosa nube; e la grand’ira,
Che il senno ancor degl’immortali
invola,
Quasi obbliar di diva e di reina
Le fe’ modi e costumi. E di
rincontro
Di Giove allor la dolorosa amante,
Che di rimorso trema e di
rispetto,
Con basso ciglio e con incerto
piede
Lagrimando partissi. Ella per
monti
E per valli e per fiumi si
dilunga,
E sempre a tergo ha la tremenda Giuno,
Che con minacce e dure onte e
rampogne
Stimola e incalza l’infelice. Ahi!
dunque
Era da tanto un amoroso errore?
E già varcate
avea le veliterne
Pendici, e gli ardui sassi, ove
costrusse
Cora la sua città, Cora il
fratello
Di Catillo e Tiburte; e non
lontano
Era di Cinzia il sacro lago e il
bosco,
Ove a Stige ritolto, e della ninfa
Egeria in cura, Ippolito traeva,
Cangiato in Virbio, la seconda
vita.
Qui di Saturno l’adirata figlia
Sostenne i passi, e in balze aspre
e deserte
Qui lasciò la meschina, e, desïosa
Di vendetta maggior, diè volta
addietro.
Tra le priverne
rupi e le setine
S’apre immane spelonca, a cui di
sopra
Grava il dosso una negra orrida
selva,
E per lo mezzo la rinfresca un
rivo,
Che con grato rumor casca e
zampilla
Dalle fesse pareti. Ha di sedili
In vivo marmo una corona intorno,
E tal dalle muscose erbe si spande
Una fragranza, che da lungi avvisa
Veramente di dei stanza e ricetto.
Qui da tutta la volsca regïone
Per cento cave sotterranee vie
Vengon sovente a visitarsi i
fiumi,
Il freddo Ufente, il lamentoso
Astura,
Il sonoro Ninfeo, che tra le sacre
Sue danzanti isolette ad Anfitrite
Rapido volve e cristallino il
flutto;
E il superbo Amasen, che le gran
corna
Mai non si terge, e strepitoso e
torbo
Empie di loto i campi e di paura.
E cent’altri v’accorrono di fama
Poveri e d’onda fiumicei seguaci,
E cento ninfe, che il cader degli
astri
Conoscono e del sole e della luna
Le armoniche vicende, e sanno i
venti
E le piogge predire e le procelle.
Colà bieca sbuffando s’incammina
La di vendetta sitibonda dea:
Simile a nembo di gragnuole
gravido,
Che bruno il ciel vïaggia e
orrendo stendesi
Su la bionda vallea, quando le
Pleiadi,
Che d’Orïon la spada incalza e
stimola,
Negli atlantici flutti si
sommergono,
E tutto ferve per burrasca il
pelago.
Tal terribile in vista ella
s’avanza;
E, giunta al mezzo dello speco, in
atto
Di maestà, di cruccio e di
preghiera,
Fa dal labbro volar queste parole:
Fiumi, a cui delle volsche acque
l’impero
Diè degli uomini il padre e degli
dei,
E voi le correggete e a vostro
senno
Le mandate a nudrir l’onda
tirrena;
Una vil mia nemica, una spregiata
Di boschi abitatrice, il cor mi
tolse
Del mio consorte; e non è tutto. A
lei,
A costei l’immortal vita è
concessa,
Privilegio avvilito, e dea l’adora
La bagnata da voi terra pontina.
Vendicate l’offesa; e, s’io
dall’etra
Vi dispenso le piogge, ite,
abbattete,
Distruggete, spegnete. Altari e
templi
E città rovesciate: io le vi dono,
E saran vostro regno; orma non
resti
Dell’abborrito culto, e
raddolcisca
La mia giust’ira di Feronia il
pianto.
Disse; e per tutti a lei tosto
l’Ufente
Diserto e chiaro parlator rispose:
— A te l’esaminar conviensi, o
diva,
Il tuo desire, e l’adempirlo a
noi.
Delle piove e de’ nembi genitrice
Tu ne riempi l’urne, tu ne fai
Giove propizio, e ne concedi a
mensa
Su l’Olimpo seder con gli altri
eterni.
Ciò detto, frettolosi e furïosi
Si dileguâr per la caverna i
fiumi,
Chi qua, chi là ciascuno alla sua
sede;
E partendo ne fêr tale un tumulto,
Tale un fracasso, che tremonne il
monte.
N’udirono il fragor le pometine
Valli da lungi, e ne mandâr
muggiti,
Di ruina presaghe; e palpitanti
Strinser le madri i pargoletti al
seno.
Mentre corrono
quelli il rio precetto
A compir della diva, e ai duri
sassi
Aguzzano per via le corna e l’ira,
Levossi Giuno in aria, e spiegò il
manto,
In cui ravvolge le tempeste e i
nembi,
E subito gonfiâr le bocche i
venti,
E le nubi aggruppâr, che cielo e
luce
Ai mortali rapiro, e si fe’ notte,
Orrenda notte dal guizzar de’
lampi
Rotta al fero de’ tuoni fragor
cupo.
Carco d’atre caligini la fronte,
Vola l’umido Noto, ed afferrate
Con le gran palme le pendenti
nubi,
Le squarcia risonante, e tenebrosa
Sgorga la piova; il rotto aere ne
rugge;
E il suol ne geme e le battute
selve.
Scende un mar dalle rupi. Allora i
fiumi
Versano l’urne abbeverate e colme;
E quattro di maggior superbia e
lena
Da quattro parti sul soggetto
piano,
Svelte, atterrate le tremanti
ripe,
Con furor si devolvono. Spumosa
E fragorosa la terribil piena
Le capanne divora e i pingui
cólti,
E gli armenti e i pastori. E già
le mura
Delle cittadi assalta e le
percote,
Di cadaveri ingombra e della fatta
Strage ne’ campi: già delle
bastite
Crollano i fianchi; già sfasciati
piombano,
E dan la porta all’inimico flutto.
S’alza allora un compianto, un ululato
Di vergini, di vegli e di
fanciulli:
Corrono ai templi; ed invocar
Feronia
E Feronia gridar odi piangenti
Le smorte turbe; e non le udía la
diva;
Chè maggior diva il vieta. Essa,
la fiera
Moglie di Giove, di sua man
riversa
Dell’esule nemica i simulacri,
Ne sovverte gli altari; e la
soccorre
Ministra al suo furor l’onda
crudele
Che tutte attorno le cittadi
inghiotte.
Tre ne leva sul corno infurïando
Il veloce Ninfeo che lutulenti
Spinse quel dì la prima volta i
flutti,
L’umil Trapunzio e Longula e Polusca:
Tre la ferocia del possente
Astura,
L’opima Mucamite, e l’alta Ulubra,
E la vetusta Satrico, a cui nulla
Il nume valse della dia Matuta.
E per te cadde, strepitoso Ufente,
Pomezia, la più ricca e la più
bella.
Pianse il giogo circèo la sua
caduta,
E la pianser le ninfe, a cui
commessa
De’ suoi vaghi giardini era la
cura.
Il tremendo
Amaseno avea frattanto
Sotto i vortici suoi sepolti
intorno
I barbarici campi, e fatto un lago
Della misera Ausonia, e l’alte
mura
D’Aurunca percotea, la più
guerriera
Delle volsche cittadi, e la più
antica.
Oltre gli anni di Dardano e
Pelasgo
La sua fama ascendeva, e degli
Aurunci
Venerevoli padri alto suonava
E glorïoso fra le genti il grido.
L’avea quel fier divelta e
conquassata
Dai fondamenti. Alle vicine rupi
Traggonsi in salvo gli abitanti; e
il fiume
Li persegue mugghiando, e ne
raggiunge
Altri al tallone, e li travolve;
ed altri,
Che più pronti afferrâr già la
montagna,
Con l’immenso suo spruzzo li
flagella,
E di paura li fa bianchi in viso.
Ben mille ne contorse entro i suoi
gorghi
Quell’orribile dio; ma di due
soli,
Timbro e Larina, il miserando fato
Non tacerò, se a tanto il cor
resiste,
E pietoso il pensier non mi
rifugge.
Amavansi così quegl’infelici,
Ch’altro mai tale non fu visto
amore,
E d’Imeneo già pronte eran le
tede,
E consentian gioiosi al casto
affetto
I genitori. Ahi brevi e false in
terra
Le speranze e le gioie! In riva al
mare,
Cui d’Anzio regge la Fortuna, avea
Pochi dì prima all’afrodisia madre
Porti i suoi voti il giovinetto
amante,
E abbracciato l’altar. Letta nel
fato
Del misero la sorte avea la diva;
E della diva il santo simulacro
Tremò, e sudante (maraviglia a
dirsi!)
Torse altrove il bel capo, e non
sostenne
Tanta pietà. Ma ben di Giuno il
crudo
Cor la sostenne: e la virtude umana
Abbandonata si velò la fronte.
Nella comun sventura erasi Timbro,
Dopo molti in cercar la sua fedele
Scórsi perigli, l’ultimo su l’erta
Spinto in sicuro; e fra i dolenti
amici
Di Larina inchiedea; Larina
intorno,
Larina iva chiamando, e forsennato
Con le man tese e co’ stillanti
crini
Per la balza scorrea; quando
spumosa
L’onda, che n’ebbe una pietà
crudele,
La morta salma gliene spinse al
piede.
Ahi vista! ahi, Timbro, che
facesti allora?
La raccolse quel misero, ed in
braccio
La si recò; nè pianse ei già, chè
tanto
Non permise il dolor, ma freddo e
muto
Pendè gran pezza sul funesto
incarco,
Poi mise un grido doloroso e
disse:
Così mi torni? e son questi gli
amplessi
Che mi dovevi? e questi i baci? e
ch’io,
Ch’io sopravviva?... E non seguì;
ma stette
Sovr’essa immoto con le luci
alquanto;
Poi sull’estinta abbandonossi, e i
volti
E le labbra confuse; e così
stretto
Si versò disperato entro
dell’onda,
Che li ravvolse, e sovra lor si
chiuse.
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