CANTO SECONDO
Già tutto di Feronia era il bel
regno
In orrenda converso atra palude,
Che pelago parea; se non che rara
Dell’ardue torri e dell’aeree
querce,
Non vinte ancor, l’interrompea la
cima.
E già su le placate onde leggieri
Spiravano i favonii, e in curvi
solchi
Arandole frangean sovra le molli
Crespe dell’acque la saltante
luce:
Quando di Circe la scoscesa balza
L’aspra Giuno salì. L’occhio
rivolse
Alla vasta laguna, e, tutta
intorno
La misurando con superbo sguardo,
Sorrise acerba su la sua vendetta.
Ma, vista su la rupe in lontananza
Dall’incremento delle spume
ultrici
Pur anco intatta alzar la fronte
alcuna
Delle volsche città, che ree del
culto
Dell’abborrita sua rival si fêro,
Ed illeso agitar l’argute frondi
Non lungi il bosco di Feronia, il
bosco
Che prestò l’ombra ai mal concessi
amori,
Risorger si sentì l’ire nel petto
Già moribonde: e poi che v’ebbe
alquanto
Fisso il torbido sguardo, in cor
sì disse:
Io desister dall’opra, e del mio
scorno
Patir che resti un monumento
ancora?
Già non fui sì pietosa inverso
Egina
E la stirpe di Cadmo abbominata:
Chè per quella mandai carca di
fiera
Pèste la morte su l’enopia terra;
E sostenni per questa entro le
case
Scendere io stessa dell’eterno
pianto,
E di là contra d’Atamante e d’Ino
Tisifone invocar. Quei due superbi
Co’ sonori serpenti ella percosse,
E allor nel figlio dispietate e
crude
Fur le mani paterne, e de’ suoi
vanti
Ino furente mi scontò l’offesa.
E pur avola a Bacco era colei,
E a Venere nipote; e non m’avea,
Come questa malnata itala druda,
Tolti i miei dritti, e del maggior
de’ numi
Aspirato alle nozze. Oh mia
vergogna!
Potè Gradivo la feroce schiatta
Sterminar de’ Lapiti: aver da
Giove
Potè Diana al suo disdegno in
preda
I Calidonii: e meritò poi tanto
De’ Calidòn la colpa e de’ Lapiti?
Ed io, progenie di Saturno, ed
alta
De’ celesti reina, a mezzo corso
Ratterrò gli odi e l’ire, e dovrò
tutte
Non consumarle? Oh mel contrasta
il fato!
E una fama pur or s’è sparsa in
cielo,
Che al volgere de’ lustri il senno
e l’opra
D’italici potenti al mio furore
E all’impero dell’onde questi
campi
Ritoglierà. Ritolgali: men giusta
O men dolce uscirà forse per
questo
La mia vendetta? Se cangiar non
lice
Delle Parche il decreto, e chi ne
vieta
L’indugiarlo, e tentar nuove
ruine?
Del tuo delitto dolorose e care
Le pene pagherai, ninfa superba:
Anche il Lazio s’avrà la sua
Latona.
Non selva lascerò, non antro
alcuno
Che ti riceva; scuoterò le rupi;
Crollerò le città dal tuo vil nume
Contaminate, e ne farò di tutte
Cenere e polve che disperda il
vento.
Nel turbato pensier seco volgendo
Queste cose la dea, giunse d’un
volo
Nell’eolie spelonche, orrendo
albergo
Degli adusti Ciclopi e di Vulcano.
Stava questo
dell’arti arbitro sommo
Intento a fabbricar per la pudica
Nemorense Dïana un d’oro e bronzo
Gran piedestallo, su cui l’alma
effigie
Collocar della diva. E sulle
quattro
Fronti v’avea l’artefice divino
D’ammirando lavoro impresse e
sculte
Di quell’almo paese avventurato
Le trascorse memorie e le future.
Era a vedersi da una parte il lago
Tutto d’argento. Tremolar diresti
L’onde e rotte spumar dai bianchi
petti
Delle caste Amnisídi, a cui venute
Già son men care le gargafie
fonti,
E d’Eurota le sponde. In su la
riva
Della sacra laguna abbandonati
Giaccion gli archi e le frecce,
onde famosi
Suonâr di caccia fragorosa un
giorno
Del Taïgeto e d’Erimanto i boschi,
Ed or la nemorense ne rimbomba
E la selva aricina. Indi non lunge
Stassi il carro lunato, e per la
rupe
Sciolte dal giogo le parrasie
cerve
Erran pascendo il tenero
trifoglio,
Gradita erbetta, che gradir suol
anco
Ai destrieri di Giove, ed alle
caste
Di Minerva cavalle polverose.
Alto a
rimpetto, fra pudichi allori,
Di Trivia il tempio signoreggia;
ed essa
La placabile diva in su la soglia
Del grande Atride ad incontrar
vien oltre
I pellegrini figli, Ifigenía
Sacerdotessa ed il fratello
Oreste,
Pietoso Oreste e scellerato
insieme,
Che per molti del mare e della
terra
Duri perigli salvo le recavano
Il fatal simulacro insanguinato
Dalle tauriche sponde alle
tirrene.
In altro lato
avea l’ignipotente
Sculti i novelli sagrifici e l’are
Di Dïana cruente, e i lagrimosi
Riti latini, e un contro l’altro
armati
Di barbaro coltello i sacerdoti.
Mirasi altrove il miserando caso
Del figliuol di Tesèo. Gonfiata ed
aspra
Spandeasi d’oro con argentee spume
La corinzia marina, a cui dal
mezzo
Uscía sbuffando una cerulea foca.
E per orride balze ecco fuggire
Gli atterriti cavalli, ecco sul
lido
Rovesciato dal carro e lacerato
L’innocente garzon. D’intorno al
casto
Esangue corpo si batteano il petto
Di Trezene le vergini; e, chiamando
Crudel Ciprigna, e più crudel
Nettuno,
Più ch’altre in pianto si struggea
Diana.
Al pregar
dell’afflitta indi seguía
D’Esculapio il prodigio e
l’ardimento,
Che, vïolato delle Parche il
dritto,
Col poter della muta arte paterna
Torna il pudico giovinetto in vita
Cui, redivivo, e in densa nube
avvolto,
Con mutati sembianti all’aricine
Selve poi reca la deliaca diva,
E palpitando alla segreta cura
Il commette d’Egeria, inclita
ninfa
Delle leggi romane inspiratrice.
S’apría di nero
cïanèo scolpita
Nel fianco della rupe una spelonca
Sacra di Pindo alle fanciulle, e
cara
Più che l’antro cirrèo. Le serpe
intorno
Con tortuoso piede una vivace
Edera d’oro, ed un ruscello in
mezzo
Di purissimo elettro. Ivi furtivo
D’Egeria ai santi fortunati
amplessi
(Chè di tanto fu degno) il
successore
Di Romolo traeva. Ivi le scese
Leggi dal cielo ricevea sul labbro
Della diva consorte; e ai mansueti
Genii di pace traducea le genti
Col favor delle Muse, e di quel
grande
Spirto divin che del troiano Euforbo
Pria la spoglia animò, poscia,
migrando
Di corpo in corpo, la famosa salma
Del samio saggio ad informar
pervenne,
E di Crotone empièo le mute scuole
Del saper dell’Assiria e
dell’Egitto.
V’era una balza
dall’opposta fronte,
Che al bel lago sovrasta, orrendo
nido
Di crude belve un tempo e di
colubri,
Ed or vasta, ridente, aprica scena
Di lieti ulivi. Tra le verdi file
De’ cecropii arboscelli
alteramente
Minerva procedea, che del novello
Conquistato terren prendea
diletto,
E con l’alta virtù, che dagli
sguardi
E dall’alma presenza esce de’
numi,
Liete facea le piante e delle
pingui
Bacche oleose nereggianti i rami.
L’accompagnava maestoso e bello
Alla manca un signor d’alta
fortuna,
Che con raro consiglio ed
ardimento
Dell’antico orror suo già spoglia
avea
L’indocile montagna, e le ritrose
Alpestri glebe all’ostinata cura
Del pio cultore ad obbedir
costrette:
Mentre all’ombra d’un’elce, e
all’ozio in seno,
Che il suo signor gli ha fatto,
anzi il suo dio,
Un poeta non vil l’aspre vicende
Di Feronia cantava, e per sentiero
Non calcato traea l’itale muse.
All’ultimo con
raro magistero
L’indomito Vulcan v’avea scolpita
Una dolente giovinetta madre,
Che, con ambe le mani al crin
facendo
Dispetto ed onta, su la fredda
spoglia
Di tre figli piangea tolti alla
poppa.
Taciturna e dimessa il padre Tebro
Volgea qui l’onda: su la mesta
riva
Ploravano le ninfe, e al Vaticano
Una nube di duol copría la fronte.
Lagrime tante alfin, tanti sospiri
Faceano forza al ciel, finchè la
santa
Madre d’Amore a consolar la donna
Dal terzo cerchio le piovea nel
grembo
De’ fecondi suoi raggi il quarto
frutto.
Siccome vaga tremula farfalla
Scendea quell’alma, e nel materno
seno
L’avventurosa si venía vestendo
Di sì lucido vel, ch’altro non
fece
Mai più bell’ombra a più leggiadro
spirto.
Al felice natal presenti avea
Sculte il fabbro le Grazie,
inclite dive,
Senza il cui nume nulla cosa è
bella.
V’era Lucina, a cui fûr date in
cura
Della vita le porte; eravi Giuno
De’ talami custode; e di Latona
L’alma figlia pur v’era, a cui
dolenti
S’odon nel parto sospirar le
spose;
E in disparte frattanto un aureo
stame
Al fatal fuso ravvolgean le
Parche.
Delle rugose antiche dee son tutte
Di pallid’oro le tremende facce,
E d’argento le chiome e i
vestimenti.
Del narciso d’Averno incoronate
Van le rigide fronti, e un cotal
misto
Mandan di riverenza e di paura,
Che l’occhio ne stupisce, e il cor
ne trema.
Dell’industre
Vulcan l’opra tal era,
Mirabile, immortale. Affumicato
E in gran faccenda l’indefesso
iddio,
Di qua di là scorrea per la
fucina,
Visitando i lavori, e rampognando
I neghittosi: con le larghe pale
Altri il carbon nelle fornaci
infonde
Scintillanti e ruggenti: altri con
rozze
Cantilene molcendo la fatica,
Dà il fiato e il toglie ai mantici
ventosi,
Che trenta ve n’avea di ventre
enormi:
Qual su l’incude le roventi masse
Del metallo castiga, e qual le
tuffa
Nella fredda onda, che gorgoglia e
stride.
Rimbomba la caverna, e dalle
fronti
Di quei fieri garzoni in larga
riga
Va il sudor per le gote e le
mascelle
Sui gran petti pelosi. In questo
mezzo
S’appresentò la veneranda Giuno
Nella negra spelonca, e parve il
fulgido
Volto del Sole che fra dense nubi
Improvviso si mostra. E Bronte, il
primo
Che la vide venir, diè segno agli
altri
Di sostarsi e cessar per lo
rispetto
Della moglie di Giove. Udì Vulcano
Della madre l’arrivo, e
frettoloso,
Fra tanaglie e martelli e
sgominate
Di metalli cataste zoppicando,
Le corse incontro; e presala per
mano,
Di fuliggine tutta le ne tinse
La bianca neve. Prestamente quindi
Le trasse innanzi un elegante
seggio,
Che d’oro avea le sponde, e lo
sgabello
Di liscio cassitèro, ove la diva
Posò l’eburnee piante; e, così
stando,
Di sua venuta le cagioni espose.
E primamente lamentossi a lungo
Dell’adultero Giove; alle cui
voglie
Poco essendo la Grecia, ancor ripiena
De’ suoi muggiti e de’ suoi nembi
d’oro,
E per tante or di cigno or di
serpente,
E di zampe caprigne ed altre vili
Frodi d’amor contaminata e guasta,
Or ne venía d’Italia anco le belle
Spiagge a bruttar de’ suoi lascivi
ardori,
Della moglie dimentico e del
cielo.
E qui fe’ conta del fanciullo
imberbe
La mentita sembianza, e i
conceduti
Di Feronia complessi, e come
assunta
Al concilio de’ numi era la druda;
E seguì, che per questo ella d’Olimpo
Lasciato avea le mense, e le
cortine
De’ talami celesti, e che desío
Sol di vendetta la traea de’
Volsci
Vagabonda sul lido, ove già rotti
I primi sdegni avea, con alta mole
D’acque coprendo le pomezie valli
E le cittadi alla rival devote;
Ma non tutte però; chè salva
alcuna
N’avean dall’onde le montagne
intorno.
Quindi ben paga non andar, se
tutto
Non abbatte, non guasta, non
diserta
L’abborrito paese. Or prendi, o
figlio,
Dell’eterno tuo foco una favilla;
Sveglia i tremoti, che ozïosi e
pigri
Dormon nel fianco di quei monti;
orrendo
Apri un lago di fiamme, ardi le
rupi,
Struggi i campi e le selve; e più
non chieggo.
Intento della
madre alle parole
Stava Vulcano, ad una lunga mazza
Il cubito appoggiato; e, poi che
Giuno
Al ragionar diè fine, in questi
accenti
Sulle piante mal fermo egli
rispose:
Ben io t’escuso, o madre, se di
tanta
Ira t’accendi; chè d’amor tradito
Somma è la rabbia: ed io mel so
per prova,
Io misero e deforme, e ancor più
stolto,
Che bramai d’una diva esser marito
Bella, è ver, ma impudica e senza
fede.
Pur ti conforta; chè per te son io
A tutto far disposto. Io sotto i
muri
Lagrimosi di Troia a tua preghiera
Già col Xanto pugnai, quando
spumoso
Co’ vortici ei respinse il divo
Achille,
Che di sangue troian gonfio lo
fea;
E i salci gli avvampai, gli olmi,
i cipèri
E l’alghe e le mirici in larga
copia
Cresciute intorno alla sua verde
ripa.
Or pensa se vorrò non adempire,
Di Giove in onta, il tuo desir, di
Giove
Mio nemico del par che tuo
tiranno.
Ti rammenta quel dì che fra voi
surta
Su l’Olimpo contesa, avventurarmi
In tuo soccorso io volli. Egli
d’un piede
M’afferrò furibondo, e fuor del
cielo
Arrandellommi per l’immenso vòto.
Intero un giorno rovinai col capo
In giù travolto, e con rapide rote
Vertiginose. Semivivo alfine
In Lenno caddi col cader del sole:
E chi sa quante in quell’alpestre
balza
Lunghe e dure m’avrei doglie
sofferte,
Se Eurinome, la bella Ocëanina,
E l’alma Teti doloroso e rotto
Non m’accogliean pietose in cavo
speco,
A cui spumante intorno ed infinita
D’Oceàn la corrente mormorava.
Ivi per tema del crudel mi vissi
Quasi due lustri sconosciuto e
oscuro
Fabbro d’armille e di fermagli e
d’altre
Opre al mio senno inferïori e
vili.
Or i tuoi torti, o madre, io lo
prometto,
E in uno i miei vendicherò: poi
venga,
Se il vuol, qua dentro a
spaventarmi questo
Seduttor di fanciulle
onnipossente,
Ingiusto padre ed infedel marito:
Vedrem che vaglia del suo carro il
tuono
Senza il fulmine mio, senza l’aita
Del mio martello. In così dir
l’irato
Dio sulla mazza con la man battea:
Poi gittolla in disparte, e corse
ad una
Delle fornaci. All’infocate brage
Appressò le tanaglie: una ne
trasse
D’inestinguibil tempra, e in cavo
rame
L’imprigionò. Di cotal pèste
carchi,
Della spelonca uscîr Vulcano e
Giuno,
Quai fameliche belve che di notte
Lascian la tana, e taciturne e
crude
Van nell’ovile a insanguinar
l’artiglio.
Della squallida grotta in su
l’uscita
Di rugiadose stille allor raccolte
Dalle rose di Pesto Iri coperse
La sua reina, e, con ambrosia il
divo
Corpo lavando, ne deterse il fumo
Ed ogni tristo odor.
Dagl’immortali
Capelli della dea quante sul suolo
Caddero gocce del licor celeste,
Tante nacquer vïole ed asfodilli.
Mosse, ciò
fatto, la tremenda coppia
Circondata di nembi; e come lampo
Che solca il sen della materna
nube
Con sì rapido vol, che la pupilla
Per quella riga a seguitarlo è
tarda,
Tal di Giuno e Vulcano è la
prestezza.
Su la vetta calâr precipitosi
Delle rupi setine, onde la faccia
Scopriasi tutta del sommerso
piano.
Guarda, disse Giunon riguarda, o
figlio,
Di mia vendetta le primizie. E in
questo
Gli mostrava l’orribile palude
Da freschi venti combattuta e
crespa,
Mentre i raggi del sol volti
all’occaso
Scorrean vermigli su l’incerto
flutto;
Del Sole, che parea dall’empia
vista
Fuggir pietoso, e dietro ai colli
albani
Pallida e mesta raccogliea la
luce.
Già moría sulle
cose ogni colore,
E terra e ciel tacea, fuor che del
mare
L’incessante muggito; allor che
pronto
Il fatal vase scoperchiò Vulcano,
E all’aura scintillar la rubiconda
Bragia ne fece. Ne sentiro il
puzzo
I sotterranei zolfi e le piriti
E gli asfalti oleosi, e, dal
segreto
Amor sospinti, che tra loro i
corpi
Lega e l’un l’altro a desiar
costrigne,
Ne concepîr meraviglioso affetto,
E di salso umidor pasciuti e
pingui
Si fermentaro, ed esalâr di sopra
Improvvisa mefite. E pria le nari
Ne fûr de’ bruti e de’ volanti
offese,
Che tosto piene le contrade e i
campi
Fêr di lunghi stridori e di
lamenti.
N’ulularono i boschi e le caverne,
E tutti intorno paurosi i fonti
N’ebber senso d’orror. Corrotte
allora
La prima volta la caronie linfe
Mandâr l’alito rio, che tetro
ancora
Spira, e infamato avvicinar non
lascia
Nè greggia nè pastor. L’almo
ruscello
Di Feronia turbossi, e amare e
sozze
Dalla pietra natía spinse le polle
Sì dolci in prima e cristalline. E
Alcone,
Pastor canuto, che v’avea sul
margo
Il suo rustico tetto, a sé
chiamando
Su l’uscio i figli, e il mar, le
selve, il cielo
Esaminando, e palpitando: — Oh! —
disse
Noi miseri, che fia? Mirate in
quale
Fier silenzio sepolta è la natura!
Non stormisce virgulto, aura non
muove,
Che un crin sollevi della fronte:
il rivo,
Il sacro rivo di Feronia anch’esso
Ve’ come sgorga lutulento, e fugge
Con insolito pianto, e là Melampo,
Che in mezzo del cortil mette
pietosi
Ululati, e da noi par che rifugga,
E a sé ne chiami. Ah chi sa quai
sventure
L’amor suo n’ammonisce e la sua
fede!
Poniamo, o figli, le ginocchia a
terra;
Supplichiamo agli dèi, che certo
in ira
Son co’ mortali. — Avea ciò detto
appena,
Che tingersi mirò l’aria in
sanguigno,
E cupo un rombo propagossi. Il
rombo
Venìa dall’opra di Vulcan, che
ratto
La montagna esplorando, ove più
vivo
Con lo spesso odorar sentìa
l’effluvio
De’ commossi bitumi, entro un
immane
Fendimento di rupi era disceso,
Buio baratro immenso, a cui di
zolfi
Ferve in mezzo e d’asfalti un
bulicame
Che in cento rivi si dirama, e
tutte
Per segreti cunicoli e sentieri
Pasce le membra degl’imposti
monti.
In questa di tremuoti atra
officina
Lasciò cader Mulcibero l’ardente
Irritato carbone. In un baleno
Fiammeggiò la vorago, e scoppi e
tuoni
E turbini di fumo e di faville
Avvolser tutto l’incombusto dio.
Più veloce dell’ali del pensiero
Per le sulfuree vie corse la
fiamma
Licenziosa, ed abbracciò le
immense
Ossa de’ monti, e delle valli i
fianchi,
E d’Anfitrite i gorghi. Allor dal
fondo
Senza vento sospinti in gran
tempesta
Saltano i flutti: ondeggiano le
rupi,
E scuotono dal dosso le castella
E le svelte cittadi. Addolorata
Geme la terra, che snodar si sente
Le viscere, e distrar le sue gran
braccia.
E tu, padre di mille incliti
fiumi,
E di due mari nutritor, crollasti,
O nimboso Appennin, l’alte tue
cime;
E spezzata temesti la catena
Che i tuoi gioghi all’estreme Alpi
congiugne;
Siccome il dì, che col tridente
eterno
Percotendo i tuoi fianchi, il re
Nettuno,
A tutta forza dall’esperio lido
Il siculo divise, e in mezzo
all’onde
Procida spinse ed Ischia e
Pitecusa.
Pluto istesso balzò forte
atterrito,
Dal suo lurido trono, e, visti
intorno
Crollar di Dite i muri e le
colonne
(Chè dritto a piombo su l’inferna
vôlta
Il tremoto ruggía), levò lo
sguardo,
E vïolato dalla luce il regno
De’ morti paventò. Stupore
aggiunse
L’improvviso nitrito e calpestìo
De’ suoi neri cavalli, che, le
regie
Stalle intronando, inferocian da
strano
Terror percossi, e le morate
giubbe
E le briglie scuotean, foco
sbuffando
Dalle larghe narici; infin che
desta
A quel romor Proserpina, la bella
D’Averno imperatrice (che sovente
Prendea diletto con le rosee dita
Porger loro di Stige il saporoso
Melagrano divino), ad acchetarli
Corse, e per nome li chiamò,
palpando
Soavemente di que’ feri il petto
Con le palme amorose. Uscito
intanto
Era Vulcan dalla tremenda buca
Lieto dell’opra, e con piacer
crudele
Contemplava la polve e il denso
fumo
Delle svelte città. Giace Mugilla,
E la ricca di pampani e d’olivi
Petrosa Ecètra, e la turrita
Artena,
E l’illustre per salda intatta
fede
Erculea Norba, a cui di cento
greggi
Biancheggiavano i colli. E tu
cadesti,
Cora infelice, e nelle tue ruine
Le ceneri perîr sante del primo
Ausonio padre, nè potêr giovarti
Di Dardano i Penati, nè degli almi
Figli di Leda la propizia stella,
Che all’aprico tuo suol dolce
ridea.
Voi sole a terra non andaste, o
sacre
Ansure mura; chè di Giove amica
Vi sostenne la destra, e la caduta
Non permise dell’ara, ove tremenda
Riposava la folgore divina.
Sentì di voi pietade il dio, di
voi,
E non sentilla delle bianche
chiome
D’Alcon, d’Alcone il più giusto,
il più pio
Dell’ausonia contrada. Umilemente
Al suol messo il ginocchio, il
venerando
Veglio tenea levate al ciel le
palme;
E a canto in quel medesmo atto
composti
Gli eran due figli in vista sì
pietosa,
Che fatto avia clementi anco le
rupi,
Quando venne un tremor che
vïolento
Crollò la casa pastorale, e tutta
In un súbito, ahi! tutta ebbe
sepolta
L’innocente famiglia. Unico volle
La ria Parca lasciar Melampo in
vita,
Raro di fede e d’amistade esempio.
Ei, rimasto a plorar su la rovina,
Fra le macerie ricercando a lungo
Andò col fiuto il suo signor
sepolto,
Immemore del cibo, e le notturne
Ombre rompendo d’ululati e pianti:
Finchè quarto egli cadde, e non
gl’increbbe,
Più dal dolor che dal digiuno
ucciso.
Fortunato Melampo! se qualcuna
Leggerà questi carmi alma cortese,
Spero io ben che n’andrà mesta e
dolente
Sul tuo fin miserando. Il tuo bel
nome
Ne’ posteri sarà quello de’ veltri
Più generosi; e noi malvagia
stirpe
Dell’audace Giapeto, a cui
peggiori
I figli seguiran, noi dalle belve
La verace amicizia apprenderemo.
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