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Vincenzo Monti
Poesie

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  • PARTE III POEMETTI
    • La Feroniade
      • CANTO SECONDO
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CANTO SECONDO

 

Già tutto di Feronia era il bel regno

In orrenda converso atra palude,

Che pelago parea; se non che rara

Dell’ardue torri e dell’aeree querce,

Non vinte ancor, l’interrompea la cima.

E già su le placate onde leggieri

Spiravano i favonii, e in curvi solchi

Arandole frangean sovra le molli

Crespe dell’acque la saltante luce:

Quando di Circe la scoscesa balza

L’aspra Giuno salì. L’occhio rivolse

Alla vasta laguna, e, tutta intorno

La misurando con superbo sguardo,

Sorrise acerba su la sua vendetta.

Ma, vista su la rupe in lontananza

Dall’incremento delle spume ultrici

Pur anco intatta alzar la fronte alcuna

Delle volsche città, che ree del culto

Dell’abborrita sua rival si fêro,

Ed illeso agitar l’argute frondi

Non lungi il bosco di Feronia, il bosco

Che prestò l’ombra ai mal concessi amori,

Risorger si sentì l’ire nel petto

Già moribonde: e poi che v’ebbe alquanto

Fisso il torbido sguardo, in cordisse:

Io desister dall’opra, e del mio scorno

Patir che resti un monumento ancora?

Già non fui sì pietosa inverso Egina

E la stirpe di Cadmo abbominata:

Chè per quella mandai carca di fiera

Pèste la morte su l’enopia terra;

E sostenni per questa entro le case

Scendere io stessa dell’eterno pianto,

E di contra d’Atamante e d’Ino

Tisifone invocar. Quei due superbi

Cosonori serpenti ella percosse,

E allor nel figlio dispietate e crude

Fur le mani paterne, e de’ suoi vanti

Ino furente mi scontò l’offesa.

E pur avola a Bacco era colei,

E a Venere nipote; e non m’avea,

Come questa malnata itala druda,

Tolti i miei dritti, e del maggior de’ numi

Aspirato alle nozze. Oh mia vergogna!

Potè Gradivo la feroce schiatta

Sterminar de’ Lapiti: aver da Giove

Potè Diana al suo disdegno in preda

I Calidonii: e meritò poi tanto

De’ Calidòn la colpa e de’ Lapiti?

Ed io, progenie di Saturno, ed alta

De’ celesti reina, a mezzo corso

Ratterrò gli odi e l’ire, e dovrò tutte

Non consumarle? Oh mel contrasta il fato!

E una fama pur or s’è sparsa in cielo,

Che al volgere de’ lustri il senno e l’opra

D’italici potenti al mio furore

E all’impero dell’onde questi campi

Ritoglierà. Ritolgali: men giusta

O men dolce uscirà forse per questo

La mia vendetta? Se cangiar non lice

Delle Parche il decreto, e chi ne vieta

L’indugiarlo, e tentar nuove ruine?

Del tuo delitto dolorose e care

Le pene pagherai, ninfa superba:

Anche il Lazio s’avrà la sua Latona.

Non selva lascerò, non antro alcuno

Che ti riceva; scuoterò le rupi;

Crollerò le città dal tuo vil nume

Contaminate, e ne farò di tutte

Cenere e polve che disperda il vento.

Nel turbato pensier seco volgendo

Queste cose la dea, giunse d’un volo

Nell’eolie spelonche, orrendo albergo

Degli adusti Ciclopi e di Vulcano.

Stava questo dell’arti arbitro sommo

Intento a fabbricar per la pudica

Nemorense Dïana un d’oro e bronzo

Gran piedestallo, su cui l’alma effigie

Collocar della diva. E sulle quattro

Fronti v’avea l’artefice divino

D’ammirando lavoro impresse e sculte

Di quell’almo paese avventurato

Le trascorse memorie e le future.

Era a vedersi da una parte il lago

Tutto d’argento. Tremolar diresti

L’onde e rotte spumar dai bianchi petti

Delle caste Amnisídi, a cui venute

Già son men care le gargafie fonti,

E d’Eurota le sponde. In su la riva

Della sacra laguna abbandonati

Giaccion gli archi e le frecce, onde famosi

Suonâr di caccia fragorosa un giorno

Del Taïgeto e d’Erimanto i boschi,

Ed or la nemorense ne rimbomba

E la selva aricina. Indi non lunge

Stassi il carro lunato, e per la rupe

Sciolte dal giogo le parrasie cerve

Erran pascendo il tenero trifoglio,

Gradita erbetta, che gradir suol anco

Ai destrieri di Giove, ed alle caste

Di Minerva cavalle polverose.

Alto a rimpetto, fra pudichi allori,

Di Trivia il tempio signoreggia; ed essa

La placabile diva in su la soglia

Del grande Atride ad incontrar vien oltre

I pellegrini figli, Ifigenía

Sacerdotessa ed il fratello Oreste,

Pietoso Oreste e scellerato insieme,

Che per molti del mare e della terra

Duri perigli salvo le recavano

Il fatal simulacro insanguinato

Dalle tauriche sponde alle tirrene.

In altro lato avea l’ignipotente

Sculti i novelli sagrifici e l’are

Di Dïana cruente, e i lagrimosi

Riti latini, e un contro l’altro armati

Di barbaro coltello i sacerdoti.

Mirasi altrove il miserando caso

Del figliuol di Tesèo. Gonfiata ed aspra

Spandeasi d’oro con argentee spume

La corinzia marina, a cui dal mezzo

Uscía sbuffando una cerulea foca.

E per orride balze ecco fuggire

Gli atterriti cavalli, ecco sul lido

Rovesciato dal carro e lacerato

L’innocente garzon. D’intorno al casto

Esangue corpo si batteano il petto

Di Trezene le vergini; e, chiamando

Crudel Ciprigna, e più crudel Nettuno,

Più ch’altre in pianto si struggea Diana.

Al pregar dell’afflitta indi seguía

D’Esculapio il prodigio e l’ardimento,

Che, vïolato delle Parche il dritto,

Col poter della muta arte paterna

Torna il pudico giovinetto in vita

Cui, redivivo, e in densa nube avvolto,

Con mutati sembianti all’aricine

Selve poi reca la deliaca diva,

E palpitando alla segreta cura

Il commette d’Egeria, inclita ninfa

Delle leggi romane inspiratrice.

S’apría di nero cïanèo scolpita

Nel fianco della rupe una spelonca

Sacra di Pindo alle fanciulle, e cara

Più che l’antro cirrèo. Le serpe intorno

Con tortuoso piede una vivace

Edera d’oro, ed un ruscello in mezzo

Di purissimo elettro. Ivi furtivo

D’Egeria ai santi fortunati amplessi

(Chè di tanto fu degno) il successore

Di Romolo traeva. Ivi le scese

Leggi dal cielo ricevea sul labbro

Della diva consorte; e ai mansueti

Genii di pace traducea le genti

Col favor delle Muse, e di quel grande

Spirto divin che del troiano Euforbo

Pria la spoglia animò, poscia, migrando

Di corpo in corpo, la famosa salma

Del samio saggio ad informar pervenne,

E di Crotone empièo le mute scuole

Del saper dell’Assiria e dell’Egitto.

V’era una balza dall’opposta fronte,

Che al bel lago sovrasta, orrendo nido

Di crude belve un tempo e di colubri,

Ed or vasta, ridente, aprica scena

Di lieti ulivi. Tra le verdi file

De’ cecropii arboscelli alteramente

Minerva procedea, che del novello

Conquistato terren prendea diletto,

E con l’alta virtù, che dagli sguardi

E dall’alma presenza esce de’ numi,

Liete facea le piante e delle pingui

Bacche oleose nereggianti i rami.

L’accompagnava maestoso e bello

Alla manca un signor d’alta fortuna,

Che con raro consiglio ed ardimento

Dell’antico orror suo già spoglia avea

L’indocile montagna, e le ritrose

Alpestri glebe all’ostinata cura

Del pio cultore ad obbedir costrette:

Mentre all’ombra d’un’elce, e all’ozio in seno,

Che il suo signor gli ha fatto, anzi il suo dio,

Un poeta non vil l’aspre vicende

Di Feronia cantava, e per sentiero

Non calcato traea l’itale muse.

All’ultimo con raro magistero

L’indomito Vulcan v’avea scolpita

Una dolente giovinetta madre,

Che, con ambe le mani al crin facendo

Dispetto ed onta, su la fredda spoglia

Di tre figli piangea tolti alla poppa.

Taciturna e dimessa il padre Tebro

Volgea qui l’onda: su la mesta riva

Ploravano le ninfe, e al Vaticano

Una nube di duol copría la fronte.

Lagrime tante alfin, tanti sospiri

Faceano forza al ciel, finchè la santa

Madre d’Amore a consolar la donna

Dal terzo cerchio le piovea nel grembo

De’ fecondi suoi raggi il quarto frutto.

Siccome vaga tremula farfalla

Scendea quell’alma, e nel materno seno

L’avventurosa si venía vestendo

Di sì lucido vel, ch’altro non fece

Mai più bell’ombra a più leggiadro spirto.

Al felice natal presenti avea

Sculte il fabbro le Grazie, inclite dive,

Senza il cui nume nulla cosa è bella.

V’era Lucina, a cui fûr date in cura

Della vita le porte; eravi Giuno

De’ talami custode; e di Latona

L’alma figlia pur v’era, a cui dolenti

S’odon nel parto sospirar le spose;

E in disparte frattanto un aureo stame

Al fatal fuso ravvolgean le Parche.

Delle rugose antiche dee son tutte

Di pallidoro le tremende facce,

E d’argento le chiome e i vestimenti.

Del narciso d’Averno incoronate

Van le rigide fronti, e un cotal misto

Mandan di riverenza e di paura,

Che l’occhio ne stupisce, e il cor ne trema.

Dell’industre Vulcan l’opra tal era,

Mirabile, immortale. Affumicato

E in gran faccenda l’indefesso iddio,

Di qua di scorrea per la fucina,

Visitando i lavori, e rampognando

I neghittosi: con le larghe pale

Altri il carbon nelle fornaci infonde

Scintillanti e ruggenti: altri con rozze

Cantilene molcendo la fatica,

il fiato e il toglie ai mantici ventosi,

Che trenta ve n’avea di ventre enormi:

Qual su l’incude le roventi masse

Del metallo castiga, e qual le tuffa

Nella fredda onda, che gorgoglia e stride.

Rimbomba la caverna, e dalle fronti

Di quei fieri garzoni in larga riga

Va il sudor per le gote e le mascelle

Sui gran petti pelosi. In questo mezzo

S’appresentò la veneranda Giuno

Nella negra spelonca, e parve il fulgido

Volto del Sole che fra dense nubi

Improvviso si mostra. E Bronte, il primo

Che la vide venir, diè segno agli altri

Di sostarsi e cessar per lo rispetto

Della moglie di Giove. Udì Vulcano

Della madre l’arrivo, e frettoloso,

Fra tanaglie e martelli e sgominate

Di metalli cataste zoppicando,

Le corse incontro; e presala per mano,

Di fuliggine tutta le ne tinse

La bianca neve. Prestamente quindi

Le trasse innanzi un elegante seggio,

Che d’oro avea le sponde, e lo sgabello

Di liscio cassitèro, ove la diva

Posò l’eburnee piante; e, così stando,

Di sua venuta le cagioni espose.

E primamente lamentossi a lungo

Dell’adultero Giove; alle cui voglie

Poco essendo la Grecia, ancor ripiena

De’ suoi muggiti e de’ suoi nembi d’oro,

E per tante or di cigno or di serpente,

E di zampe caprigne ed altre vili

Frodi d’amor contaminata e guasta,

Or ne venía d’Italia anco le belle

Spiagge a bruttar de’ suoi lascivi ardori,

Della moglie dimentico e del cielo.

E qui fe’ conta del fanciullo imberbe

La mentita sembianza, e i conceduti

Di Feronia complessi, e come assunta

Al concilio de’ numi era la druda;

E seguì, che per questo ella d’Olimpo

Lasciato avea le mense, e le cortine

De’ talami celesti, e che desío

Sol di vendetta la traea de’ Volsci

Vagabonda sul lido, ove già rotti

I primi sdegni avea, con alta mole

D’acque coprendo le pomezie valli

E le cittadi alla rival devote;

Ma non tutte però; chè salva alcuna

N’avean dall’onde le montagne intorno.

Quindi ben paga non andar, se tutto

Non abbatte, non guasta, non diserta

L’abborrito paese. Or prendi, o figlio,

Dell’eterno tuo foco una favilla;

Sveglia i tremoti, che ozïosi e pigri

Dormon nel fianco di quei monti; orrendo

Apri un lago di fiamme, ardi le rupi,

Struggi i campi e le selve; e più non chieggo.

Intento della madre alle parole

Stava Vulcano, ad una lunga mazza

Il cubito appoggiato; e, poi che Giuno

Al ragionar diè fine, in questi accenti

Sulle piante mal fermo egli rispose:

Ben io t’escuso, o madre, se di tanta

Ira t’accendi; chè d’amor tradito

Somma è la rabbia: ed io mel so per prova,

Io misero e deforme, e ancor più stolto,

Che bramai d’una diva esser marito

Bella, è ver, ma impudica e senza fede.

Pur ti conforta; chè per te son io

A tutto far disposto. Io sotto i muri

Lagrimosi di Troia a tua preghiera

Già col Xanto pugnai, quando spumoso

Covortici ei respinse il divo Achille,

Che di sangue troian gonfio lo fea;

E i salci gli avvampai, gli olmi, i cipèri

E l’alghe e le mirici in larga copia

Cresciute intorno alla sua verde ripa.

Or pensa se vorrò non adempire,

Di Giove in onta, il tuo desir, di Giove

Mio nemico del par che tuo tiranno.

Ti rammenta quel che fra voi surta

Su l’Olimpo contesa, avventurarmi

In tuo soccorso io volli. Egli d’un piede

M’afferrò furibondo, e fuor del cielo

Arrandellommi per l’immenso vòto.

Intero un giorno rovinai col capo

In giù travolto, e con rapide rote

Vertiginose. Semivivo alfine

In Lenno caddi col cader del sole:

E chi sa quante in quell’alpestre balza

Lunghe e dure m’avrei doglie sofferte,

Se Eurinome, la bella Ocëanina,

E l’alma Teti doloroso e rotto

Non m’accogliean pietose in cavo speco,

A cui spumante intorno ed infinita

D’Oceàn la corrente mormorava.

Ivi per tema del crudel mi vissi

Quasi due lustri sconosciuto e oscuro

Fabbro d’armille e di fermagli e d’altre

Opre al mio senno inferïori e vili.

Or i tuoi torti, o madre, io lo prometto,

E in uno i miei vendicherò: poi venga,

Se il vuol, qua dentro a spaventarmi questo

Seduttor di fanciulle onnipossente,

Ingiusto padre ed infedel marito:

Vedrem che vaglia del suo carro il tuono

Senza il fulmine mio, senza l’aita

Del mio martello. In così dir l’irato

Dio sulla mazza con la man battea:

Poi gittolla in disparte, e corse ad una

Delle fornaci. All’infocate brage

Appressò le tanaglie: una ne trasse

D’inestinguibil tempra, e in cavo rame

L’imprigionò. Di cotal pèste carchi,

Della spelonca uscîr Vulcano e Giuno,

Quai fameliche belve che di notte

Lascian la tana, e taciturne e crude

Van nell’ovile a insanguinar l’artiglio.

Della squallida grotta in su l’uscita

Di rugiadose stille allor raccolte

Dalle rose di Pesto Iri coperse

La sua reina, e, con ambrosia il divo

Corpo lavando, ne deterse il fumo

Ed ogni tristo odor. Daglimmortali

Capelli della dea quante sul suolo

Caddero gocce del licor celeste,

Tante nacquer vïole ed asfodilli.

Mosse, ciò fatto, la tremenda coppia

Circondata di nembi; e come lampo

Che solca il sen della materna nube

Con sì rapido vol, che la pupilla

Per quella riga a seguitarlo è tarda,

Tal di Giuno e Vulcano è la prestezza.

Su la vetta calâr precipitosi

Delle rupi setine, onde la faccia

Scopriasi tutta del sommerso piano.

Guarda, disse Giunon riguarda, o figlio,

Di mia vendetta le primizie. E in questo

Gli mostrava l’orribile palude

Da freschi venti combattuta e crespa,

Mentre i raggi del sol volti all’occaso

Scorrean vermigli su l’incerto flutto;

Del Sole, che parea dall’empia vista

Fuggir pietoso, e dietro ai colli albani

Pallida e mesta raccogliea la luce.

Già moría sulle cose ogni colore,

E terra e ciel tacea, fuor che del mare

L’incessante muggito; allor che pronto

Il fatal vase scoperchiò Vulcano,

E all’aura scintillar la rubiconda

Bragia ne fece. Ne sentiro il puzzo

I sotterranei zolfi e le piriti

E gli asfalti oleosi, e, dal segreto

Amor sospinti, che tra loro i corpi

Lega e l’un l’altro a desiar costrigne,

Ne concepîr meraviglioso affetto,

E di salso umidor pasciuti e pingui

Si fermentaro, ed esalâr di sopra

Improvvisa mefite. E pria le nari

Ne fûr de’ bruti e de’ volanti offese,

Che tosto piene le contrade e i campi

Fêr di lunghi stridori e di lamenti.

N’ulularono i boschi e le caverne,

E tutti intorno paurosi i fonti

N’ebber senso d’orror. Corrotte allora

La prima volta la caronie linfe

Mandâr l’alito rio, che tetro ancora

Spira, e infamato avvicinar non lascia

greggia pastor. L’almo ruscello

Di Feronia turbossi, e amare e sozze

Dalla pietra natía spinse le polle

dolci in prima e cristalline. E Alcone,

Pastor canuto, che v’avea sul margo

Il suo rustico tetto, a sé chiamando

Su l’uscio i figli, e il mar, le selve, il cielo

Esaminando, e palpitando: — Oh! — disse

Noi miseri, che fia? Mirate in quale

Fier silenzio sepolta è la natura!

Non stormisce virgulto, aura non muove,

Che un crin sollevi della fronte: il rivo,

Il sacro rivo di Feronia anch’esso

Ve’ come sgorga lutulento, e fugge

Con insolito pianto, e Melampo,

Che in mezzo del cortil mette pietosi

Ululati, e da noi par che rifugga,

E a sé ne chiami. Ah chi sa quai sventure

L’amor suo n’ammonisce e la sua fede!

Poniamo, o figli, le ginocchia a terra;

Supplichiamo agli dèi, che certo in ira

Son comortali. — Avea ciò detto appena,

Che tingersi mirò l’aria in sanguigno,

E cupo un rombo propagossi. Il rombo

Venìa dall’opra di Vulcan, che ratto

La montagna esplorando, ove più vivo

Con lo spesso odorar sentìa l’effluvio

De’ commossi bitumi, entro un immane

Fendimento di rupi era disceso,

Buio baratro immenso, a cui di zolfi

Ferve in mezzo e d’asfalti un bulicame

Che in cento rivi si dirama, e tutte

Per segreti cunicoli e sentieri

Pasce le membra degl’imposti monti.

In questa di tremuoti atra officina

Lasciò cader Mulcibero l’ardente

Irritato carbone. In un baleno

Fiammeggiò la vorago, e scoppi e tuoni

E turbini di fumo e di faville

Avvolser tutto l’incombusto dio.

Più veloce dell’ali del pensiero

Per le sulfuree vie corse la fiamma

Licenziosa, ed abbracciò le immense

Ossa de’ monti, e delle valli i fianchi,

E d’Anfitrite i gorghi. Allor dal fondo

Senza vento sospinti in gran tempesta

Saltano i flutti: ondeggiano le rupi,

E scuotono dal dosso le castella

E le svelte cittadi. Addolorata

Geme la terra, che snodar si sente

Le viscere, e distrar le sue gran braccia.

E tu, padre di mille incliti fiumi,

E di due mari nutritor, crollasti,

O nimboso Appennin, l’alte tue cime;

E spezzata temesti la catena

Che i tuoi gioghi all’estreme Alpi congiugne;

Siccome il , che col tridente eterno

Percotendo i tuoi fianchi, il re Nettuno,

A tutta forza dall’esperio lido

Il siculo divise, e in mezzo all’onde

Procida spinse ed Ischia e Pitecusa.

Pluto istesso balzò forte atterrito,

Dal suo lurido trono, e, visti intorno

Crollar di Dite i muri e le colonne

(Chè dritto a piombo su l’inferna vôlta

Il tremoto ruggía), levò lo sguardo,

E vïolato dalla luce il regno

De’ morti paventò. Stupore aggiunse

L’improvviso nitrito e calpestìo

De’ suoi neri cavalli, che, le regie

Stalle intronando, inferocian da strano

Terror percossi, e le morate giubbe

E le briglie scuotean, foco sbuffando

Dalle larghe narici; infin che desta

A quel romor Proserpina, la bella

D’Averno imperatrice (che sovente

Prendea diletto con le rosee dita

Porger loro di Stige il saporoso

Melagrano divino), ad acchetarli

Corse, e per nome li chiamò, palpando

Soavemente di que’ feri il petto

Con le palme amorose. Uscito intanto

Era Vulcan dalla tremenda buca

Lieto dell’opra, e con piacer crudele

Contemplava la polve e il denso fumo

Delle svelte città. Giace Mugilla,

E la ricca di pampani e d’olivi

Petrosa Ecètra, e la turrita Artena,

E l’illustre per salda intatta fede

Erculea Norba, a cui di cento greggi

Biancheggiavano i colli. E tu cadesti,

Cora infelice, e nelle tue ruine

Le ceneri perîr sante del primo

Ausonio padre, potêr giovarti

Di Dardano i Penati, degli almi

Figli di Leda la propizia stella,

Che all’aprico tuo suol dolce ridea.

Voi sole a terra non andaste, o sacre

Ansure mura; chè di Giove amica

Vi sostenne la destra, e la caduta

Non permise dell’ara, ove tremenda

Riposava la folgore divina.

Sentì di voi pietade il dio, di voi,

E non sentilla delle bianche chiome

D’Alcon, d’Alcone il più giusto, il più pio

Dell’ausonia contrada. Umilemente

Al suol messo il ginocchio, il venerando

Veglio tenea levate al ciel le palme;

E a canto in quel medesmo atto composti

Gli eran due figli in vistapietosa,

Che fatto avia clementi anco le rupi,

Quando venne un tremor che vïolento

Crollò la casa pastorale, e tutta

In un súbito, ahi! tutta ebbe sepolta

L’innocente famiglia. Unico volle

La ria Parca lasciar Melampo in vita,

Raro di fede e d’amistade esempio.

Ei, rimasto a plorar su la rovina,

Fra le macerie ricercando a lungo

Andò col fiuto il suo signor sepolto,

Immemore del cibo, e le notturne

Ombre rompendo d’ululati e pianti:

Finchè quarto egli cadde, e non gl’increbbe,

Più dal dolor che dal digiuno ucciso.

Fortunato Melampo! se qualcuna

Leggerà questi carmi alma cortese,

Spero io ben che n’andrà mesta e dolente

Sul tuo fin miserando. Il tuo bel nome

Ne’ posteri sarà quello de’ veltri

Più generosi; e noi malvagia stirpe

Dell’audace Giapeto, a cui peggiori

I figli seguiran, noi dalle belve

La verace amicizia apprenderemo.

 




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