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Vincenzo Monti
Poesie

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  • PARTE III POEMETTI
    • La Feroniade
      • CANTO TERZO
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CANTO TERZO

 

All’ardua cima del sereno Olimpo

Risalía Giove intanto, e ad incontrarlo

Accorrean presti e riverenti i numi

Su le porte del cielo. In mezzo a tutti,

In due schierate taciturne file,

Maestoso egli passa; a quella guisa

Che suol, calando al pallido occidente,

Passar tra i verecondi astri minori

D’Iperïone il luminoso figlio,

Quando dall’arsa eclittica il gran carro

Della luce ritira, e l’Ore ancelle

Sciolgono dal timon bianco di spuma

I fumanti cavalli. Ai sacri alberghi

Dell’aurea reggia rispettosi i divi

Accompagnâr l’onnipotente; e giunti

Al grande limitar, per medesme

Si spalancâr sui cardini di bronzo

Le porte d’oro, che uno spirto move

Intrinseco e possente: e tale intorno

Nell’aprirsi mandâr cupo un ruggito,

Che tutto ne tremò l’alto convesso.

Ivi in parte segreta, a cui nessuno

Non ardisce appressar degli altri eterni

(Fuor che le meste e querule Preghiere,

Che libere pel ciel scorrono, e al nume

Portano i voti degli oppressi e il pianto),

L’egioco padre in gran pensier s’assise

Sovra il balzo d’Olimpo il più sublime.

Contemplava di giusto e pietoso

De’ mortali gli affanni e le fatiche:

Mirò d’Ausonia i campi, e la pontina

Valle in orrendo pelago conversa;

Mirò per tutto (miserabil vista!)

Le sue tante cittadi, altre sommerse,

Altre per forza di tremuoto svelte

Dalle ondeggianti rupi, e la catena,

Donde pendon la terra e il mar sospesi,

Scuotersi ancora, ed oscillar commossa

Dalla tremenda di Vulcan possanza.

Ciò tutto contemplando in suo segreto,

Non fu tardo a veder che tanto eccesso,

Tanta rovina saría poco all’ira

Della fiera consorte. In compagnia

Del potente de’ fuochi egli la vide

Verso la sacra selva incamminarsi,

Ove Feronia nel maggior suo tempio

Di vittime, d’incensi e di ghirlande

Dalle genti latine avea tributo.

Di Giuno ei quindi antivedendo il nuovo

Scellerato disegno, a chiamato

Di Maia il figlio, esecutor veloce

De’ suoi cenni, gli fe’ queste parole:

Nuove furie gelose, o mio fedele,

Hanno turbato alla mia sposa il petto;

E quai del suo rancor già sono usciti

Senza misura lagrimosi effetti,

Non t’è nascoso. Un simulacro avanza

Dell’esule Feronia, un tempio solo

Di tanti che già n’ebbe; e questo ancora

Vuole al suolo adeguar la furibonda.

Or che consiglio è il suo? Stolta, che tenta?

Se rispettar le nostre ire non sanno

Le sante cose in terra, e i monumenti

Dell’umana pietà, chi de’ mortali

Sarà che più n’adori, e nella nostra

Divina qualità più ponga fede?

Prendi adunque sul mar tirreno il volo,

T’appresenta a Giunon carco de’ miei

Forti comandi. Con le fiamme assalga,

Se tanto è il suo disdegno, anco la selva

(Ch’ella a ciò si prepara, e consentire

Io le vo’ pur quest’ultima vendetta);

Ma, se l’empia oserà stender la destra

Alle sacre pareti, e vïolarne

Il fatal simulacro, alla superba

Tu superbo farai queste parole:

Fisso è nel mio volere (e per la stigia

Onda lo giuro) che l’achea contrada

Lasciar debbano i numi, e nell’opima

Itala terra stabilir più fermo,

Più temuto il lor seggio. Io le catene

Del mio padre Saturno ho già disciolte,

E l’offesa obbliai, che mi costrinse

A sbandirlo dal ciel. L’ospite suolo,

Che ramingo l’accolse e ascoso il tenne,

Sacro esser debbe, aver dato asilo

Di Giove al genitor senza mercede.

Dopo il beato Olimpo, in avvenire

Sia dunque Italia degli dèi la stanza:

E di parta un quanto valore

Della mente e del braccio in pace e in guerra

Farà suggetto il mondo, e quanta insieme

Civiltà, sapïenza e gentilezza

Renderanno l’umana compagnia

Dalle belve divisa, e minor poco

Della divina. A secondar l’eccelso

Proponimento mio già nello speco

Della rupe cumea mugge d’Apollo

La delfica cortina, ed esso il dio,

Dimenticata la materna Delo,

Ai dipinti Agatirsi ama preporre

Del Soratte gli scalzi sacerdoti.

Già la sorella sua di Cinto i gioghi

Lieta abbandona, e le gargafie fonti,

Del nemorense lago innamorata.

Alle sorti di Licia han tolto il grido

Le prenestine, e di Laurento i boschi

Tacer già fanno le parlanti querce

Della vinta Dodona. In su la spiaggia

D’Anzio diletta Venere trasporta

D’Amatunta i canestri, e Bacco e Vesta

E Cerere e Minerva e il re dell’onde

Son già numi latini. E alle latine

D’Elide l’are già posposi io stesso,

E sul Tarpeo recai dell’Ida i tuoni

E le procelle. Perocchè maturo

Già s’agita nell’urna il gran destino,

Che glorïosa dee fondar sul Tebro

La reina del mondo. Al sol bisbiglio

Che di lei fanno i tripodi cumani,

Tutta trema la terra: e già s’appressa

D’Anchise il pio figliuol, seco adducendo

D’Ilio i Penati, che faran nel Lazio

La vendetta di Troia, e spezzeranno

D’Agamennon lo scettro in Campidoglio.

Cotal de’ Fati è il giro; e disvïarlo

Tenta indarno Giunon: da Samo indarno

Porta alla sua Cartago il cocchio e l’asta

E l’argolico scudo, armi che un giorno

Fian concedute con miglior fortuna

Di Dardano ai nepoti, allor che Giuno

Per quella stessa regïon, su cui

Tanta mole di flutti ora sospinse,

Placata scorrerà del Lazio i lidi.

Ivi sull’ara Sospita le genti

L’invocheranno; ed ella, il fianco adorna

Delle pelli caprine, e dentro il fumo

De’ lanuvini sagrificii avvolta,

Tutti a mensa accorrà d’Ausonia i numi

Cortesemente, e porgerà di pace

A Feronia l’amplesso; onde già fatte

Entrambe amiche, toccheran le tazze

Propinando a vicenda, e in larghi sorsi

L’obblio beran delle passate cose.

Va dunque, e sì le parla. Il suo pensiero

Volga in meglio l’altera, e alle sue stanze

Rieda in Olimpo; chè l’andar vagando

Più lungamente in terra io le divieto.

E se niega obbedir, tu le rammenta

Le incudi un giorno al suo calcagno appese;

E dille che la man che ve le avvinse

Non ha perduta la possanza antica.

Disse; e Mercurio ad eseguir del padre

Il precetto s’accinse. E pria l’alato

Petaso al capo adatta ed alle piante

I bei talari, ond’ei vola sublime

Su la terra e sul mare, e la rattezza

Passa de’ venti. Impugna indi l’avvinta

Verga di serpi, prezïoso dono

Del fatidico Apollo il che a lui

L’argicida fratel cesse la lira:

Con questa verga, tutta d’oro, in vita

Ei richiama le morte alme, ed a Pluto

Mena le vive, ed or sopore infonde

Nell’umane pupille, ed or ne ’l toglie.

guernito, e con tal d’ali remeggio

Spiccasi a volo. Occhio mortal non puote

Seguitarne la foga; in men che il lampo

Guizza e trapassa, egli è già sceso, e preme

Il campano terreno, un nomato

Campo flegrèo, famosa sepoltura

De’ percossi Giganti. Intorno tutta

Manda globi di fumo la pianura,

Ed ogni globo dal gran petto esala

D’un fulminato. A fronte alza il Vesevo

Brullo il colmigno, ed al suo piè la dolce

Lagrima di Lieo stillan le viti.

Lieve lieve radendo il folgorato

Terren di Maia il figlio e la marina

Sorvolando, levossi all’erte cime

Della balza circèa, che di Feronia

Signoreggia la selva. Ivi fermossi,

Qual uom che tempo al suo disegno aspetta:

E, di dechinando il guardo attento

Al piano che s’avvalla spazïoso

Fra l’ánsure dirupo ed il circèo,

E tutto copre di Feronia il bosco,

A quella volta acceleranti il passo

Vide Giuno e Vulcano, armati entrambi

D’orrende faci, ed anelanti a nuova

Nefanda offesa. All’appressar di quelle

Vampe nemiche un lungo mise e cupo

Gemito la foresta: augelli e fiere,

A cui Natura, più che all’uom cortese,

Presentimento diè quasi divino,

Da subito terror compresi, i dolci

Nidi e i covili abbandonâr stridendo

E ululando smarriti, e senza legge

D’ogni parte fuggendo. I primi incendi

Eran già desti, e già di Giuno al cenno,

Già la sua fida messaggera e ancella

Verso Eolia battea preste le penne

Con prego ai venti di soffiar gagliardi

Dentro le fiamme, e promettendo pingui

In nome della dea vittime e doni;

Come il che d’Achille ai caldi voti,

Del morto amico gli avvampâr la pira.

Già stendendo venìa l’umida notte

Sul volto della terra il negro velo,

E in grembo al suo pastor Cinzia dormía;

Quando i figli d’Astreo con gran fracasso

Dall’ëolie spelonche sprigionati

S’avventâr su l’incendio, e per la selva

Senza freno lo sparsero. La vampa

Esagitata rugge, e dalla quercia

Si devolve su l’olmo e su l’abete:

Crepita il lauro; e le loquaci chiome

Stridono in capo al berecinzio pino,

A sfidar nato su gli equorei campi

D’Africo e d’Euro i tempestosi assalti.

Già tutta la gran selva è un mar di foco

E di terribil luce, a cui la notte

Spavento accresce, e orribilmente splende

Per lungo tratto la circèa marina;

Simigliante al Sigeo, quando gli eletti

Guerrier di Grecia del cavallo usciti

In faville mandâr d’Ilio le torri,

E atterrita la frigia onda si fea

Specchio al rogo di Troia; miserando

Di tanti eroi sepolcro e di tant’ire.

All’orrendo spettacolo il feroce

Cor di Giuno esultava; e impazïente

Di vendicarsi al tutto (chè suprema

Voluttà de’ potenti è la vendetta),

Un divampante tizzo alto agitando

E furïando, vola al gran delubro,

Ch’unico avanza della sua nemica,

Ferma in cor d’atterrarlo, incenerirlo,

E spegnere con esso ogni vestigio

Dell’abborrito culto. Armato ei pure

D’empia face Vulcan seguía non tardo

La fiera madre; e già le sacre soglie

Calcano entrambi: dai commossi altari

Già fugge la Pietà, fugge smarrita

La fede avvolta nel suo bianco velo:

Con vivo senso di terrore anch’esso

Si commosse il tuo santo simulacro,

O misera Feronia, e un doloroso

Gemito mise (meraviglia a dirsi!),

Quasi accusando d’empietade il cielo.

Ma del figliuol di Maia, a ciò spedito,

Non fu tarda l’aita in tanto estremo:

E, come stella che alle notti estive

Precipite labendo il cielo fende

Di momentaneo solco, e varatta,

Che l’occhio appena nel passar l’avvisa;

Non altrimenti il dio stretto nell’ali

Il sereno trascorse, e rilucente

Sul vestibolo sacro appresentossi.

All’improvvisa sua comparsa il passo

Stupefatti arrestâr Vulcano e Giuno,

E si turbâr vedendosi di fronte

Starsi ritto Mercurio, e imperïoso

Contro il lor petto le temute serpi

Chinar dell’aurea verga, e così dire:

Férmati, o diva; portator son io

Di severa ambasciata. A te comanda

L’onnipossente tuo consorte e sire

Di gettar quelle faci, e invïolata

Quest’effigie lasciar e queste mura.

Riedi alle stanze dell’Olimpo, e tosto:

Chè ti si vieta andar più lungamente

Vagando in terra, e funestar di stragi

Le contrade latine, a cui l’impero

Promettono del mondo il fato e Giove.

E di Giove e del fato a mano a mano

Qui le aperse i voleri, e il tempo e il modo

De’ futuri successi: e non diè fine

All’austero parlar, che ricordolle

Le incudi un giorno al suo calcagno appese,

E il braccio punitor, che non avea

Perduta ancora la possanza antica.

Cadde il tizzo di mano a quegli accenti

Al dio di Lenno, e tra le vampe e il fumo

Si dileguò; disse addio, parve

Aver mal fermo a pronta fuga il piede;

Ma con torvo sembiante e disdegnoso

Si ristette Giunon, chè rabbia e tema

Le stringono la mente; e par tra’ ferri

La generosa belva che gli orrendi

Occhi travolve, e il correttor flagello

Fa tremar nella man del suo custode.

Senza dir motto alfin volse le spalle,

E rotando in partir la face in alto,

Con quanta più poteo forza la spinse:

Vola il ramo infiammato, e di sanguigna

Luce un grand’arco con immensa riga

Segna per l’etra taciturno e scuro.

Il sidicino montanar v’affisse

Stupido il guardo, e sbigottissi, e un gelo

Corse per l’ossa al pescator d’Amsanto,

Quando sul capo ruinar sel vide,

E cader sibilando nella valle,

Ove suona rumor di fama antica,

Che del puzzo mortal, che ancor v’esala,

L’aria e l’onde corruppe, ed un orrendo

Spiraglio aperse, che conduce a Dite.

Come allor che su i nostri occhi Morféo

Sparger ricusa la letea rugiada,

D’ogni parte la mente va veloce,

E fugge e torna e slanciasi in un punto

Dall’aurora all’occaso, e dalla terra

Alla sfera di Giove e di Saturno;

Con tal prestezza si sospinse al cielo

La ritrosa Giunon. L’Ore custodi

Delle soglie d’empiro incontanente

Alla reina degli dèi le porte

Spalancâr dell’Olimpo, e la bionda Ebe,

Ilare il volto, e l’abito succinta,

Le corse incontro con la tazza in mano

Del nèttare celeste; ed ella un sorso

pur gustò dell’immortal bevanda;

Chè troppo d’amarezza e di rammarco

Avea l’anima piena. Onde con gli occhi

In giù rivolti e d’allegrezza privi,

a verun degli dèi, che surti in piedi

Erano, al suo passar, fatto un saluto,

Il passo accelerò verso i recessi

Del talamo divino; ed ivi entrata,

Serrò le porte rilucenti, e tutte

Ne furo escluse le fedeli ancelle.

Poichè sola rimase, al suo dispetto

Abbandonossi; lacerò le bende,

Ruppe armille e monili, e gettò lunge

La clamide regal che di sua mano

Tessè Minerva, e d’auree frange il lembo

Circondato n’avea. tu sicura

Da’ suoi furori andar potesti, o sacra

Alla beltade, inaccessibil ara,

Che non hai nome in cielo, e tra’ mortali

Da barbarico accento lo traesti,

Cui le Muse abborrîr. Cieca di sdegno

Ti ricercò la dea: cadde, e si franse

Con diverso fragor l’ampio cristallo,

Che in mezzo dell’altar sorgea sovrano

Maestoso e superbo; e in un confusi

N’andâr sossopra i vasi d’oro e l’urne

Degli aromi celesti e de’ profumi,

Onde tal si diffuse una fragranza,

Che tutta empiea la casa e il vasto Olimpo.

Mentre così l’ire gelose in cielo

Disacerba Giunon, quai sono in terra

Di Feronia le lagrime, i sospiri?

Ditelo, d’Elicona alme fanciulle,

Voi che l’opere tutte e i pensier anco

De’ mortali sapete e degli dei.

Poi che si vide l’infelice in bando

Cacciata dal natío dolce terreno,

D’are priva e d’onori, e dallo stesso

(Ahi sconoscenza!), dallo stesso Giove

Lasciata in abbandono, ella dolente

Verso i boschi di Trivia incamminossi,

E ad or ad or volgea lo sguardo indietro,

E sospirava. Sul piè stanco alfine

Mal si reggendo, e dalla lunga via,

E più dal duolo abbattuta e cadente,

Sotto un’elce s’assise: ivi facendo

Al volto letto d’ambedue le palme,

Tutta con esse si coprì la fronte,

E nascose le lagrime, che mute

Le bagnavan le gote, e le sapea

Solo il terren, che le bevea pietoso.

In quel misero stato la ravvolse

Dell’ombre sue la notte, e in sul mattino

Il sol la ritrovò sparsa le chiome,

E di gelo grondante e di pruina;

Perocchè per dolor posta in non cale

La sua celeste dignitade avea,

Onde al corpo divin l’aure notturne

Ingiurïose e irriverenti furo,

Siccome a membra di mortal natura.

Lica intanto, di povero terreno

Più povero cultor, dal letticciuolo

Era surto con l’alba, e del suo campo

Visitando venía le orrende piaghe,

Che fatte avean la pioggia, il ghiaccio, il vento

Agli arboscelli, ai solchi ed alle viti.

Lungo il calle passando, ove la diva

In quell’atto sedea, da meraviglia

Tocco, e più da pietà, chè fra le selve

Meglio che in mezzo alle cittadi alberga,

S’appressò palpitando, e la giacente

Non conoscendo (chè a mortal pupilla

Difficil cosa è il ravvisar gli dei),

Ma in lei della contrada argomentando

Una ninfa smarrita: O tu, chi sei,

Chi sei, (le disse), che sì care e belle

Hai le sembianze e dolor tanto in volto?

Per chi son queste lagrime? t’ha forse

Priva il ciel della madre o del fratello

O dell’amato sposo? chè son questi

Certo i primi de’ mali, onde sovente

Giove n’affligge. Ma del tuo cordoglio

Qual si sia la cagion, prendi conforto,

E pazïenza opponi alle sventure

Che ne mandano i numi: essi nemici

Nostri non son; ma col rigor talvolta

Correggono i più cari. Alzati, o donna;

Vieni, e t’adagia nella mia capanna,

Che non è lungi; e le forze languenti

Ivi di qualche cibo e di riposo

Ristorerai. La mia consorte poscia

Di tutto l’uopo ti sarà cortese;

Ch’ella è prudente, e degli afflitti amica,

E qual figlia ambedue cara t’avremo.

Alle parole del villan pietoso

S’intenerì la diva, e in cor sentissi

La doglia mitigar, tanta fra’ boschi

Gentilezza trovando e cortesia.

Levossi in piedi, ed ei le resse il fianco,

E la sostenne con la man callosa.

Nell’appressarsi, nel toccar ch’ei fece

Il divin vestimento, un brividío,

Un palpito lo prese, un cotal misto

Di rispetto, d’affetto e di paura,

Che parve uscir dei sensi, e su le labbra

La voce gli morì. Quindi il sentiero

Prese in ver la capanna, e il fido cane

Nel mezzo del cortil gli corse incontro:

Volea latrar; ma sollevando il muso,

E attonite rizzando ambe le orecchie,

Guardolla, e muto su l’impressa arena

Ne fiutò le vestigia. In questo mentre

Alla cara sua moglie Teletusa

Il buon Lica dicea: Presto sul desco

Spiega un candido lino, e passe ulive

Récavi e pomi e grappoli, che salvi

Dal morso abbiam dell’aspro verno, e un nappo

Di soave lambrusca, e s’altro in serbo

Tieni di meglio; chè mostrarci è d’uopo

Come più puossi liberali a questa

Peregrina infelice. — Allor spedita

Teletusa si mosse, e in un momento

Di cibo rustical coperse il desco,

Ed invitò la dea, la quale assisa

Sul limitar si stava, e immota e grave

L’infinito suo duol premea nel petto;

già tenne l’invito, chè mortale

Corruttibil vivanda non confassi

A palato immortal; ma ben di trito

Odoroso puleggio e di farina

D’acqua commisti una bevanda chiese,

Grata al labbro de’ numi, e l’ebbe in conto

Di sacra libagion. Forte di questo

Meravigliossi Teletusa, e, fiso

Di Feronia il sembiante esaminando

(Poichè al sesso minor diero gli dèi

Curïose pupille, e accorgimento

Quasi divin), sospetto alto la prese,

Che si tenesse in quelle forme occulta

Cosa più che terrena. Onde in disparte

Tratto il marito, il suo timor gli espose,

E creduta ne fu; chè facilmente

Cuor semplice ed onesto è persuaso.

Allor Lica narrò quel che poc’anzi

Assalito l’avea strano tumulto,

Quando a sorgere in piè le porse aita,

E con la mano le soffolse il fianco.

Poi, seguendo, di Bauci e Filemone

Rammentâr l’avventura, e quel che udito

Da’ vecchi padri avean, siccome ascoso

Fra lor nelle capanne e nelle selve

Stette a lungo Saturno, e nol conobbe

Altri che Giano. In cotal dubbio errando,

Si ritrassero entrambi, e lasciâr sola

La taciturna diva. Ella dal seggio

Si tolse allora; e due e tre volte scórse

Pensierosa la stanza, e poi di nuovo

Sospirando s’assise, e in questi accenti

Al suo fiero dolor le porte aperse:

Donde prima degg’io, Giove crudele,

Il mio lamento incominciar? Già tempo

Fu che, superba del tuo amor, chiamarmi

Potei felice ed onorata e diva.

Or eccomi deserta; e non mi resta

Che questo sol di non poter morire

Privilegio infelice. E fino a quando

Alla fierezza della tua consorte

Esporrai questa fronte? Il premio è questo

De’ concessi imenei? Questi gli onori

E le tante in Ausonia are promesse,

Onde speme mi desti che la prima

Mi sarei stata delle dee latine?

Tu m’ingannasti: l’ultima son io

Degl’immortali, ahi! lassa! e non mi fêro

Illustre e chiara, che le mie sventure.

Rendimi, ingrato, rendimi alla morte,

Alla qual mi togliesti. Entro quell’onde

Concedimi perir, che la tua Giuno

Sul mio regno sospinse, o ch’io ritrovi

Agli arsi boschi in mezzo e alle ruine

De’ miei templi abbattuti il mio sepolcro.

Così la diva lamentossi, e tacque.

Era la notte, e d’ogni parte i venti

E l’onde e gli animanti avean riposo,

Fuorché l’insetto che ne’ rozzi alberghi

A canto al focolar molce con lungo

Sonnifero stridor l’ombra notturna;

E Filomena nella siepe ascosa

Va iterando le sue dolci querele.

In quel silenzio universale anch’essa

Adagiossi la dea vinta dal sonno;

Che dopo il lagrimar sempre sugli occhi

Dolcissimo discende, e la sua verga

Le pupille celesti anco sommette.

Quando il gran padre degli dei, che udito

Dell’amica dolente il pianto avea,

A lei tacito venne; e poi che stette

Del letto alquanto su la sponda assiso,

Di quel voltocaro addormentato

La beltà contemplando, alfin la mano

Leggermente le scosse, e nell’orecchio

Bisbigliando soave: O mia diletta,

Svégliati, disse, svégliati; son io

Che ti chiamo; son Giove. A questa voce

Il sonno l’abbandona, apre le luci,

E stupefatta si ritrova in braccio

Del gran figliuolo di Saturno. Ed egli

Riconfortala in pria con un sorriso

Che di dolcezza avria spetrati i monti,

Ed acchetato il mar quando è in fortuna;

Poscia in tal modo a ragionar le prese:

Calma il duolo, Feronia; immoti e saldi

Stanno i tuoi fati e le promesse mie;

ingannator son io, si cancella

Mai sillaba di Giove. Ma profonde

Sono le vie del mio pensiero, e aperta

A me solo de’ fati è la cortina.

Non lagrimar sul tuo perduto impero:

Tempo verrà, che largamente reso

Tel vedrai, non temerne, e i muti altari

E le cittadi e i campi e le pianure

Dai ruderi e dall’onde e dalla polve

Sorger più belle e numerose e colte.

D’Italia in questo i più lodati eroi

Porran l’opra e l’ingegno. Io non ti nomo

Che i più famosi; e in prima Appio, che in mezzo

Spingerà delle torbide Pontine

Delle vie la regina. Indi Cetego:

Indi il possente fortunato Augusto

Esecutor della paterna idea;

Al cui tempo felice un venosino

Cantor sublime ne’ tuoi fonti il volto

Laverassi e le mani; e tu di questo

Orgogliosa n’andrai più che l’Anfriso,

Già lavacro d’Apollo. Ecco venirne

Poscia il lume de’ regi, il pio Traiano

Che, domata con l’armi Asia ed Europa,

Col senno domerà la tua palude;

E le partiche spade e le tedesche

In vomeri cangiate impiagheranno,

Meglio d’assai che de’ Romani il petto,

Le glebe pometine. E qui trecento

Giri ti volve d’abbondanza il sole,

E di placido regno, infin che il goto

Furor d’Italia guasterà la faccia.

Da boreal tempesta la ruina

Scenderà de’ tuoi campi; ma del pari

Un’alma boreal, calda e ripiena

Del valor d’occidente, al tuo bel regno

Porterà la salute. E poi di nuovo

(Chè tal de’ fati è il corso) alto squallore

Lo coprirà; zelo, arte o possanza

Di sommi sacerdoti all’onor primo

Interamente il renderan; chè l’opra

Immortal, glorïosa ed infinita

Ad un più grande eroe serba il destino.

Lo díran Pio le genti e di quel nome

Sesto sarà. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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