CANTO TERZO
All’ardua cima
del sereno Olimpo
Risalía Giove intanto, e ad
incontrarlo
Accorrean presti e riverenti i
numi
Su le porte del cielo. In mezzo a
tutti,
In due schierate taciturne file,
Maestoso egli passa; a quella
guisa
Che suol, calando al pallido
occidente,
Passar tra i verecondi astri
minori
D’Iperïone il luminoso figlio,
Quando dall’arsa eclittica il gran
carro
Della luce ritira, e l’Ore ancelle
Sciolgono dal timon bianco di
spuma
I fumanti cavalli. Ai sacri
alberghi
Dell’aurea reggia rispettosi i
divi
Accompagnâr l’onnipotente; e
giunti
Al grande limitar, per sè medesme
Si spalancâr sui cardini di bronzo
Le porte d’oro, che uno spirto
move
Intrinseco e possente: e tale
intorno
Nell’aprirsi mandâr cupo un
ruggito,
Che tutto ne tremò l’alto
convesso.
Ivi in parte segreta, a cui
nessuno
Non ardisce appressar degli altri
eterni
(Fuor che le meste e querule
Preghiere,
Che libere pel ciel scorrono, e al
nume
Portano i voti degli oppressi e il
pianto),
L’egioco padre in gran pensier
s’assise
Sovra il balzo d’Olimpo il più
sublime.
Contemplava di là giusto e pietoso
De’ mortali gli affanni e le
fatiche:
Mirò d’Ausonia i campi, e la
pontina
Valle in orrendo pelago conversa;
Mirò per tutto (miserabil vista!)
Le sue tante cittadi, altre
sommerse,
Altre per forza di tremuoto svelte
Dalle ondeggianti rupi, e la
catena,
Donde pendon la terra e il mar
sospesi,
Scuotersi ancora, ed oscillar
commossa
Dalla tremenda di Vulcan possanza.
Ciò tutto contemplando in suo
segreto,
Non fu tardo a veder che tanto
eccesso,
Tanta rovina saría poco all’ira
Della fiera consorte. In compagnia
Del potente de’ fuochi egli la
vide
Verso la sacra selva incamminarsi,
Ove Feronia nel maggior suo tempio
Di vittime, d’incensi e di
ghirlande
Dalle genti latine avea tributo.
Di Giuno ei quindi antivedendo il
nuovo
Scellerato disegno, a sè chiamato
Di Maia il figlio, esecutor veloce
De’ suoi cenni, gli fe’ queste
parole:
Nuove furie gelose, o mio fedele,
Hanno turbato alla mia sposa il
petto;
E quai del suo rancor già sono
usciti
Senza misura lagrimosi effetti,
Non t’è nascoso. Un simulacro
avanza
Dell’esule Feronia, un tempio solo
Di tanti che già n’ebbe; e questo
ancora
Vuole al suolo adeguar la
furibonda.
Or che consiglio è il suo? Stolta,
che tenta?
Se rispettar le nostre ire non
sanno
Le sante cose in terra, e i
monumenti
Dell’umana pietà, chi de’ mortali
Sarà che più n’adori, e nella
nostra
Divina qualità più ponga fede?
Prendi adunque sul mar tirreno il
volo,
T’appresenta a Giunon carco de’
miei
Forti comandi. Con le fiamme
assalga,
Se tanto è il suo disdegno, anco
la selva
(Ch’ella a ciò si prepara, e
consentire
Io le vo’ pur quest’ultima
vendetta);
Ma, se l’empia oserà stender la
destra
Alle sacre pareti, e vïolarne
Il fatal simulacro, alla superba
Tu superbo farai queste parole:
Fisso è nel mio volere (e per la
stigia
Onda lo giuro) che l’achea
contrada
Lasciar debbano i numi, e
nell’opima
Itala terra stabilir più fermo,
Più temuto il lor seggio. Io le
catene
Del mio padre Saturno ho già
disciolte,
E l’offesa obbliai, che mi
costrinse
A sbandirlo dal ciel. L’ospite
suolo,
Che ramingo l’accolse e ascoso il
tenne,
Sacro esser debbe, nè aver dato
asilo
Di Giove al genitor senza mercede.
Dopo il beato Olimpo, in avvenire
Sia dunque Italia degli dèi la
stanza:
E di là parta un dì quanto valore
Della mente e del braccio in pace
e in guerra
Farà suggetto il mondo, e quanta
insieme
Civiltà, sapïenza e gentilezza
Renderanno l’umana compagnia
Dalle belve divisa, e minor poco
Della divina. A secondar l’eccelso
Proponimento mio già nello speco
Della rupe cumea mugge d’Apollo
La delfica cortina, ed esso il
dio,
Dimenticata la materna Delo,
Ai dipinti Agatirsi ama preporre
Del Soratte gli scalzi sacerdoti.
Già la sorella sua di Cinto i
gioghi
Lieta abbandona, e le gargafie
fonti,
Del nemorense lago innamorata.
Alle sorti di Licia han tolto il
grido
Le prenestine, e di Laurento i
boschi
Tacer già fanno le parlanti querce
Della vinta Dodona. In su la
spiaggia
D’Anzio diletta Venere trasporta
D’Amatunta i canestri, e Bacco e
Vesta
E Cerere e Minerva e il re
dell’onde
Son già numi latini. E alle latine
D’Elide l’are già posposi io
stesso,
E sul Tarpeo recai dell’Ida i
tuoni
E le procelle. Perocchè maturo
Già s’agita nell’urna il gran
destino,
Che glorïosa dee fondar sul Tebro
La reina del mondo. Al sol
bisbiglio
Che di lei fanno i tripodi cumani,
Tutta trema la terra: e già
s’appressa
D’Anchise il pio figliuol, seco
adducendo
D’Ilio i Penati, che faran nel
Lazio
La vendetta di Troia, e
spezzeranno
D’Agamennon lo scettro in
Campidoglio.
Cotal de’ Fati è il giro; e
disvïarlo
Tenta indarno Giunon: da Samo
indarno
Porta alla sua Cartago il cocchio
e l’asta
E l’argolico scudo, armi che un
giorno
Fian concedute con miglior fortuna
Di Dardano ai nepoti, allor che
Giuno
Per quella stessa regïon, su cui
Tanta mole di flutti ora sospinse,
Placata scorrerà del Lazio i lidi.
Ivi sull’ara Sospita le genti
L’invocheranno; ed ella, il fianco
adorna
Delle pelli caprine, e dentro il
fumo
De’ lanuvini sagrificii avvolta,
Tutti a mensa accorrà d’Ausonia i
numi
Cortesemente, e porgerà di pace
A Feronia l’amplesso; onde già
fatte
Entrambe amiche, toccheran le
tazze
Propinando a vicenda, e in larghi
sorsi
L’obblio beran delle passate cose.
Va dunque, e sì le parla. Il suo
pensiero
Volga in meglio l’altera, e alle
sue stanze
Rieda in Olimpo; chè l’andar
vagando
Più lungamente in terra io le
divieto.
E se niega obbedir, tu le rammenta
Le incudi un giorno al suo
calcagno appese;
E dille che la man che ve le
avvinse
Non ha perduta la possanza antica.
Disse; e
Mercurio ad eseguir del padre
Il precetto s’accinse. E pria
l’alato
Petaso al capo adatta ed alle
piante
I bei talari, ond’ei vola sublime
Su la terra e sul mare, e la
rattezza
Passa de’ venti. Impugna indi
l’avvinta
Verga di serpi, prezïoso dono
Del fatidico Apollo il dì che a
lui
L’argicida fratel cesse la lira:
Con questa verga, tutta d’oro, in
vita
Ei richiama le morte alme, ed a
Pluto
Mena le vive, ed or sopore infonde
Nell’umane pupille, ed or ne ’l
toglie.
Sì guernito, e con tal d’ali
remeggio
Spiccasi a volo. Occhio mortal non
puote
Seguitarne la foga; in men che il
lampo
Guizza e trapassa, egli è già
sceso, e preme
Il campano terreno, un dì nomato
Campo flegrèo, famosa sepoltura
De’ percossi Giganti. Intorno
tutta
Manda globi di fumo la pianura,
Ed ogni globo dal gran petto esala
D’un fulminato. A fronte alza il
Vesevo
Brullo il colmigno, ed al suo piè
la dolce
Lagrima di Lieo stillan le viti.
Lieve lieve radendo il folgorato
Terren di Maia il figlio e la
marina
Sorvolando, levossi all’erte cime
Della balza circèa, che di Feronia
Signoreggia la selva. Ivi
fermossi,
Qual uom che tempo al suo disegno
aspetta:
E, di là dechinando il guardo
attento
Al piano che s’avvalla spazïoso
Fra l’ánsure dirupo ed il circèo,
E tutto copre di Feronia il bosco,
A quella volta acceleranti il
passo
Vide Giuno e Vulcano, armati
entrambi
D’orrende faci, ed anelanti a
nuova
Nefanda offesa. All’appressar di
quelle
Vampe nemiche un lungo mise e cupo
Gemito la foresta: augelli e
fiere,
A cui Natura, più che all’uom
cortese,
Presentimento diè quasi divino,
Da subito terror compresi, i dolci
Nidi e i covili abbandonâr
stridendo
E ululando smarriti, e senza legge
D’ogni parte fuggendo. I primi
incendi
Eran già desti, e già di Giuno al
cenno,
Già la sua fida messaggera e
ancella
Verso Eolia battea preste le penne
Con prego ai venti di soffiar
gagliardi
Dentro le fiamme, e promettendo
pingui
In nome della dea vittime e doni;
Come il dì che d’Achille ai caldi
voti,
Del morto amico gli avvampâr la
pira.
Già stendendo
venìa l’umida notte
Sul volto della terra il negro
velo,
E in grembo al suo pastor Cinzia
dormía;
Quando i figli d’Astreo con gran
fracasso
Dall’ëolie spelonche sprigionati
S’avventâr su l’incendio, e per la
selva
Senza freno lo sparsero. La vampa
Esagitata rugge, e dalla quercia
Si devolve su l’olmo e su l’abete:
Crepita il lauro; e le loquaci
chiome
Stridono in capo al berecinzio
pino,
A sfidar nato su gli equorei campi
D’Africo e d’Euro i tempestosi
assalti.
Già tutta la gran selva è un mar
di foco
E di terribil luce, a cui la notte
Spavento accresce, e orribilmente
splende
Per lungo tratto la circèa marina;
Simigliante al Sigeo, quando gli eletti
Guerrier di Grecia del cavallo
usciti
In faville mandâr d’Ilio le torri,
E atterrita la frigia onda si fea
Specchio al rogo di Troia;
miserando
Di tanti eroi sepolcro e di
tant’ire.
All’orrendo
spettacolo il feroce
Cor di Giuno esultava; e impazïente
Di vendicarsi al tutto (chè
suprema
Voluttà de’ potenti è la
vendetta),
Un divampante tizzo alto agitando
E furïando, vola al gran delubro,
Ch’unico avanza della sua nemica,
Ferma in cor d’atterrarlo,
incenerirlo,
E spegnere con esso ogni vestigio
Dell’abborrito culto. Armato ei
pure
D’empia face Vulcan seguía non
tardo
La fiera madre; e già le sacre
soglie
Calcano entrambi: dai commossi
altari
Già fugge la Pietà, fugge smarrita
La fede avvolta nel suo bianco
velo:
Con vivo senso di terrore anch’esso
Si commosse il tuo santo
simulacro,
O misera Feronia, e un doloroso
Gemito mise (meraviglia a dirsi!),
Quasi accusando d’empietade il
cielo.
Ma del figliuol di Maia, a ciò
spedito,
Non fu tarda l’aita in tanto
estremo:
E, come stella che alle notti
estive
Precipite labendo il cielo fende
Di momentaneo solco, e va sì
ratta,
Che l’occhio appena nel passar
l’avvisa;
Non altrimenti il dio stretto
nell’ali
Il sereno trascorse, e rilucente
Sul vestibolo sacro appresentossi.
All’improvvisa sua comparsa il
passo
Stupefatti arrestâr Vulcano e
Giuno,
E si turbâr vedendosi di fronte
Starsi ritto Mercurio, e imperïoso
Contro il lor petto le temute
serpi
Chinar dell’aurea verga, e così
dire:
— Férmati, o diva; portator son io
Di severa ambasciata. A te comanda
L’onnipossente tuo consorte e sire
Di gettar quelle faci, e invïolata
Quest’effigie lasciar e queste
mura.
Riedi alle stanze dell’Olimpo, e
tosto:
Chè ti si vieta andar più
lungamente
Vagando in terra, e funestar di
stragi
Le contrade latine, a cui l’impero
Promettono del mondo il fato e
Giove.
E di Giove e del fato a mano a
mano
Qui le aperse i voleri, e il tempo
e il modo
De’ futuri successi: e non diè
fine
All’austero parlar, che ricordolle
Le incudi un giorno al suo
calcagno appese,
E il braccio punitor, che non avea
Perduta ancora la possanza antica.
Cadde il tizzo
di mano a quegli accenti
Al dio di Lenno, e tra le vampe e
il fumo
Si dileguò; nè disse addio, nè
parve
Aver mal fermo a pronta fuga il
piede;
Ma con torvo sembiante e
disdegnoso
Si ristette Giunon, chè rabbia e
tema
Le stringono la mente; e par tra’
ferri
La generosa belva che gli orrendi
Occhi travolve, e il correttor
flagello
Fa tremar nella man del suo
custode.
Senza dir motto alfin volse le
spalle,
E rotando in partir la face in
alto,
Con quanta più poteo forza la
spinse:
Vola il ramo infiammato, e di
sanguigna
Luce un grand’arco con immensa
riga
Segna per l’etra taciturno e
scuro.
Il sidicino montanar v’affisse
Stupido il guardo, e sbigottissi,
e un gelo
Corse per l’ossa al pescator d’Amsanto,
Quando sul capo ruinar sel vide,
E cader sibilando nella valle,
Ove suona rumor di fama antica,
Che del puzzo mortal, che ancor
v’esala,
L’aria e l’onde corruppe, ed un
orrendo
Spiraglio aperse, che conduce a
Dite.
Come allor che
su i nostri occhi Morféo
Sparger ricusa la letea rugiada,
D’ogni parte la mente va veloce,
E fugge e torna e slanciasi in un
punto
Dall’aurora all’occaso, e dalla
terra
Alla sfera di Giove e di Saturno;
Con tal prestezza si sospinse al
cielo
La ritrosa Giunon. L’Ore custodi
Delle soglie d’empiro incontanente
Alla reina degli dèi le porte
Spalancâr dell’Olimpo, e la bionda
Ebe,
Ilare il volto, e l’abito
succinta,
Le corse incontro con la tazza in
mano
Del nèttare celeste; ed ella un
sorso
Nè pur gustò dell’immortal
bevanda;
Chè troppo d’amarezza e di
rammarco
Avea l’anima piena. Onde con gli
occhi
In giù rivolti e d’allegrezza
privi,
Nè a verun degli dèi, che surti in
piedi
Erano, al suo passar, fatto un
saluto,
Il passo accelerò verso i recessi
Del talamo divino; ed ivi entrata,
Serrò le porte rilucenti, e tutte
Ne furo escluse le fedeli ancelle.
Poichè sola rimase, al suo
dispetto
Abbandonossi; lacerò le bende,
Ruppe armille e monili, e gettò
lunge
La clamide regal che di sua mano
Tessè Minerva, e d’auree frange il
lembo
Circondato n’avea. Nè tu sicura
Da’ suoi furori andar potesti, o
sacra
Alla beltade, inaccessibil ara,
Che non hai nome in cielo, e tra’
mortali
Da barbarico accento lo traesti,
Cui le Muse abborrîr. Cieca di
sdegno
Ti ricercò la dea: cadde, e si
franse
Con diverso fragor l’ampio
cristallo,
Che in mezzo dell’altar sorgea
sovrano
Maestoso e superbo; e in un
confusi
N’andâr sossopra i vasi d’oro e
l’urne
Degli aromi celesti e de’ profumi,
Onde tal si diffuse una fragranza,
Che tutta empiea la casa e il vasto
Olimpo.
Mentre così
l’ire gelose in cielo
Disacerba Giunon, quai sono in
terra
Di Feronia le lagrime, i sospiri?
Ditelo, d’Elicona alme fanciulle,
Voi che l’opere tutte e i pensier
anco
De’ mortali sapete e degli dei.
Poi che si vide l’infelice in bando
Cacciata dal natío dolce terreno,
D’are priva e d’onori, e dallo
stesso
(Ahi sconoscenza!), dallo stesso
Giove
Lasciata in abbandono, ella
dolente
Verso i boschi di Trivia
incamminossi,
E ad or ad or volgea lo sguardo
indietro,
E sospirava. Sul piè stanco alfine
Mal si reggendo, e dalla lunga
via,
E più dal duolo abbattuta e
cadente,
Sotto un’elce s’assise: ivi
facendo
Al volto letto d’ambedue le palme,
Tutta con esse si coprì la fronte,
E nascose le lagrime, che mute
Le bagnavan le gote, e le sapea
Solo il terren, che le bevea
pietoso.
In quel misero stato la ravvolse
Dell’ombre sue la notte, e in sul
mattino
Il sol la ritrovò sparsa le
chiome,
E di gelo grondante e di pruina;
Perocchè per dolor posta in non
cale
La sua celeste dignitade avea,
Onde al corpo divin l’aure
notturne
Ingiurïose e irriverenti furo,
Siccome a membra di mortal natura.
Lica intanto, di povero terreno
Più povero cultor, dal
letticciuolo
Era surto con l’alba, e del suo
campo
Visitando venía le orrende piaghe,
Che fatte avean la pioggia, il
ghiaccio, il vento
Agli arboscelli, ai solchi ed alle
viti.
Lungo il calle passando, ove la
diva
In quell’atto sedea, da meraviglia
Tocco, e più da pietà, chè fra le
selve
Meglio che in mezzo alle cittadi
alberga,
S’appressò palpitando, e la
giacente
Non conoscendo (chè a mortal
pupilla
Difficil cosa è il ravvisar gli
dei),
Ma in lei della contrada
argomentando
Una ninfa smarrita: O tu, chi sei,
Chi sei, (le disse), che sì care e
belle
Hai le sembianze e dolor tanto in
volto?
Per chi son queste lagrime? t’ha
forse
Priva il ciel della madre o del
fratello
O dell’amato sposo? chè son questi
Certo i primi de’ mali, onde
sovente
Giove n’affligge. Ma del tuo
cordoglio
Qual si sia la cagion, prendi
conforto,
E pazïenza opponi alle sventure
Che ne mandano i numi: essi nemici
Nostri non son; ma col rigor
talvolta
Correggono i più cari. Alzati, o
donna;
Vieni, e t’adagia nella mia
capanna,
Che non è lungi; e le forze
languenti
Ivi di qualche cibo e di riposo
Ristorerai. La mia consorte poscia
Di tutto l’uopo ti sarà cortese;
Ch’ella è prudente, e degli
afflitti amica,
E qual figlia ambedue cara
t’avremo.
Alle parole del
villan pietoso
S’intenerì la diva, e in cor
sentissi
La doglia mitigar, tanta fra’
boschi
Gentilezza trovando e cortesia.
Levossi in piedi, ed ei le resse
il fianco,
E la sostenne con la man callosa.
Nell’appressarsi, nel toccar ch’ei
fece
Il divin vestimento, un brividío,
Un palpito lo prese, un cotal
misto
Di rispetto, d’affetto e di paura,
Che parve uscir dei sensi, e su le
labbra
La voce gli morì. Quindi il
sentiero
Prese in ver la capanna, e il fido
cane
Nel mezzo del cortil gli corse
incontro:
Volea latrar; ma sollevando il
muso,
E attonite rizzando ambe le
orecchie,
Guardolla, e muto su l’impressa
arena
Ne fiutò le vestigia. In questo
mentre
Alla cara sua moglie Teletusa
Il buon Lica dicea: Presto sul
desco
Spiega un candido lino, e passe
ulive
Récavi e pomi e grappoli, che
salvi
Dal morso abbiam dell’aspro verno,
e un nappo
Di soave lambrusca, e s’altro in
serbo
Tieni di meglio; chè mostrarci è
d’uopo
Come più puossi liberali a questa
Peregrina infelice. — Allor
spedita
Teletusa si mosse, e in un momento
Di cibo rustical coperse il desco,
Ed invitò la dea, la quale assisa
Sul limitar si stava, e immota e grave
L’infinito suo duol premea nel
petto;
Nè già tenne l’invito, chè mortale
Corruttibil vivanda non confassi
A palato immortal; ma ben di trito
Odoroso puleggio e di farina
D’acqua commisti una bevanda
chiese,
Grata al labbro de’ numi, e l’ebbe
in conto
Di sacra libagion. Forte di questo
Meravigliossi Teletusa, e, fiso
Di Feronia il sembiante esaminando
(Poichè al sesso minor diero gli
dèi
Curïose pupille, e accorgimento
Quasi divin), sospetto alto la
prese,
Che si tenesse in quelle forme
occulta
Cosa più che terrena. Onde in
disparte
Tratto il marito, il suo timor gli
espose,
E creduta ne fu; chè facilmente
Cuor semplice ed onesto è
persuaso.
Allor Lica narrò quel che poc’anzi
Assalito l’avea strano tumulto,
Quando a sorgere in piè le porse
aita,
E con la mano le soffolse il
fianco.
Poi, seguendo, di Bauci e Filemone
Rammentâr l’avventura, e quel che
udito
Da’ vecchi padri avean, siccome
ascoso
Fra lor nelle capanne e nelle
selve
Stette a lungo Saturno, e nol
conobbe
Altri che Giano. In cotal dubbio
errando,
Si ritrassero entrambi, e lasciâr
sola
La taciturna diva. Ella dal seggio
Si tolse allora; e due e tre volte
scórse
Pensierosa la stanza, e poi di
nuovo
Sospirando s’assise, e in questi
accenti
Al suo fiero dolor le porte
aperse:
Donde prima degg’io, Giove
crudele,
Il mio lamento incominciar? Già
tempo
Fu che, superba del tuo amor,
chiamarmi
Potei felice ed onorata e diva.
Or eccomi deserta; e non mi resta
Che questo sol di non poter morire
Privilegio infelice. E fino a
quando
Alla fierezza della tua consorte
Esporrai questa fronte? Il premio
è questo
De’ concessi imenei? Questi gli
onori
E le tante in Ausonia are
promesse,
Onde speme mi desti che la prima
Mi sarei stata delle dee latine?
Tu m’ingannasti: l’ultima son io
Degl’immortali, ahi! lassa! e non
mi fêro
Illustre e chiara, che le mie
sventure.
Rendimi, ingrato, rendimi alla
morte,
Alla qual mi togliesti. Entro
quell’onde
Concedimi perir, che la tua Giuno
Sul mio regno sospinse, o ch’io
ritrovi
Agli arsi boschi in mezzo e alle
ruine
De’ miei templi abbattuti il mio
sepolcro.
Così la diva
lamentossi, e tacque.
Era la notte, e d’ogni parte i
venti
E l’onde e gli animanti avean
riposo,
Fuorché l’insetto che ne’ rozzi
alberghi
A canto al focolar molce con lungo
Sonnifero stridor l’ombra
notturna;
E Filomena nella siepe ascosa
Va iterando le sue dolci querele.
In quel silenzio universale
anch’essa
Adagiossi la dea vinta dal sonno;
Che dopo il lagrimar sempre sugli
occhi
Dolcissimo discende, e la sua
verga
Le pupille celesti anco sommette.
Quando il gran padre degli dei,
che udito
Dell’amica dolente il pianto avea,
A lei tacito venne; e poi che
stette
Del letto alquanto su la sponda
assiso,
Di quel volto sì caro addormentato
La beltà contemplando, alfin la
mano
Leggermente le scosse, e
nell’orecchio
Bisbigliando soave: O mia diletta,
Svégliati, disse, svégliati; son
io
Che ti chiamo; son Giove. A questa
voce
Il sonno l’abbandona, apre le
luci,
E stupefatta si ritrova in braccio
Del gran figliuolo di Saturno. Ed
egli
Riconfortala in pria con un
sorriso
Che di dolcezza avria spetrati i
monti,
Ed acchetato il mar quando è in
fortuna;
Poscia in tal modo a ragionar le
prese:
Calma il duolo, Feronia; immoti e
saldi
Stanno i tuoi fati e le promesse
mie;
Nè ingannator son io, nè si
cancella
Mai sillaba di Giove. Ma profonde
Sono le vie del mio pensiero, e
aperta
A me solo de’ fati è la cortina.
Non lagrimar sul tuo perduto
impero:
Tempo verrà, che largamente reso
Tel vedrai, non temerne, e i muti
altari
E le cittadi e i campi e le
pianure
Dai ruderi e dall’onde e dalla
polve
Sorger più belle e numerose e
colte.
D’Italia in questo i più lodati
eroi
Porran l’opra e l’ingegno. Io non
ti nomo
Che i più famosi; e in prima
Appio, che in mezzo
Spingerà delle torbide Pontine
Delle vie la regina. Indi Cetego:
Indi il possente fortunato Augusto
Esecutor della paterna idea;
Al cui tempo felice un venosino
Cantor sublime ne’ tuoi fonti il
volto
Laverassi e le mani; e tu di
questo
Orgogliosa n’andrai più che
l’Anfriso,
Già lavacro d’Apollo. Ecco venirne
Poscia il lume de’ regi, il pio
Traiano
Che, domata con l’armi Asia ed
Europa,
Col senno domerà la tua palude;
E le partiche spade e le tedesche
In vomeri cangiate impiagheranno,
Meglio d’assai che de’ Romani il
petto,
Le glebe pometine. E qui trecento
Giri ti volve d’abbondanza il
sole,
E di placido regno, infin che il
goto
Furor d’Italia guasterà la faccia.
Da boreal tempesta la ruina
Scenderà de’ tuoi campi; ma del
pari
Un’alma boreal, calda e ripiena
Del valor d’occidente, al tuo bel
regno
Porterà la salute. E poi di nuovo
(Chè tal de’ fati è il corso) alto
squallore
Lo coprirà; nè zelo, arte o
possanza
Di sommi sacerdoti all’onor primo
Interamente il renderan; chè
l’opra
Immortal, glorïosa ed infinita
Ad un più grande eroe serba il
destino.
Lo díran Pio le genti e di quel
nome
Sesto sarà. . . . . . . . . . . .
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