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Vincenzo Monti
Poesie

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  • Parte I LIRICHE
    • Al signor di Montgolfier
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Al signor di Montgolfier

 

Quando Giason dal Pelio

Spinse nel mar gli abeti,

E primo corse a fendere

Co’ remi il seno a Teti,

Su l’alta poppa intrepido

Col fior del sangue acheo

Vide la Grecia ascendere

Il giovinetto Orfeo.

Stendea le dita eburnee

Su la materna lira;

E al tracio suon chetavasi

De’ venti il fischio e l’ira.

Meravigliando accorsero

Di Doride le figlie;

Nettuno ai verdi alipedi

Lasciò cader le briglie.

Cantava il Vate odrisio

D’Argo la gloria intanto,

E dolce errar sentivasi

Su l’alme greche il canto.

O della Senna, ascoltami,

Novello Tifi invitto:

Vinse i portenti argolici

L’aereo tuo tragitto.

Tentar del mare i vortici

Forse è sì gran pensiero,

Come occupar de’ fulmini

L’invïolato impero?

Deh! perchè al nostro secolo

Non diè propizio il Fato

D’un altro Orfeo la cetera,

Se Montgolfier n’ha dato?

Maggior del prode Esonide

Surse di Gallia il figlio.

Applaudi, Europa attonita,

Al volator naviglio.

Non mai Natura, all’ordine

Delle sue leggi intesa,

Dalla potenza chimica

Soffrì più bella offesa.

Mirabil arte, ond’alzasi

Di Sthallio e Black la fama,

Pèra lo stolto Cinico

Che frenesia ti chiama.

De’ corpi entro le viscere

Tu l’acre sguardo avventi,

E invan celarsi tentano

Gl’indocili elementi.

Dalle tenaci tenebre

La verità traesti,

E delle rauche ipotesi

Tregua al furor ponesti.

Brillò Sofia più fulgida

Del tuo splendor vestita,

E le sorgenti apparvero,

Onde il creato ha vita.

L’igneo terribil aere,

Che dentro il suol profondo

Pasce i tremuoti, e i cardini

Fa vacillar del mondo,

Reso innocente or vedilo

Da’ marzii corpi uscire,

E già domato ed utile

Al domator servire.

Per lui del pondo immemore,

Mirabil cosa! in alto

Va la materia, e insolito

Porta alle nubi assalto.

Il gran prodigio immobili

I riguardanti lassa,

E di terrore un palpito

In ogni cor trapassa.

Tace la terra, e suonano

Del ciel le vie deserte:

Stan mille volti pallidi,

E mille bocche aperte.

Sorge il diletto e l’estasi

In mezzo allo spavento,

E i piè mal fermi agognano

Ir dietro al guardo attento.

Pace e silenzio, o turbini:

Deh! non vi prenda sdegno

Se umane salme varcano

Delle tempeste il regno.

Rattien la neve, o Borea,

Che giù dal crin ti cola:

L’etra sereno e libero

Cedi a Robert che vola.

Non egli vien d’Orizia

A insidïar le voglie:

Costa rimorsi e lacrime

Tentar d’un dio la moglie.

Mise Tesèo nei talami

Dell’atro Dite il piede:

Punillo il Fato, e in Erebo

Fra ceppi eterni or siede.

Ma già di Francia il Dedalo

Nel mar dell’aure è lunge:

Lieve lo porta zeffiro,

E l’occhio appena il giunge.

Fosco di là profondasi

Il suol fuggente ai lumi,

E come larve appaiono

Città, foreste e fiumi.

Certo la vista orribile

L’alme agghiacciar dovría;

Ma di Robert nell’anima

Chiusa è al terror la via.

E già l’audace esempio

I più ritrosi acquista;

Già cento globi ascendono

Del cielo alla conquista.

Umano ardir, pacifica

Filosofia sicura,

Qual forza mai, qual limite

Il tuo poter misura?

Rapisti al ciel le folgori,

Che debellate innante

Con tronche ali ti caddero,

E ti lambîr le piante.

Frenò guidato il calcolo

Dal tuo pensiero ardito

Degli astri il moto e l’orbite,

L’Olimpo e l’infinito.

Svelaro il volto incognito

Le più rimote stelle,

Ed appressar le timide

lor vergini fiammelle.

Del sole i rai dividere,

Pesar quest’aria osasti:

La terra, il foco, il pelago,

Le fere e l’uom domasti.

Oggi a calcar le nuvole

Giunse la tua virtute,

E di natura stettero

Le leggi inerti e mute.

Che più ti resta? Infrangere

Anche alla morte il telo,

E della vita il nettare

Libar con Giove in cielo.




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