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Vincenzo Monti
Poesie

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  • PARTE II SERMONI, IDILLI, CANTI
    • La bellezza dell’Universo
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PARTE II

SERMONI, IDILLI, CANTI

 

La bellezza dell’Universo

 

CANTO RECITATO NEL BOSCO PARRASIO DELL’ARCADIA

PER LE NOZZE DEL DUCA LUIGI BRASCHI ONESTI

CON DONNA COSTANZA FALCONIERI

 

Della mente di Dio candida figlia,

Prima d’Amor germana, e di Natura

Amabile compagna e maraviglia;

Madre de’ dolci affetti, e dolce cura

Dell’uom, che varca pellegrino errante

Questa valle d’esilio e di sciagura;

Vuoi tu, diva Bellezza, un risonante

Udir inno di lode, e nel mio petto

Un raggio tramandar del tuo sembiante?

Senza la luce tua l’egro intelletto

Langue oscurato, e i miei pensier sen vanno

Smarriti in faccia al nobile subbietto.

Ma qual principio al canto, o Dea, daranno

Le Muse? e dove mai degne parole

Dell’origine tua trovar potranno?

Stavasi ancora la terrestre mole

Del Caos sepolta nell’abisso informe,

E sepolti con lei la Luna e il Sole;

E tu del sommo Facitor su l’orme

Spazïando, con esso preparavi

Di questo mondo l’ordine e le forme.

V’era l’eterna Sapïenza, e i gravi

Suoi pensier ti venía manifestando

Stretta in santi d’amor nodi soavi.

Teco scorrea per l’infinito; e quando

Dalle cupe del nulla ombre ritrose

L’onnipossente creator comando

Uscir fe’ tutte le mondane cose,

E al guerreggiar degli elementi infesti

Silenzio e calma inaspettata impose,

Tu con essa alla grande opra scendesti,

E con possente man del furibondo

Caos le tenebre indietro respingesti,

Che con muggito orribile e profondo

Là del Creato su le rive estreme

S’odon le mura flagellar del mondo;

Simili a un mar che per burrasca freme,

E, sdegnando il confine, le bollenti

Onde solleva, e il lido assorbe e preme.

Poi, ministra di luce e di portenti,

Del ciel volando pei deserti campi,

Seminasti di stelle i firmamenti.

Tu coronasti di sereni lampi

Al sol la fronte; e per te avvien che il crine

Delle comete rubiconde avvampi,

Che agli occhi di quaggiù, spogliate alfine

Del reo presagio di feral fortuna,

Invian fiamme innocenti e porporine.

Di tante faci alla silente e bruna

Notte trapunse la tua mano il lembo,

E un don le festi della bianca luna;

E di rose all’Aurora empiesti il grembo,

Che poi sovra i sopiti egri mortali

Piovon di perle rugiadose un nembo.

Quindi alla terra indirizzasti l’ali,

Ed ebber dal poter de’ tuoi splendori

Vita le cose inanimate e frali.

Tumide allor di nutritivi umori

Si fecondâr le glebe, e si fêr manto

Di molli erbette e d’olezzanti fiori.

Allor, degli occhi lusinghiero incanto,

Crebber le chiome ai boschi; e gli arbuscelli

Grato stillâr dalle cortecce il pianto;

Allor dal monte corsero i ruscelli

Mormorando, e la florida riviera

Lambîr freschi e scherzosi i venticelli.

Tutta del suo bel manto primavera

Copria la terra, ma la vasta idea

Del gran fabbro compita ancor non era.

Di sua vaghezza inutile parea

Lagnarsi il suolo; e con più bel desiro

Sguardo e amor di viventi alme attendea.

Tu allor, raggiante d’un sorriso in giro,

Dei quattro venti su le penne tese

L’aura mandasti del divino spiro.

La terra in sen l’accolse e la comprese,

E un dolce movimento, un brividío

Serpeggiar per le viscere s’intese;

Onde un fremito diede, e concepío;

E il suol, che tutto già s’ingrossa e figlia,

La brulicante superficie aprío.

Dalle gravide glebe, oh maraviglia!

Fuori allor si lanciò scherzante e presta

La vaga delle belve ampia famiglia.

Ecco dal suolo liberar la testa,

Scuoter le giubbe, e tutto uscir d’un salto

Il biondo imperator della foresta:

Ecco la tigre e il leopardo in alto

Spiccarsi fuora della rotta bica,

E fuggir nelle selve a salto a salto.

Vedi sotto la zolla, che l’implíca,

Divincolarsi il bue, che pigro e lento

Isviluppa le gran membra a fatica.

Vedi pien di magnanimo ardimento

Sovra i piedi balzar ritto il destriero,

E nitrendo sfidar nel corso il vento;

Indi il cervo ramoso, ed il leggiero

Daino fugace; e mille altri animanti,

Qual mansueto, e qual ritroso e fiero;

Altri per valli e per campagne erranti,

Altri di tane abitator crudeli,

Altri dell’uomo difensori e amanti.

E lor di macchia differente i peli

Tu di tua mano dipingesti, o diva,

Con quella mano che dipinse i cieli.

Poi de’ color più vaghi, onde l’estiva

Stagion delle campagne orna l’aspetto,

E de’ freschi ruscei smalta la riva,

L’ale spruzzasti al vagabondo insetto,

E le lubriche anella serpentine

Del più caduco vermicciuol negletto.

Nè qui ponesti all’opra tua confine;

Ma vie più innanzi la mirabil traccia

Stender ti piacque dell’idee divine.

Cinta adunque di calma e di bonaccia,

Dalle marine interminabil’onde

Lanciasti un guardo su l’azzurra faccia.

Penetrò nelle cupe acque profonde

Quel guardo, e con bollor grato natura

Intiepidille, e diventâr feconde;

E tosto vari d’indole e figura

Guizzaro i pesci, e fin dall’ime arene

Tutta increspâr la liquida pianura.

I delfin snelli colle curve schiene

Uscîr danzando; e mezzo il mar copriro

Col vastissimo ventre orche e balene.

Fin gli scogli e le sirti allor sentiro

Il vigor di quel guardo e la dolcezza,

E di coralli e d’erbe si vestiro.

Ma che? Non son, non sono, alma Bellezza,

Il mar, le belve, le campagne, i fonti

Il sol teatro della tua grandezza:

Anche sul dorso dei petrosi monti

Talor t’assidi maestosa, e rendi

Belle dell’Alpi le nevose fronti.

Talor sul giogo abbrustolato ascendi

Del fumante Etna, e nell’orribil veste

Delle sue fiamme ti ravvolgi e splendi.

Tu del nero aquilon su le funeste

Ale per l’aria alteramente vieni,

E passeggi sul dorso alle tempeste:

Ivi spesso d’orror gli occhi sereni

Ti copri, e mille intorno al capo accenso

Rugghiano i tuoni e strisciano i baleni.

Ma sotto il vel di tenebror sì denso

Non ti scorge del vulgo il debil lume,

Che si confonde nell’error del senso.

Sol ti ravvisa di Sofia l’acume,

Che nelle sedi di natura ascose

Ardita spinge del pensier le piume.

Nel danzar delle stelle armonïose

Ella ti vede, e nell’occulto amore

Che informa e attragge le create cose.

Te ricerca con occhio indagatore,

Di botaniche armato acute lenti,

Nelle fibre or d’un’erba ed or d’un fiore.

Te dei corpi mirar negli elementi

Sogliono al gorgoglío d’acre vasello

I chimici curvati e pazïenti.

Ma più le tracce del divin tuo bello

Discopre la sparuta anatomia

Allorchè armata di sottil coltello

I cadaveri incide, e l’armonia

Delle membra rivela, e il penetrale

Di nostra vita attentamente spia.

O uomo, o del divin dito immortale

Ineffabil lavor, forma e ricetto

Di spirto, e polve moribonda e frale,

Chi può cantar le tue bellezze? Al petto

Manca la lena, e il verso non ascende

«Tanto, che arrivi all’alto mio concetto».

Fronte che guarda il cielo, e al cielo tende;

Chioma che sopra gli omeri cadente

Or bionda, or bruna, il capo orna e difende;

Occhio, dell’alma interprete eloquente,

Senza cui non avría dardi e faretra

Amor, né l’ali, nè la face ardente;

Bocca dond’esce il riso che penètra

Dentro i cuori, e l’accento si disserra,

Ch’or severo comanda, or dolce impètra;

Mano che tutto sente e tutto afferra,

E nell’arti incallisce, e ardita e pronta

Cittadi innalza, e opposti monti atterra;

Piede, su cui l’uman tronco si ponta,

E parte e riede, e or ratto ed or restio

Varca pianure, e gioghi aspri sormonta;

E tutta la persona entro il cuor mio

La maraviglia piove, e mi favella

Di quell’alto saper che la compío.

Taccion d’amor rapiti intorno ad ella

La terra, il cielo; ed: Io, son io, v’è sculto,

Delle create cose la più bella.

Ma qual nuovo d’idee dolce tumulto!

Qual raggio amico delle membra or viene

A rischiararmi il laberinto occulto?

Veggo muscoli ed ossa, e nervi e vene;

Veggo il sangue e le fibre onde s’alterna

Quel moto che la vita urta e mantiene;

Ma nei legami della salma interna,

Ammiranda prigion! cerco, e non veggio

Lo spirto che la move e la governa.

Pur sento io che quivi ha stanza e seggio,

E dalla luce di ragion guidato

In tutte parti il trovo, e lo vagheggio.

O spirto, o immago dell’Eterno, e fiato

Di quelle labbra, alla cui voce il seno

Si squarciò dell’abisso fecondato,

Dove andâr l’innocenza ed il sereno

Della pura beltà, di cui vestito

Discendesti nel carcere terreno?

Ahi, misero! t’han guasto e scolorito

Lascivia, ambizïon, ira ed orgoglio,

Che alla colpa ti fêro il turpe invito!

La tua ragione trabalzâr dal soglio,

E lacero, deluso ed abbattuto

T’abbandonâr nell’onta e nel cordoglio,

Siccome incauto pellegrin caduto

Nella man de’ ladroni, allorchè dorme

Il mondo stanco e d’ogni luce muto.

Eppur sul volto le reliquie e l’orme,

Fra il turbo degli affetti e la rapina,

Serbi pur anco dell’antiche forme:

Ancor dell’alta origine divina

I sacri segni riconosco; ancora

Sei bello e grande nella tua rovina:

Qual ardua antica mole, a cui talora

La folgore del cielo il fianco scuota,

Od il tempo che tutto urta e divora,

Piena di solchi ma pur salda e immota

Stassi, e d’offese e d’anni carca aspetta

Un nemico maggior che la percota.

Fra l’eccidio e l’orror della soggetta

Colpevole Natura, ove l’immerse

Stolta lusinga e una fatal vendetta,

Più bella intanto la virtude emerse,

Qual astro che splendor nell’ombre acquista,

E in riso i pianti di quaggiù converse.

Per lei gioconda e lusinghiera in vista

S’appresenta la morte, e l’amarezza

D’ogni sventura col suo dolce è mista:

Lei guarda il ciel dalla superna altezza

Con amanti pupille; e per lei sola

S’apparenta dell’uomo alla bassezza.

Ma dove, o diva del mio canto, vola

L’audace immaginar? dove il pensiero

Del tuo vate guidasti e la parola?

Torna, amabile dea, torna al primiero

Cammin terrestre, nè mostrarti schiva

Di minor vanto e di minore impero.

Torna; e se cerchi errante fuggitiva

Devoti per l’Europa animi ligi,

E tempio degno di sì bella diva,

Non t’aggirar del morbido Parigi

Cotanto per le vie, nè sulle sponde

Della Neva, dell’Istro e del Tamigi.

Volgi il guardo d’Italia alle gioconde

Alme contrade, e per miglior cagione

Del fiume tiberin férmati all’onde.

Non è straniero il loco e la magione.

Qui fu dove dal cigno venosino

Vagheggiar ti lasciasti, e da Marone;

E qui reggesti del Pittor d’Urbino

I sovrani pennelli, e di quel d’Arno

«Michel più che mortale angel divino».

Ferve d’alme sì grandi, e non indarno,

Il genio redivivo. Al suol romano

D’Augusto i tempi e di Leon tornarno

Vedrai stender giulive a te la mano

Grandezza e Maestà, tue suore antiche

Che ti chiaman da lungi in Vaticano.

T’infioreranno le bell’Arti amiche

La via, dovunque volgerai le piante,

Te propizia invocando alle fatiche.

Per te all’occhio divien viva e parlante

La tela e il masso; ed il pensiero è in forsi

Di crederlo insensato e palpitante;

Per te di marmi i duri alpestri dorsi

Spoglian le balze tiburtine, e il monte

Che Circe empieva di leoni e d’orsi;

Onde poi mani architettrici e pronte

Di moli aggravan la latina arena

D’eterni fianchi e di superba fronte:

Per te risuona la notturna scena

Di possente armonia che l’alme bèa,

E gli affetti lusinga ed incatena.

E questa selva, che la selva ascrea

Imita, e suona di febeo concento,

Tutta è spirante del tuo nume, o dea;

E questi lauri che tremar fa il vento,

E queste che premiam tenere erbette,

Sono d’un tuo sorriso opra e portento.

E tue pur son le dolci canzonette

Che ad Imeneo cantar dianzi s’intese

L’arcade schiera su le corde elette.

Stettero al grato suon l’aure sospese,

E il bel Parrasio a replicar fra nui

Di Luigi e Costanza il nome apprese.

Ambo cari a te sono, e ad ambidui

Su l’amabil sembiante un feritore

Raggio imprimesti de’ begli occhi tui;

Raggio che prese poi la via del core,

E di virtù congiunto all’aurea face

Fe’ nell’alme avvampar quella d’amore.

Vien dunque, amica diva. Il tempo edace,

Fatal nemico, colla man rugosa

Ti combatte, ti vince e ti disface.

Egli il color del giglio e della rosa

Toglie alle gote più ridenti, e stende

Da per tutto la falce ruinosa.

Ma se teco Virtù s’arma e discende

Nel cuor dell’uomo ad abitar sicura,

Passa il veglio rapace, e non t’offende.

O solo, allorché fia che di natura

Ei franga la catena, e urtate e rotte

Dell’universo cadano le mura,

E spalancando le voraci grotte

L’assorba il nulla, e tutto lo sommerga

Nel muto orror della seconda notte,

Al fracassato mondo allor le terga

Darai fuggendo, e su l’eterea sede,

Ove non fia che tempo ti disperga,

Stabile fermerai l’eburneo piede.




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