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Vincenzo Monti
Poesie

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  • PARTE II SERMONI, IDILLI, CANTI
    • Al Principe Don Sigismondo Chigi
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Al Principe Don Sigismondo Chigi

 

Dunque fu di natura ordine e fato,

Che di là donde il bene ne deriva,

Del mal pur anco scaturir dovesse

La torbida sorgente? Oh saggio! oh solo

A me rimasto negli avversi casi

Consolator, che non torcesti mai

Dalle pene d’altrui lungi lo sguardo,

E scarso di parole e largo d’opre

Co’ benefizi al mio dolor soccorri,

Gismondo, e qual di gioie e di martíri

Portentosa mistura è il cuor dell’uomo!

Questa parte di me, che sente e vede,

Questo di vita fuggitivo spirto

Che mi scalda le membra e le penètra,

Con quale ardor, con qual diletto un tempo

Scorrea pe’ campi di natura, e tutte

A me dintorno rabbellía le cose!

Or s’è cangiato in mio tiranno, in crudo

Carnefice, che il frale, onde son cinto,

Romper minaccia, e le corporee forze,

Qual tarlo roditor, logora e strugge.

Giorni beati, che in solingo asilo

Senza nube passai, chi vi disperse?

Ratti qual lampo che la buia notte

Segna talor di momentaneo solco,

E su gli occhi le tenebre raddoppia

Al pellegrin che si sgomenta e guata,

Qual mio fallo v’estinse? e tanto amara

Or mi rende di voi la rimembranza,

Che pria sì dolce mi scendea sul core?

Allorchè il Sole (io lo rammento spesso)

D’Orïente sul balzo compariva

A risvegliar dal suo silenzio il mondo,

E agli oggetti rendea più vivi e freschi

I color che rapiti avea la sera,

Dall’umile mio letto anch’io sorgendo

A salutarlo m’affrettava, e fiso

Tenea l’occhio a mirar come nascoso

Di là dal colle ancora ei fea da lunge

Degli alti gioghi biondeggiar le cime;

Poi, come lenta in giù scorrea la luce

Il dorso imporporando e i fianchi alpestri,

E dilatata a me venía d’incontro,

Che a’ piedi l’attendea della montagna.

Dall’umido suo sen la terra allora

Su le penne dell’aure mattutine

Grata innalzava di profumi un nembo;

E altero di sè stesso, e sorridente

Su i benefizi suoi l’aureo pianeta

Nel vapor, che odoroso ergeasi in alto,

Gía rinfrescando le divine chiome,

E fra il concento degli augelli e il plauso

Delle create cose egli sublime

Per l’azzurro del ciel spingea le rote.

Allor sul fresco margine d’un rivo

M’adagiava tranquillo in su l’erbetta,

Che lunga e folta mi sorgea dintorno,

E tutto quasi mi copriva: ed ora

Supino mi giacea, fosche mirando

Pender le selve dall’opposta balza,

E fumar le colline, e tutta in faccia

Di sparsi armenti biancheggiar la rupe;

Or rivolto col fianco al ruscelletto,

Io mi fermava a riguardar le nubi,

Che tremolando si vedean riflesse

Nel puro trapassar specchio dell’onda:

Poi, del gentil spettacolo già sazio,

Tra i cespi, che mi fean corona e letto,

Si fissava il mio sguardo, e attento e cheto

Il picciol mondo a contemplar poneami,

Che tra gli steli brulica dell’erbe,

E il vago e vario degl’insetti ammanto,

E l’indole diversa e la natura.

Altri a torma e fuggenti in lunga fila

Vengono e van per via carchi di preda,

Altri sta solitario, altri l’amico

In suo cammino arresta, e con lui sembra

Gran cose conferir: questi d’un fiore

L’ambrosia sugge e la rugiada, e quello

Al suo rival ne disputa l’impero;

E venir tosto a lite, ed azzuffarsi,

E avviticchiati insieme ambo repente

Giù dalla foglia sdrucciolar li vedi.

Nè valor manca in quegli angusti petti,

Previdenza, consiglio, odio ed amore.

Quindi alcuni tra lor miti e pietosi

Prestansi aíta ne’ bisogni; assai

Migliori in ciò dell’uom, che al suo fratello

Fin nella stessa povertà fa guerra:

Ed altri poscia, da vorace istinto

Alla strage chiamati ed agl’inganni,

Della morte d’altrui vivono, e sempre

Del più gagliardo, come avvien tra noi,

O del più scaltro la ragion prevale.

Questi gli oggetti, e questi erano un tempo

Gli eloquenti maestri, che di pura

Filosofia m’empian la mente e il petto;

Mentre soave mi sentía sul volto

Spirar del Nume onnipossente il soffio,

Quel soffio che le viscere serpendo

Dell’ampia terra, e ventilando il chiuso

Elementar foco di vita, e tutta

La materia agitando, e le seguaci

Forme che inerti le giaceano in grembo,

L’une contro dell’altre in bel conflitto

Arma le forze di natura, e tragge

Da tanta guerra l’armonia del mondo.

Scorreami quindi per le calde vene

Un torrente di gioia, e discendea

Questo vasto universo entro mia mente,

Or come grave sasso che nel mezzo

Piomba d’un lago, e l’agita e sconvolge,

E lo fa tutto ribollir dal fondo;

Or come immago di leggiadra amante,

Che di grato tumulto i sensi ingombra,

E serena sul cor brilla e riposa.

Ma più quell’io non son. Cangiaro i tempi,

Cangiâr le cose. Della gioia estremo

Regnò sull’alma il sentimento: estremi

Or vi regnano ancora i miei martíri.

E come stenderò su le ferite

L’ardita mano, e toglieronne il velo?

Una fulgida chioma al vento sparsa,

Un dolce sguardo ed un più dolce accento,

Un sorriso, un sospir dunque potero

Non preveduto suscitarmi in seno

Tanto incendio d’affetti e tanta guerra?

E non son questi i fior, queste le valli,

Che già parver sì belle agli occhi miei?

Chi di fosco le tinse? e chi sul ciglio

Mi calò questa benda? Ohimè! l’orrore,

Che sgorga di mia mente e il cor m’allaga,

Di natura si sparse anche sul volto,

E l’abbuiò. Me misero! non veggo

Che lugubri deserti: altro non odo

Che urlar torrenti e mugolar tempeste.

Dovunque il passo e la pupilla movo

Escono d’ogni parte ombre e paure,

E muta stammi e scolorita innanzi

Qual deforme cadavere la terra.

Tutto è spento per me. Sol vive eterno

Il mio dolor, nè mi riman conforto

Che alzar le luci al cielo, e sciormi in pianto.

Ah che mai vagheggiarti io non dovea,

Fatal beltade! Senza te venuto

Questo non fôra orribil cangiamento.

Girar tranquillo sul mio capo avrei

Visto i pianeti, e più tranquilla ancora

La mia polve tornar donde fu tolta.

Ma in que’ vergini labbri, in que’ begli occhi

Aver quest’occhi inebrïati, e dolce

Sentirmi ancor nell’anima rapita

Scorrere il suono delle tue parole;

Amar te sola, e rïamato amante

Non essere felice; e veder quindi

Contra me, contra te, contra le voci

Di natura e del ciel sorger crudeli

Gli uomini, i pregiudizi e la fortuna;

Perder la speme di donarti un giorno

Nome più sacro che d’amante, e caro

Peso vederti dal mio collo pendere,

E d’un bacio pregarmi, e d’un sorriso

Con angelico vezzo: abbandonarti...

Obblïarti, e per sempre... Ah lungi, lungi,

Feroce idea; tu mi spaventi, e cangi

Tutta in furor la tenerezza mia.

Allor requie non trovo. Io m’alzo e corro

Forsennato pe’ campi, e di lamenti

Le caverne rïempio, che dintorno

Risponder sento con pietade. Allora

Per dirupi m’è dolce inerpicarmi,

E a traverso di folte irte boscaglie

Aprir la via col petto, e del mio sangue

Lasciarmi dietro rosseggianti i dumi.

La rabbia, che per entro mi divora,

Di fuor trabocca. Infiammansi le membra,

L’anelito s’addoppia, e piove a rivi

Il sudor dalla fronte rabbuffata.

Più scabrezza al sentier, più forza al piede,

Più ristoro al mio cor: finchè smarrito,

Di balza in balza valicando, all’orlo

D’un abisso mi spingo. A riguardarlo

Si rizzano le chiome e il piè s’arretra.

A poco a poco quel terror poi cede,

E un pensiero sottentra ed un desío,

Disperato desío. Ritto su i piedi

Stommi, ed allargo le tremanti braccia

Inclinandomi verso la vorago.

L’occhio guarda laggiuso, e il cor respira,

E immaginando nel piacer mi perdo

Di gittarmi là dentro, onde a’ miei mali

Por termine, e nei vortici travolto

Romoreggiar del profondo torrente.

Codardo! ancora non osai dall’alto

Staccar l’incerto piede, e coraggioso

In giù col capo rovesciarmi. Ancora

Al suo fin non è giunta la mia polve,

E un altro istante mi condanna il fato

Di questo sole a contemplar l’aspetto.

Oh! perchè non poss’io la mia deporre

D’uom tutta dignitade, e andar confuso

Col turbine che passa, e su le penne

Correr del vento a lacerar le nubi,

O su i campi a destar dell’ampio mare

Gli addormentati nembi e le procelle!

Prigioniero mortal! dunque non fia

Questo diletto un dì, questo destino

Parte di nostra eredità? Qualunque

Mi serbi il ciel condizïon di spirto,

Perchè, Gismondo, prolungar cotanto

Questo lampo di luce? Un sol potea,

Un solo oggetto lusingarmi: il cielo

Al mio desire invidïollo, e l’odio

Mi lasciò della vita e di me stesso.

Tu di Sofia cultor felice, e speglio

Di candor, d’amistade e cortesia,

Tu per me vivi, e su l’acerbo caso

Una stilla talor spargi di pianto,

O generoso degli afflitti amico.

Allorchè d’un bel giorno in su la sera

L’erta del monte ascenderai soletto,

Di me ti risovvenga, e su quel sasso,

Che lagrimando del mio nome incisi,

Su quel sasso fedel siedi e sospira.

Volgi il guardo di là verso la valle,

E ti ferma a veder come da lunge

Su la mia tomba invia l’ultimo raggio

Il sol pietoso e dolcemente il vento

Fa l’erba tremolar che la ricopre.




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