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Vincenzo Monti Poesie IntraText CT - Lettura del testo |
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Il PericoloIN OCCASIONE DELLE TURBOLENZE PARIGINE D’AVANTI IL 18 FRUTTIDORO ANNO V
Stendi, fido amor mio, sposa diletta, A quell’arpa la man, che la soave Dolce fatica di tue dita aspetta: Svegliami l’armonia ch’entro le cave Latebre alberga del sonoro legno, E de’ forti pensier volgi la chiave: Ch’io le vene tremar sento e l’ingegno, Ed agitarsi all’appressar del dio Sul crin l’alloro e di furor dar segno. Ove, Febo, mi traggi? ove son io? Non è questa la Senna e la famosa Riva che tanto di veder desìo? Salve, o fiume che l’onda glorïosa Dell’Ilisso vincesti e dell’Eurota E fai quella del Tebro andar pensosa! Qual t’è maniera di bell’opra ignota? Qual fonte ascoso di saper? qual’arte? E chi, dovunque il sol volge la rota, Chi meglio parla al cor, verga le carte? Qual più bella ed al ciel terra gradita Della terra che in grembo ha Bonaparte? Oh più che d’arme, di valor vestita, Gallica Libertà, a cui sola diede La ragion di Sofia principio e vita! Di te tremano i troni; ed al tuo piede Palpitanti i tiranni, pace pace Gridan, giurando riverenza e fede: Ma se fede è sul labbro, il cor fallace Sol di sangue ragiona e di vendetta, Che in re vili e superbi unqua non tace. Oh cara, oh santa Libertà, che stretta Di nodi ti rinfranchi, e vie più bella Da’ tuoi mali risorgi e più perfetta! Alma d’invidia e di vil odio ancella, Alma avara e crudel non è tua figlia, Nè cui febbre d’orgoglio il cor martella. Libera è l’alma che gli affetti imbriglia, Libero l’uomo cui ragion corregge E onor giustizia cortesia consiglia: Liberi tutti, se dover ne regge In pria che dritto e santità ne guida Più di costumi che poter di legge. Queste cose io volgea dentro la fida Mente segreta, allor che voce acuta In suon di doglia e di pietà mi grida: Ah che nel petto de’ miei figli è muta La virtù di che parli, o pellegrino! Disse; e in pianto la voce andò perduta. Mi volsi; e in volto che apparía divino Donna vidi seder, che della manca Fa letto al capo dolorato e chino. La destra in grembo dolcemente stanca Cade e posa. Degli occhi io non favello, Che son due rivi; e più piange, più manca Del conforto la voglia. Al piè sgabello Le fan rotti un diadema ed uno scetro, E di Bruto l’insegna è il suo cappello. Volea parlarle e dimandar: ma dietro Tomba aprirsi m’intesi, e la figura Mi sopravvenne d’un orrendo spetro. Impetrommi le membra la paura; E trema la memoria al rio pensiero, Che vivo nella mente ancor mi dura. Più che buio d’inferno ei fosco e fiero Portava il ciglio, e livido l’aspetto D’un cotal verde che moría nel nero. Dalle occhiaie, dal naso e dall’infetto Labbro la tabe uscía sanguigna e pesta, Che tutto gli rigava il mento e il petto: E scomposte le chiome in su la testa D’irti vepri parean selva selvaggia, Ch’aspro il vento rabbuffa e la tempesta. Striscia di sangue il collo gli viaggia, Che della scure accenna la percossa: Il capo ne vacilla, e par che caggia. Stracciato e sparso d’aurei gigli indossa Manto regal, che il marcio corpo e guasto Scopre al mover dell’anca e le scarne ossa, E de’ vermi rivela il fiero pasto, Che nel putrido ventre cavernoso Brulicando per fame avean contrasto. All’apparir che fece il tenebroso Regal fantasma, la donna affannata Il mesto sollevò ciglio pensoso: E a lui che intorno avidamente guata Fra téma e sdegno: A che venisti, disse, O fatal di Capeto ombra spietata? Non rispose il crudel; ma obliquo fisse Gli occhi no, ma degli occhi le caverne In ella; ed ella in lui gli occhi rifisse. Così guatârsi entrambi; e nell’interne Del cor latèbre ognun si penetrava, Chè il pensier per la vista ancor si scerne. L’un d’ira, e l’altra di terror tremava. Superbamente alfin l’ombra si mosse, E a cadenza le lunghe orme alternava. Con feroce dispetto al piè chinosse Di quella dolorosa; il calpestato Scettro raccolse, ed alto in man lo scosse; Poi l’infranto diadema insanguinato Sul capo impose, e lo calcò sì forte, Che il crin ne giacque oppresso e imprigionato. Allor si feo gigante; e colle torte Vuote lucerne disfidar parea Europa e l’altre tre sorelle a morte. Facea tre passi; e al terzo si volgea In sui calcagni eretto e sui vestigi; E ad ogni passo di terror crescea. È sacro a Libertà luogo in Parigi, Ove pose la dea suo trono immoto Quando sdegnosa ne balzò Luigi. Ivi seduti e liberi in lor vóto Stan cinquecento, che alle sante leggi Per cinquecento fantasie dan moto. O tu che su le carte il senno leggi Di quel consesso che in Atene il crime Punía de’ numi da’ tremendi seggi, O la severa maestà sublime Di quei coscritti che in muta terra Reggean col cenno dalle sette cime; Di questi ond’io ti parlo, in mente afferra I magnanimi sensi e la grandezza Ma non l’ira il furor, l’odio, la guerra. Qual dell’Euripo è il flutto che si spezza Contro gli scogli della rauca Eubèa, Tal di questi il fracasso e la fierezza: Nè diversa era l’onda cïanea, O quella che soffrì di Serse il ponte Quando al cozzo d’Europa Asia correa. Improvviso, e sembiante ad arduo monte, Qui comparve lo spettro maledetto: Tremâr gli scanni, e i crin rizzarsi in fronte. Stette in mezzo, girò torvo l’aspetto, E stendendo la man spolpata e lunga, Con lo scettro toccò questo e quel petto. Come è scosso colui che il dito allunga Al leidense vetro che fiammeggia E par che snodi i nervi e li trapunga, Così del crudo ai colpi arde e vampeggia Ogni seno percosso, e amor, disio Dell’estinto tiranno i cuor dardeggia. E subito un tumulto un mormorío, E d’accenti un conflitto e di pensieri Da quelle bocche fulminanti uscío; E parole di morte onde que’ feri Van susurrando, simiglianti a tuono Che iracondo del ciel scorre i sentieri: Tremò di Libertade il santo trono; Tremò Parigi, intorbidossi Senna Alle spade civili in abbandono: Ma di Vandea le valli e di Gebenna Si rallegrâr le rupi, ed un muggito Mandâr di gioia alla mal vinta Ardenna. L’Istro udillo; e levò più ch’anzi ardito Il mozzo corno, e al suo scettrato augello Fe’ l’italo sperar nido rapito. L’udì Sebeto, e rise in suo bordello: Roma udillo, e la lupa tiberina Sollevò il muso e si fe’ liscio il vello. Ma la vergine casta cisalpina Mise un sospiro, e a quel sospir snudati Mille brandi fuggir dalla vagina; Chè al dolor di costei, di Francia i fati Visti in periglio, alzâr la fronte i figli D’ira, di ferro e di pietade armati; E su i pugnali tuttavia vermigli Fêr di salvarla sacramento, tutti Arruffando feroci i sopraccigli. Di Sambra e Mosa i bellicosi flutti Risposero a quel giuro; e allor non tenne I rai la Donna di Parigi asciutti. Chiudi la bocca, ohimè! frena le penne, Loquace fama, e fra’ nemici il pianto Deh non si sappia che colei sostenne. E voi che crudi della madre il santo Petto offendete, al suo tiranno antico Ricuperando la corona e il manto, Al suo tiranno, al suo tiranno, io dico; Che tentate infelici? Ah! se tal guerra Le danno i figli, che farà il nemico? Già non più vacillanti in su la terra, Acquistan piede e fondamento i troni; Già Lamagna, già l’avida Inghilterra Fan su la Senna di lor voce i tuoni Mormorar più possenti, a cui risponde Il signor de’ settemplici trïoni. Già de’ suoi vanni le dalmatich’onde Copre l’aquila ingorda, a cui cresciute Son l’ugne che del Po perse alle sponde; E alla sua vista pavide e sparute Cela le corna l’ottomana luna, E l’isolette dell’Egèo stan mute. Tradita intanto l’itala fortuna Di voi duolsi, di voi che libertade Le contendete non divisa ed una, E con furor che in basse alme sol cade, Tutto scoprendo all’inimico il fianco, In voi stessi volgete empi le spade. Già non aveste il cor sì baldo e franco, Quando su l’Alpi la tedesca e sarda Rabbia ruggiva; e non avea pur anco Di Bonaparte l’anima gagliarda Le cozie porte superate, e doma Di Piemonte la valle e la lombarda. Ei vi fe’ tersa e lucida la chioma; Ei, pugnando e vincendo e stanco mai, De’ vostri mali allevïò la soma: Ei vi fe’ ricchi ed eleganti e gai, Ei vi fece superbi; e se non basta, Ingrati e vili: e ciò fu colpa assai. Or dritto è ben se della tanta e vasta Sua fatica ed impresa una mercede Sì ria gli torna, e infamia gli sovrasta: Dritto è ben se l’Italia, che vi diede D’auro e d’arte tesori, or la meschina Aíta indarno e libertà vi chiede. Potè, oh vergogna!, la virtù latina Domar la greca, e libere le genti Mandar, compenso della sua rapina: E voi, Franchi, di Bruto ai discendenti, Voi premio d’amistà, premio d’affanni, Sol catene darete e tradimenti? Deh! non rida all’idea de’ nostri danni La serva d’Europa, nè di voi sia detta Fra gli amici quest’onta e fra’ tiranni. Non più spregio di noi, non più negletta L’itala sorte, e fra voi stessi aperta Non più lite, per dio, non più vendetta! O servitù tra poco e dura e certa Voi pur v’avrete; e giusta fia la pena. Ha cuor villano, e libertà non merta Chi l’amico lasciò nella catena. |
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