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Vincenzo Monti Poesie IntraText CT - Lettura del testo |
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PARTE III POEMETTIIn morte di Ugo Bassville
CANTO PRIMO
Già vinta dell’inferno era la pugna, E lo spirto d’abisso si partìa Vòta stringendo la terribil ugna. Come lion per fame egli ruggía Bestemmiando l’Eterno, e le commosse Idre del capo sibilâr per via. Allor timide l’ali aperse e scosse L’anima d’Ugo alla seconda vita Fuor delle membra del suo sangue rosse; E la mortal prigione ond’era uscita Subito indietro a riguardar si volse Tutta ancor sospettosa e sbigottita. Ma dolce con un riso la raccolse E confortolla l’angelo beato Che contro Dite a conquistarla tolse. E, Salve, disse, o spirto fortunato, Salve, sorella del bel numer una, Cui rimesso è dal cielo ogni peccato. Non paventar: tu non berai la bruna Onda d’Averno, da cui volta è in fuga Tutta speranza di miglior fortuna. Ma la giustizia di lassù, che fruga Severa, e in un pietosa in suo diritto, Ogni labe dell’alma ed ogni ruga, Nel suo registro adamantino ha scritto, Che all’amplesso di Dio non salirai Finchè non sia di Francia ulto il delitto. Le piaghe intanto e gl’infiniti guai, Di che fosti gran parte, or per emenda Piangendo in terra e contemplando andrai. E supplicio ti fia la vista orrenda Dell’empia patria tua, la cui lordura Par che del puzzo i firmamenti offenda; Sì che l’alta vendetta è già matura, Che fa dolce di Dio nel suo segreto L’ira ond’è colma la fatal misura a Così parlava; e riverente e cheto Abbassò l’altro le pupille, e disse: Giusto e mite, o Signor, è il tuo decreto. Poscia l’ultimo sguardo al corpo affisse Già suo consorte in vita, a cui le vene Sdegno di zelo e di ragion trafisse; Dormi in pace, dicendo, o di mie pene Caro compagno, infin che del gran die L’orrido squillo a risvegliar ti viene. Lieve intanto la terra e dolci e pie Ti sian l’aure e le piogge, e a te non dica Parole il passeggier scortesi e rie. Oltre il rogo non vive ira nemica, E nell’ospite suolo, ov’io ti lasso, Giuste son l’alme, e la pietade è antica. Torse, ciò detto, sospirando il passo Quella mest’ombra, e alla sua scorta dietro Con volto s’avviò pensoso e basso; Di ritroso fanciul tenendo il metro, Quando la madre a’ suoi trastulli il fura, Che il piè va lento innanzi e l’occhio indietro. Già di sua veste rugiadosa e scura Copría la notte il mondo, allor che diero Quei duo le spalle alle romulee mura. E nel levarsi a volo ecco di Piero Sull’altissimo tempio alla lor vista Un cherubino minaccioso e fiero Un di quei sette che in argentea lista Mirò fra i sette candelabri ardenti Il rapito di Patmo evangelista. Rote di fiamme gli occhi rilucenti E cometa che morbi e sangue adduce Parean le chiome abbandonate ai venti. Di lugubre vermiglia orrida luce Una spada brandía, che da lontano Rompea la notte e la rendea più truce; E scudo sostenea la manca mano Grande così, che da nemica offesa Tutto copría coll’ombra il Vaticano; Come aquila che sotto alla difesa Di sue grand’ali rassicura i figli Che non han l’arte delle penne a appresa, E, mentre la bufera entro i covigli Tremar fa gli altri augei, questi a riposo Stansi allo schermo de’ materni artigli. Chinarsi in gentil atto ossequïoso, Oltre volando, i due minori spirti Dell’alme chiavi al difensor sdegnoso. Indi veloci in men che nol so dirti Giunsero dove gemebondo e roco Il mar si frange tra le sarde sirti. Ed al raggio di luna incerto e fioco Vider spezzate antenne, infrante vele, Del regnator libecchio orrendo gioco, E sbattuti dall’aspra onda crudele Cadaveri e bandiere; e disperdea L’ira del vento i gridi e le querele. Sul lido intanto il dito si mordea La temeraria Libertà di Francia, Che il cielo e l’acque disfidar parea. Poi del suo ardire si battea la guancia, Venir mirando la rival Brettagna A fulminarle dritta al cor la lancia, E dal silenzio suo scossa la Spagna Tirar la spada anch’essa e la vendetta Accelerar d’Italia e di Lamagna: Mentre il Tirren che la gran preda aspetta Già mormora e si duol che la sua spuma Ancor non va di franco sangue infetta, E l’ira nelle sponde invan consuma, Di Nizza inulto rimirando il lutto Ed Oneglia che ancor combatte e fuma. Allor che vide la ruina e il brutto Oltraggio la francese anima schiva, Non tenne il ciglio per pietade asciutto; E il suo fido condottier seguiva Vergognando e tacendo, infin che sopra Fur di Marsiglia alla spietata riva. Di ferità, di rabbia orribil opra Ei vider quivi, e Libertà che stolta In Dio medesmo l’empie mani adopra. Videro, ahi vista!, in mezzo della folta Starsi una croce col divin suo peso Bestemmiato e deriso un’altra volta, E a piè del legno redentor disteso Uom coperto di sangue tuttoquanto, Da cento punte in cento parti offeso. Ruppe a tal vista in un più largo pianto L’eterea pellegrina; ed una vaga Ombra cortese le si trasse a canto. Oh tu cui sì gran doglia il ciglio allaga, Pietosa anima, disse, che qui giunta Se’ dove di virtude il fio si paga, Sóstati e m’odi. In quella spoglia emunta D’alma e di sangue (e l’accennò), per cui Sì dolce in petto la pietà ti spunta, Albergo io m’ebbi: manigoldo fui E peccator, ma l’infinito amore Di quei mi valse che morì per nui. Perocchè dal costoro empio furore A gittar strascinato (ahi! parlo o taccio?) De’ ribaldi il capestro al mio Signore, Di man mi cadde l’esecrato laccio, E rizzârsi le chiome, e via per l’ossa Correr m’intesi e per le gote il ghiaccio. Di crudi colpi allor rotta e percossa Mi sentii la persona a, e quella croce Fei del mio sangue anch’io fumante e rossa; Mentre a Lui che quaggiù manda veloce Al par de’ sospir nostri il suo perdono Il mio cor si volgea più che la voce. Quind’ei m’accolse Iddio clemente e buono, Quindi un desir mi valse il paradiso, Quindi beata eternamente io sono. Mentre l’un sì parlò, l’altro in lui fiso Tenea lo sguardo, e sì piangea, che un velo Le lagrime gli fean per tutto il viso; Simigliante ad un fior che in su lo stelo Di rugiada si copre in pria che il sole Co’ raggi il venga a colorar dal cielo. Poi, gli amplessi mescendo e le parole, De’ propri casi il satisfece anch’esso, Siccome fra cortesi alme si suole. E questi, e l’altro, e il cherubino appresso, Adorando la croce e nella polve In devoto cadendo atto sommesso, Di Dio cantaro la bontà che solve Le rupi in fonte ed ha sì larghe braccia Che tutto prende ciò che a lei si volve. Sollecitando poscia la sua traccia L’alato duca, l’ombre benedette Si disser vale e si baciaro in faccia. Ed una si rimase alle vedette, Ad aspettar che su la rea Marsiglia Sfreni l’arco di Dio le sue saette. Sovra il Rodano l’altra il vol ripiglia, E via trapassa d’Avignon la valle Già di sangue civil fatta vermiglia; D’Avignon che, smarrito il miglior calle, Alla pastura intemerata e fresca Dell’ovile roman volse le spalle, Per gir co’ ciacchi di Parigi in tresca A cibarsi di ghiande, onde la Senna, Novella Circe a, gli amatori adesca. Lasciò Garonna addietro, e di Gebenna Le cave rupi e la pianura immonda Che ancor la strage camisarda accenna. Lasciò l’irresoluta e stupid’onda D’Arari a dritta, e Ligeri a mancina, Disdegnoso del ponte e della sponda. Indi varca la falda tigurina, A cui fe’ Giulio dell’augel di Giove Sentir la prima il morso e la rapina. Poi Niverno trascorre, ed oltre move Fino alla riva u’ d’Arco la donzella Fe’ contra gli Angli le famose prove. Di là ripiega inverso la Rocella Il remeggio dell’ali, e tutto mira Il suol che l’aquitana onda flagella. Quindi ai celtici boschi si rigira Pieni del canto che il chiomato bardo Sposava al suon di bellicosa lira. Traversa Normandia, traversa il tardo Sbocco di Senna e il lido che si fiede Dal mar britanno infino al mar piccardo. Poi si converte ai gioghi onde procede La Mosa e al piano che la Marna lava, E orror per tutto, e sangue e pianto vede. Libera vede andar la colpa, e schiava La virtù, la giustizia, e sue bilance In man del ladro e di vil ciurma prava, A cui le membra grave-olenti e rance Traspaiono da’ sai sdruciti e sozzi, Nè fur mai tinte per pudor le guance. Vede luride forche e capi mozzi, Vede piene le piazze e le contrade Di fiamme, d’ululati e di singhiozzi. Vede in preda al furor d’ingorde spade Le caste chiese, e Cristo in sacramento Fuggir ramingo per deserte strade, E i sacri bronzi in flebile lamento Giù calar dalle torri e liquefarsi In rie bocche di morte e di spavento. Squallide vede le campagne ed arsi I pingui cólti, e le falci e le stive In duri stocchi e in lance trasmutarsi. Odi frattanto risonar le rive Non di giocondi pastorali accenti, Non d’avene, di zuffoli e di pive, Ma di tamburi e trombe e di tormenti: E il barbaro a soldato al villanello Le méssi invola e i lagrimati armenti. E invan si batte l’anca il meschinello, Invan si straccia il crin disperso e bianco In su la soglia del deserto ostello: Che non pago d’avergli il ladron franco Rotta del caro pecoril la sbarra, I figli, i figli strappagli dal fianco; E del pungulo invece e della marra D’armi li cinge dispietate e strane, E la ronca converte in scimitarra. All’orbo padre intanto ahi! non rimane Chi la cadente vita gli sostegna, Chi sovra il desco gli divida il pane. Quindi lasso la luce egli disdegna, E brancolando per dolor già cieco Si querela che morte ancor non vegna; Nè pietà di lui sente altri che l’eco, Che cupa ne ripete e lamentosa Le querimonie dall’opposto speco. Fremè d’orror, di doglia generosa Allo spettacol fero e miserando La conversa d’Ugon alma sdegnosa, E si fe’ del color ch’il ciel è quando Le nubi immote e rubiconde a sera Par che piangano il dì che va mancando. E tutta pinta di rossor com’era Parlar, dolersi, dimandar volea, Ma non usciva la parola intera; Chè la piena del cor lo contendea; E tuttavolta il suo diverso affetto Palesemente col tacer dicea. Ma la scorta fedel, che dall’aspetto Del pensier s’avvisò, dolce alla sua Dolorosa seguace ebbe sì detto: Sospendi il tuo terror, frena la tua Indignata pietà, chè ancor non hai Nell’immenso suo mar volta la prua. S’or sì forte ti duoli, oh! che farai, Quando l’orrido palco e la bipenne... Quando il colpo fatal..., quando vedrai?... E non finì; chè tal gli sopravvenne Per le membra immortali un brividío, Che a quel truce pensier troncò le penne; Sì che la voce in un sospir morío.
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