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Vincenzo Monti Poesie IntraText CT - Lettura del testo |
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CANTO SECONDO
Alle tronche parole, all’improvviso Dolor che di pietà l’angel dipinse, Tremò quell’ombra e si fe’ smorta in viso; E sull’orme così si risospinse Del suo buon duca che davanti andava Pien del crudo pensier che tutto il vinse. Senza far motto il passo accelerava, E l’aria intorno tenebrosa e mesta Del suo volto la doglia accompagnava. Non stormiva una fronda alla foresta, E sol s’udía tra’ sassi il rio lagnarsi, Siccome all’appressar della tempesta. Ed ecco manifeste al guardo farsi Da lontano le torri, ecco l’orrenda Babilonia francese approssimarsi. Or qui vigor la fantasia riprenda, E l’ira e la pietà mi sian la Musa Che all’alto e fiero mio concetto ascenda. Curva la fronte e tutta in sè racchiusa La taciturna coppia oltre cammina; E giunge alfine alla città confusa, Alla colma di vizi atra sentina, A Parigi, che tardi e mal si pente Della sovrana plebe cittadina. Sul primo entrar della città dolente Stanno il Pianto, le Cure e la Follía Che salta e nulla vede e nulla sente. Evvi il turpe Bisogno e la restía Inerzia colle man sotto le ascelle L’una all’altra appoggiati in sulla via. Evvi l’arbitra Fame, a cui la pelle Informasi dall’ossa e i lerci denti Fanno orribile siepe alle mascelle. Vi son le rubiconde Ire furenti, E la Discordia pazza il capo avvolta Di lacerate bende e di serpenti. Vi son gli orbi Desiri, e della stolta Ciurmaglia i Sogni e le Paure smorte Sempre il crin rabbuffate e sempre in volta. Veglia custode delle meste porte E le chiude a suo senno e le disserra L’ancella e insieme la rival di Morte; La cruda, io dico, furibonda Guerra Che nel sangue s’abbevera e gavazza E sol del nome fa tremar la terra. Stanle intorno l’Erinni, e le fan piazza, E allacciando le van l’elmo e la maglia Della gorgiera e della gran corazza; Mentre un pugnal battuto alla tanaglia De’ fabbri di Cocito in man le caccia, E la sprona e l’incuora alla battaglia Un’altra furia di più acerba faccia, Che in Flegra già del cielo assalse il muro E armò di Brïareo le cento braccia, E Dïagora poscia e d’Epicuro Dettò le carte, ed or le franche scuole Empie di nebbia e di blasfema impuro, E con sistemi e con orrende fole Sfida l’Eterno, e il tuono e le saette Tenta rapirgli e il padiglion del sole. Come vide le facce maledette, Arretrossi d’Ugon l’ombra turbata, Chè in inferno arrivar la si credette: E in quel sospetto sospettò cangiata La sua sentenza, e dimandar volea Se fra l’alme perdute iva dannata. Quindi tutta per téma si stringea Al suo conducitor, che pensieroso Le triste soglie già varcate avea. Era il tempo che tolto al procelloso Capro, il sol monta alla troiana stella Scarso il raggio vibrando e neghittoso; E compito del dì la nona ancella L’officio suo, il governo abbandonava Del timon luminoso alla sorella: Quando chiuso da nube oscura e cava L’angel coll’ombra inosservato e queto Nella città di tutti i mali entrava. Ei procedea depresso ed inquïeto Nel portamento, i rai celesti empiendo Di largo ad or ad or pianto segreto; E l’ombra si stupía, quinci vedendo Lagrimoso il suo duca e possedute Quindi le strade da silenzio orrendo. Muto de’ bronzi il sacro squillo, e mute L’opre del giorno, e muto lo stridore Dell’aspre incudi e delle seghe argute: Sol per tutto un bisbiglio ed un terrore, Un domandare, un sogguardar sospetto, Una mestizia che ti piomba al core; E cupe voci di confuso affetto, Voci di madri pie, che gl’innocenti Figli si serran trepidando al petto; Voci di spose che ai mariti ardenti Contrastano l’uscita e sulle soglie Fan di lagrime intoppo e di lamenti. Ma tenerezza e carità di moglie Vinta è da furia di maggior possanza, Che dall’amplesso coniugal gli scioglie. Poichè fera menando oscena danza Scorrean di porta in porta affaccendati Fantasmi di terribile sembianza; De’ Druidi i fantasmi insanguinati, Che fieramente dalla sete antiqua Di vittime nefande stimolati, A sbramarsi venían la vista obliqua Del maggior de’ misfatti onde mai possa La loro superbir semenza iniqua. Erano in veste d’uman sangue rossa; Sangue e tabe grondava ogni capello, E ne cadea una pioggia ad ogni scossa. Squassan altri un tizzone, altri un flagello Di chelidri e di verdi anfesibene, Altri un nappo di tósco, altri un coltello: E con quei serpi percotean le schiene E le fronti mortali, e fean, toccando Con gli arsi tizzi, ribollir le vene. Allora delle case infurïando Uscían le genti, e si fuggía smarrita Da tutti i petti la pietade in bando. Allor trema la terra oppressa e trita Da cavalli, da rote e da pedoni; E ne mormora l’aria sbigottita; Simile al mugghio di remoti tuoni, Al notturno del mar roco lamento, Al profondo ruggir degli aquiloni. Che cor, misero Ugon, che sentimento Fu allora il tuo, che di morte vedesti L’atro vessillo volteggiarsi al vento? E il terribile palco erto scorgesti, Ed alzata la scure, e al gran misfatto Salir bramosi i manigoldi e presti; E il tuo buon rege, il re più grande in atto D’agno innocente fra digiuni lupi, Sul letto de’ ladroni a morir tratto; E fra i silenzi delle turbe cupi Lui sereno avanzar la fronte e il passo In vista che spetrar potea le rupi? Spetrar le rupi e sciorre in pianto un sasso; Non le galliche tigri. Ahi! dove spinto L’avete, o crude? Ed ei v’amava! oh lasso! Ma piangea il sole di gramaglia cinto E stava in forse di voltar le rote Da questa Tebe che l’antica ha vinto. Piangevan l’aure per terrore immote, E l’anime del cielo cittadine Scendean col pianto anch’esse in su le gote; L’anime che costanti e pellegrine Per la causa di Cristo e di Luigi Lassù per sangue diventar divine. Il duol di Francia intanto e i gran litigi Mirava Iddio dall’alto, e giusto e buono Pesava il fato della rea Parigi. Sedea sublime sul tremendo trono; E sulla lance d’òr quinci ponea L’alta sua pazïenza e il suo perdono, Dell’iniqua città quindi mettea Le scelleranze tutte; e nullo ancora Piegar de’ due gran carchi si vedea. Quando il mortal giudizio e l’ultim’ora Dell’augusto infelice alfin v’impose L’Onnipotente. Cigolando allora Traboccâr le bilancie ponderose: Grave in terra cozzò la mortal sorte, Balzò l’altra alle sfere, e si nascose, In quel punto al feral palco di morte Giunge Luigi. Ei v’alza il guardo, e viene Fermo alla scala, imperturbato e forte. Già vi monta, già il sommo egli ne tiene, E va sì pien di maestà l’aspetto, Ch’ai manigoldi fa tremar le vene. E già battea furtiva ad ogni petto La pietà rinascente, ed anco parve Che del furor svïato avría l’effetto. Ma fier portento in questo mezzo apparve: Sul patibolo infame all’improvviso Asceser quattro smisurate larve, Stringe ognuna un pugnal di sangue intriso; Alla strozza un capestro le molesta; Torvo il cipiglio, dispietato il viso, E scomposte le chiome in su la testa, Come campo di biada già matura Nel cui mezzo passata è la tempesta. E sulla fronte arroncigliata e scura Scritto in sangue ciascuna il nome avea, Nome terror de’ regi e di natura. Damiens l’uno, Ankastrom l’altro dicea, E l’altro Ravagliacco; ed il suo scritto Il quarto colla man si nascondea. Da queste Dire avvinto il derelitto Sire Capeto dal maggior de’ troni Alla mannaia già facea tragitto. E a quel giusto simíl che fra’ ladroni Perdonando spirava ed esclamando: Padre, padre, perchè tu m’abbandoni? Per chi a morte lo tragge anch’ei pregando, Il popol mio, dicea, che sì delira, E il mio spirto, Signor, ti raccomando. In questo dir con impeto e con ira Un degli spettri sospingendo il venne Sotto il taglio fatal; l’altro ve ’l tira. Per le sacrate auguste chiome il tenne La terza furia, e la sottil rudente Quella quarta recise alla bipenne. Alla caduta dell’acciar tagliente S’aprì tonando il cielo, e la vermiglia Terra si scosse e il mare orribilmente. Tremonne il mondo, e per la maraviglia E pel terror dal freddo al caldo polo Palpitando i potenti alzâr le ciglia. Tremò levante ed occidente. Il solo Barbaro celta, in suo furor più saldo, Del ciel derise e della terra il duolo; E di sua libertà spietato e baldo Tuffò le stolte insegne e le man ladre Nel sangue del suo re fumante e caldo, E si dolse che misto a quel del padre Quello pur anco non scorreva, ahi rabbia!, Del regal figlio e dell’augusta madre. Tal di lïoni un branco, a cui non abbia L’ucciso tauro appien sazie le canne, Anche il sangue ne lambe in su la sabbia; Poi ne’ presepi insidïando vanne La vedova giovenca ed il torello, E rugghia, e arrota tuttavia le zanne; Ed ella, che i ruggiti ode al cancello, Di doppio timor trema, e di quell’ugne Si crede ad ogni scroscio esser macello. Tolta al dolor delle terrene pugne Apriva intanto la grand’alma il volo, Che alla prima cagion la ricongiugne. E ratto intorno le si fea lo stuolo Di quell’ombre beate, onde la fede Stette e di Francia sanguinossi il suolo. E qual le corre al collo, e qual si vede Stender le braccia, e chi l’amato volto E chi la destra e chi le bacia il piede. Quando repente della calca il folto Ruppe un ombra dogliosa, e con un rio Di largo pianto sulle guance sciolto, Me, gridava, me me lasciate al mio Signor prostrarmi. Oh date il passo! E presta Al piè regale il varco ella s’aprìo. Dolce un guardo abbassò su quella mesta Luigi: e, Chi sei? disse; e qual ti tocca Rimorso il core? e che ferita è questa? Alzati, e schiudi al tuo dolor la bocca.
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