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Vincenzo Monti Poesie IntraText CT - Lettura del testo |
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In morte di Lorenzo MascheroniCANTICA
CANTO PRIMO
Come face al mancar dell’alimento Lambe gli aridi stami, e di pallore Veste il suo lume ognor più scarso e lento; E guizza irresoluta, e par che amore Di vita la richiami, infin che scioglie L’ultimo volo, e sfavillando muore: Tal quest’alma gentil, che morte or toglie All’italica speme e su lo stelo Vital che verde ancor fioría, la coglie, Dopo molto affannarsi entro il suo velo, E anelar stanca su l’uscita, alfine L’ali aperse e raggiando alzossi al cielo. Le virtù, che diverse e pellegrine La vestir mentre visse, il mesto letto Cingean, bagnate i rai, scomposte il crine, Della patria l’Amor santo e perfetto, Che amor di figlio e di fratello avanza, Empie a mille la bocca, a dieci il petto: L’Amor di libertà, bello se stanza Ha in cor gentile, e, se in cor basso e lordo, Non virtù, ma furore e scelleranza; L’Amor di tutti, a cui dolce è il ricordo Non del suo dritto ma del suo dovere, E l’altrui bene oprando al proprio è sordo: Umiltà, che fa suo l’altrui volere: Amistà, che precorre al prego e dona, E il dono asconde con un bel tacere: Poi le nove virtù che in Elicona Danno al muto pensier con aurea rima L’ali il color la voce e la persona; Colei che gl’intelletti apre e sublima, E col valor di finte cifre il vero Valor de’ corpi immaginati estima; Colei che li misura, e del primiero Compasso armò di Dio la destra, quando Il grand’arco curvò dell’emispero E spinse in giro i soli, incoronando L’ampio creato di fiammanti mura, Contro cui del caosse il mar mugghiando E crollando le dighe entro la scura Eternità rimbomba e paurosa Fa del suo regno dubitar natura. Eran queste le dee che lamentosa Fean corona alla spoglia che d’un tanto Spirto di vita nel cammin fu sposa. Ecco il cor, dicea l’una, in che sì santo Sì fervido del giusto arse il desiro: E la man pose al core, e ruppe in pianto. Ecco la dotta fronte onde s’apriro Sì profondi pensieri, un’altra disse: E la fronte toccò con un sospiro. Ecco la destra, ohimè! che li descrisse, Venía sclamando un’altra; e baci ardenti Su la man fredda singhiozzando affisse. Poggia intanto quell’alma alle lucenti Sideree rote, e or questa spera or quella Di sua luce l’invita entro i torrenti. Vieni, dicea del terzo ciel la stella: Qui di Valchiusa è il cigno, e meno altera La sua donna con seco e assai più bella; Qui di Bice il cantor, qui l’altra schiera De’ vati amanti: e tu, cantor lodato D’un’altra Lesbia, ascendi alla mia spera. Vien, di Giove dicea l’astro lunato: Qui riposa quel grande che su l’Arno Me di quattro pianeti ha coronato. Vien quegli occhi a mirar, che il ciel spïarno Tutto quanto, e, lui visto, ebber disdegno Veder oltre la terra e s’oscurarno. Tu, che dei raggi di quel divo ingegno Filosofando ornasti i pensier tui, Vien; tu con esso di goder se’ degno. Ma di rincontro folgorando i sui Tabernacoli d’oro apriagli il sole; E, vieni, ei pur dicea, resta con nui. Io son la mente della terrea mole, Io la vita ti diedi, io la favilla Che in te trasfuse la giapezia prole. Rendimi dunque l’immortal scintilla Che tua salma animò; nelle regali Tende rientra del tuo padre e brilla. D’italo nome troverai qui tali Che dell’uman sapere archimandriti Al tuo pronto intelletto impennâr l’ali; Colui che strinse ne’ suoi specchi arditi Di mia luce gli strali e fe’ parere Cari a Marcello di Sicilia i liti; Primo quadrò la curva del cadere De’ proietti creata, e primo vide Il contener delle contente sfere. Seco è il calabro antico, che precide Alle mie rote il giro e del mio figlio La sognata caduta ancor deride. Qui Cassin, che in me tutto affisse il ciglio, Fortunato così, ch’altri giammai Non fe’ più bello del veder periglio; Qui Bianchin, qui Ricciòli, ed altri assai Del ciel conquistatori, ed Orïano L’amico tuo qui assunto un dì vedrai; Lui che primiero dell’intatto Urano Coi numeri frenò la via segreta, Orian degli astri indagator sovrano. Questi dal centro del maggior pianeta Uscìan richiami; e: Vieni, anima dia Par ch’ogni stella per lo ciel ripeta. Sì dolce udíasi intanto un’armonia, Che qual più dolce suono arpa produce Di lavoro mortal mugghio saría. E il sol sì viva saettò la luce, Che il più puro tra noi giorno sereno Notte agli occhi saría quando è più truce. Qual tra mille fioretti in prato ameno, Vago parto d’april, la fanciulletta, Disïosa d’ornar le tempia e il seno, Or su questo or su quel pronta si getta, Vorría tutti predarli, e li divora Tutti con gli occhi ingorda e semplicetta; Tal quell’alma trasvola, e s’innamora Or di quel raggio ed or di questo, e brama Fruir di tutti, e niun l’acqueta ancora: Perocché più possente a sè la chiama Cura d’amore di quei cari in traccia Che amò fra’ vivi e più fra gli astri or ama. Ella di Borda e Spallanzan la faccia E di Parin sol cerca; ed ogni spera N’inchiede, e prega che di lor non taccia. Ed ecco a suo rincontro una leggiera Lucida fiamma, che nel grembo porta Una dell’alme di cui fea preghiera. Qual fu suo studio in terra, iva l’accorta Misurando del cielo alle vedette L’arco che l’ombra fa cader più corta. — Oh mio Lorenzo! — oh Borda mio! — Fur dette Queste, e non più, per lor, parole: il resto Disser le braccia al collo avvinte e strette. — Pur ti trovo. — Pur giungi. — Io piansi mesto L’amara tua partita, e su latino Non vil plettro il mio duol fu manifesto. — — Io di quassù l’intesi, o pellegrino Canoro spirto; e desïai che ratto Fosse il vol che dovea farti divino. — — Anzi tempo, lo vedi, fu disfatto Laggiù il mio frale. — Il veggo, e nondimeno «Qual di te lungo quì aspettar s’è fatto! — Così confusi l’un dell’altro in seno, E alternando il parlar, spinser le piume Là dove fa la lira il ciel sereno; D’Orfeo la lira, che il paterno nume D’auree stelle ingemmò, mentre volgea Sanguinosa la testa il tracio fiume, E, misera Euridice, ancor dicea L’anima fuggitiva, ed Euridice, Euridice, la ripa rispondea. Conversa in astro quella cetra elice Sì dolci suoni ancor, che la dannata Gente gli udendo si faría felice. Giunte a quell’onda d’armonia beata Le due celesti peregrine, un’alma Scoprir che grave al suon si gode e guata; Sovra un lucido raggio assisa in calma, L’un su l’altro il ginocchio, e su i ginocchi L’una nell’altra delle man la palma. Torse ai due che veniéno i fulgid’occhi, Guardò Lorenzo, e in lei del caro aspetto Destàrsi i segni dall’obblio non tocchi. Non assurse però; ma con diletto Le man protese, e balenò d’un riso Per la memoria dell’antico affetto. E ben giunto, lui disse: alfin diviso Ti se’ dal mondo, dal quel mondo u’ solo Lieta è la colpa ed il pudor deriso. Dopo il tuo dipartir dal patrio suolo Io misero Parini il fianco venni Grave d’anni traendo e più di duolo. E, poich’oltre veder più non sostenni Della patria lo strazio e la ruina, Bramai morire, e di morire ottenni. Vidi prima il dolor della meschina Di cotal nuova libertà vestita, Che libertà nomossi e fu rapina. Serva la vidi, e, ohimè!, serva schernita, E tutta piaghe e sangue al ciel dolersi Che i suoi pur anco, i suoi l’avean tradita. Altri stolti, altri vili, altri perversi, Tiranni molti, cittadini pochi, E i pochi o muti o insidïati o spersi. Inique leggi, e per crearle rochi Su la tribuna i gorgozzuli, e in giro La discordia co’ mantici e co’ fuochi, E l’orgoglio con lei l’odio il deliro L’ignoranza l’error, mentre alla sbarra Sta del popolo il pianto ed il sospiro. Tal s’allaccia in senato la zimarra, Che d’elleboro ha d’uopo e d’esorcismo; Tal vi tuona, che il callo ha della marra; Tal vi trama, che tutto è parossismo Di delfica manía, vate più destro La calunnia a filar che il sillogismo; Vile! e tal altro del rubar maestro A Caton si pareggia, e monta i rostri Scappato al remo e al tiberin capestro. Oh iniqui! E tutti in arroganti inchiostri Parlar virtude, e sé dir Bruto e Gracco, Genuzii essendo Saturnini e mostri. Colmo era in somma de’ delitti il sacco; In pianto il giusto, in gozzoviglia il ladro, E i Bruti a desco con Ciprigna e Bacco. Venne il nordico nembo, e quel leggiadro Viver sommerse: ma novello stroppio La patria n’ebbe e l’ultimo soqquadro. Udii di Cristo i bronzi suonar doppio Per laudarlo che giunto era il tiranno: Ahi! che pensando ancor ne fremo e scoppio. Vidi il tartaro ferro e l’alemanno Strugger la speme dell’ausonie glebe Sì che i nepoti ancor ne piangeranno. Vidi chierche e cocolle armar la plebe, Consumar colpe che d’Atreo le cene E le vendette vincerían di Tebe. Vidi in cocchio Adelasio, ed in catene Paradisi e Fontana. Oh sventurati! Virtù dunqu’ebbe del fallir le pene? Cui non duol di Caprara e di Moscati? Lor ceppi al vile detrattor fan fede Se amâr la patria o la tradir comprati. Containi! Lamberti! o ria mercede D’opre onorate! ma di re giustizia Lo scellerato assolve e il giusto fiede. Nella fiumana di tanta nequizia, Deh! trammi in porto, io dissi al mio Fattore; Ed ei m’assunse all’immortal letizia. Nè il guardo vinto dal veduto orrore Più rivolsi laggiù, dove soltanto S’acquista libertà quando si muore. Ma tu, che approdi da quel mar di pianto, Che rechi? Italia che si fa? L’artiglia L’aquila ancora? O pur del suo gran manto Tornò la madre a ricoprir la figlia? E Francia intanto è seco in pace? o in rio Civil furore ancor la si periglia? Tacquesi; e tutta la pupilla aprío Incontro alla risposta alzando il mento. Compose l’altro il volto, e quel desío Fe’ del seguente ragionar contento.
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