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Vincenzo Monti
Poesie

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  • PARTE III POEMETTI
    • In morte di Lorenzo Mascheroni CANTICA
      • CANTO PRIMO
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In morte di Lorenzo Mascheroni

CANTICA

 

CANTO PRIMO

 

Come face al mancar dell’alimento

Lambe gli aridi stami, e di pallore

Veste il suo lume ognor più scarso e lento;

E guizza irresoluta, e par che amore

Di vita la richiami, infin che scioglie

L’ultimo volo, e sfavillando muore:

Tal quest’alma gentil, che morte or toglie

All’italica speme e su lo stelo

Vital che verde ancor fioría, la coglie,

Dopo molto affannarsi entro il suo velo,

E anelar stanca su l’uscita, alfine

L’ali aperse e raggiando alzossi al cielo.

Le virtù, che diverse e pellegrine

La vestir mentre visse, il mesto letto

Cingean, bagnate i rai, scomposte il crine,

Della patria l’Amor santo e perfetto,

Che amor di figlio e di fratello avanza,

Empie a mille la bocca, a dieci il petto:

L’Amor di libertà, bello se stanza

Ha in cor gentile, e, se in cor basso e lordo,

Non virtù, ma furore e scelleranza;

L’Amor di tutti, a cui dolce è il ricordo

Non del suo dritto ma del suo dovere,

E l’altrui bene oprando al proprio è sordo:

Umiltà, che fa suo l’altrui volere:

Amistà, che precorre al prego e dona,

E il dono asconde con un bel tacere:

Poi le nove virtù che in Elicona

Danno al muto pensier con aurea rima

L’ali il color la voce e la persona;

Colei che gl’intelletti apre e sublima,

E col valor di finte cifre il vero

Valor de’ corpi immaginati estima;

Colei che li misura, e del primiero

Compasso armò di Dio la destra, quando

Il grand’arco curvò dell’emispero

E spinse in giro i soli, incoronando

L’ampio creato di fiammanti mura,

Contro cui del caosse il mar mugghiando

E crollando le dighe entro la scura

Eternità rimbomba e paurosa

Fa del suo regno dubitar natura.

Eran queste le dee che lamentosa

Fean corona alla spoglia che d’un tanto

Spirto di vita nel cammin fu sposa.

Ecco il cor, dicea l’una, in che sì santo

Sì fervido del giusto arse il desiro:

E la man pose al core, e ruppe in pianto.

Ecco la dotta fronte onde s’apriro

Sì profondi pensieri, un’altra disse:

E la fronte toccò con un sospiro.

Ecco la destra, ohimè! che li descrisse,

Venía sclamando un’altra; e baci ardenti

Su la man fredda singhiozzando affisse.

Poggia intanto quell’alma alle lucenti

Sideree rote, e or questa spera or quella

Di sua luce l’invita entro i torrenti.

Vieni, dicea del terzo ciel la stella:

Qui di Valchiusa è il cigno, e meno altera

La sua donna con seco e assai più bella;

Qui di Bice il cantor, qui l’altra schiera

De’ vati amanti: e tu, cantor lodato

D’un’altra Lesbia, ascendi alla mia spera.

Vien, di Giove dicea l’astro lunato:

Qui riposa quel grande che su l’Arno

Me di quattro pianeti ha coronato.

Vien quegli occhi a mirar, che il ciel spïarno

Tutto quanto, e, lui visto, ebber disdegno

Veder oltre la terra e s’oscurarno.

Tu, che dei raggi di quel divo ingegno

Filosofando ornasti i pensier tui,

Vien; tu con esso di goder se’ degno.

Ma di rincontro folgorando i sui

Tabernacoli d’oro apriagli il sole;

E, vieni, ei pur dicea, resta con nui.

Io son la mente della terrea mole,

Io la vita ti diedi, io la favilla

Che in te trasfuse la giapezia prole.

Rendimi dunque l’immortal scintilla

Che tua salma animò; nelle regali

Tende rientra del tuo padre e brilla.

D’italo nome troverai qui tali

Che dell’uman sapere archimandriti

Al tuo pronto intelletto impennâr l’ali;

Colui che strinse ne’ suoi specchi arditi

Di mia luce gli strali e fe’ parere

Cari a Marcello di Sicilia i liti;

Primo quadrò la curva del cadere

De’ proietti creata, e primo vide

Il contener delle contente sfere.

Seco è il calabro antico, che precide

Alle mie rote il giro e del mio figlio

La sognata caduta ancor deride.

Qui Cassin, che in me tutto affisse il ciglio,

Fortunato così, ch’altri giammai

Non fe’ più bello del veder periglio;

Qui Bianchin, qui Ricciòli, ed altri assai

Del ciel conquistatori, ed Orïano

L’amico tuo qui assunto un dì vedrai;

Lui che primiero dell’intatto Urano

Coi numeri frenò la via segreta,

Orian degli astri indagator sovrano.

Questi dal centro del maggior pianeta

Uscìan richiami; e: Vieni, anima dia

Par ch’ogni stella per lo ciel ripeta.

Sì dolce udíasi intanto un’armonia,

Che qual più dolce suono arpa produce

Di lavoro mortal mugghio saría.

E il sol sì viva saettò la luce,

Che il più puro tra noi giorno sereno

Notte agli occhi saría quando è più truce.

Qual tra mille fioretti in prato ameno,

Vago parto d’april, la fanciulletta,

Disïosa d’ornar le tempia e il seno,

Or su questo or su quel pronta si getta,

Vorría tutti predarli, e li divora

Tutti con gli occhi ingorda e semplicetta;

Tal quell’alma trasvola, e s’innamora

Or di quel raggio ed or di questo, e brama

Fruir di tutti, e niun l’acqueta ancora:

Perocché più possente a sè la chiama

Cura d’amore di quei cari in traccia

Che amò fra’ vivi e più fra gli astri or ama.

Ella di Borda e Spallanzan la faccia

E di Parin sol cerca; ed ogni spera

N’inchiede, e prega che di lor non taccia.

Ed ecco a suo rincontro una leggiera

Lucida fiamma, che nel grembo porta

Una dell’alme di cui fea preghiera.

Qual fu suo studio in terra, iva l’accorta

Misurando del cielo alle vedette

L’arco che l’ombra fa cader più corta.

— Oh mio Lorenzo! — oh Borda mio! — Fur dette

Queste, e non più, per lor, parole: il resto

Disser le braccia al collo avvinte e strette.

— Pur ti trovo. — Pur giungi. — Io piansi mesto

L’amara tua partita, e su latino

Non vil plettro il mio duol fu manifesto. —

— Io di quassù l’intesi, o pellegrino

Canoro spirto; e desïai che ratto

Fosse il vol che dovea farti divino. —

— Anzi tempo, lo vedi, fu disfatto

Laggiù il mio frale. — Il veggo, e nondimeno

«Qual di te lungo quì aspettar s’è fatto! —

Così confusi l’un dell’altro in seno,

E alternando il parlar, spinser le piume

Là dove fa la lira il ciel sereno;

D’Orfeo la lira, che il paterno nume

D’auree stelle ingemmò, mentre volgea

Sanguinosa la testa il tracio fiume,

E, misera Euridice, ancor dicea

L’anima fuggitiva, ed Euridice,

Euridice, la ripa rispondea.

Conversa in astro quella cetra elice

Sì dolci suoni ancor, che la dannata

Gente gli udendo si faría felice.

Giunte a quell’onda d’armonia beata

Le due celesti peregrine, un’alma

Scoprir che grave al suon si gode e guata;

Sovra un lucido raggio assisa in calma,

L’un su l’altro il ginocchio, e su i ginocchi

L’una nell’altra delle man la palma.

Torse ai due che veniéno i fulgid’occhi,

Guardò Lorenzo, e in lei del caro aspetto

Destàrsi i segni dall’obblio non tocchi.

Non assurse però; ma con diletto

Le man protese, e balenò d’un riso

Per la memoria dell’antico affetto.

E ben giunto, lui disse: alfin diviso

Ti se’ dal mondo, dal quel mondo u’ solo

Lieta è la colpa ed il pudor deriso.

Dopo il tuo dipartir dal patrio suolo

Io misero Parini il fianco venni

Grave d’anni traendo e più di duolo.

E, poich’oltre veder più non sostenni

Della patria lo strazio e la ruina,

Bramai morire, e di morire ottenni.

Vidi prima il dolor della meschina

Di cotal nuova libertà vestita,

Che libertà nomossi e fu rapina.

Serva la vidi, e, ohimè!, serva schernita,

E tutta piaghe e sangue al ciel dolersi

Che i suoi pur anco, i suoi l’avean tradita.

Altri stolti, altri vili, altri perversi,

Tiranni molti, cittadini pochi,

E i pochi o muti o insidïati o spersi.

Inique leggi, e per crearle rochi

Su la tribuna i gorgozzuli, e in giro

La discordia co’ mantici e co’ fuochi,

E l’orgoglio con lei l’odio il deliro

L’ignoranza l’error, mentre alla sbarra

Sta del popolo il pianto ed il sospiro.

Tal s’allaccia in senato la zimarra,

Che d’elleboro ha d’uopo e d’esorcismo;

Tal vi tuona, che il callo ha della marra;

Tal vi trama, che tutto è parossismo

Di delfica manía, vate più destro

La calunnia a filar che il sillogismo;

Vile! e tal altro del rubar maestro

A Caton si pareggia, e monta i rostri

Scappato al remo e al tiberin capestro.

Oh iniqui! E tutti in arroganti inchiostri

Parlar virtude, e sé dir Bruto e Gracco,

Genuzii essendo Saturnini e mostri.

Colmo era in somma de’ delitti il sacco;

In pianto il giusto, in gozzoviglia il ladro,

E i Bruti a desco con Ciprigna e Bacco.

Venne il nordico nembo, e quel leggiadro

Viver sommerse: ma novello stroppio

La patria n’ebbe e l’ultimo soqquadro.

Udii di Cristo i bronzi suonar doppio

Per laudarlo che giunto era il tiranno:

Ahi! che pensando ancor ne fremo e scoppio.

Vidi il tartaro ferro e l’alemanno

Strugger la speme dell’ausonie glebe

Sì che i nepoti ancor ne piangeranno.

Vidi chierche e cocolle armar la plebe,

Consumar colpe che d’Atreo le cene

E le vendette vincerían di Tebe.

Vidi in cocchio Adelasio, ed in catene

Paradisi e Fontana. Oh sventurati!

Virtù dunqu’ebbe del fallir le pene?

Cui non duol di Caprara e di Moscati?

Lor ceppi al vile detrattor fan fede

Se amâr la patria o la tradir comprati.

Containi! Lamberti! o ria mercede

D’opre onorate! ma di re giustizia

Lo scellerato assolve e il giusto fiede.

Nella fiumana di tanta nequizia,

Deh! trammi in porto, io dissi al mio Fattore;

Ed ei m’assunse all’immortal letizia.

Nè il guardo vinto dal veduto orrore

Più rivolsi laggiù, dove soltanto

S’acquista libertà quando si muore.

Ma tu, che approdi da quel mar di pianto,

Che rechi? Italia che si fa? L’artiglia

L’aquila ancora? O pur del suo gran manto

Tornò la madre a ricoprir la figlia?

E Francia intanto è seco in pace? o in rio

Civil furore ancor la si periglia?

Tacquesi; e tutta la pupilla aprío

Incontro alla risposta alzando il mento.

Compose l’altro il volto, e quel desío

Fe’ del seguente ragionar contento.

 




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