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Vincenzo Monti
Poesie

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  • PARTE III POEMETTI
    • In morte di Lorenzo Mascheroni CANTICA
      • CANTO SECONDO
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CANTO SECONDO

 

Pace, austero intelletto. Un’altra volta

Salva è la patria: un nume entro le chiome

La man le pose e lei dal fango ha tolta.

Bonaparte... Rizzossi a tanto nome

L’accigliato Parini, e la severa

Fronte spianando balenò, siccome

Raggio di sole che, rotta la nera

Nube, nel fior che già parea morisse

Desta il riso e l’amor di primavera.

Il suo labbro tacea; ma con le fisse

Luci e con gli atti dell’intento volto

Tutto, tacendo quello spirto disse.

Sorrise l’altro; e poscia in sè raccolto,

Bonaparte, seguía, della sua figlia

Giurò la vita, e il suo gran giuro ha sciolto.

Sai che col senno e col valor la briglia

Messo alla gente avea che si rinserra

Tra la libica sponda e la vermiglia.

Sai che il truce ottomano e d’Inghilterra

L’avaro traditor, che secco il fonte

Già dell’auro temea ch’India disserra,

Congiurati in suo danno alzâr la fronte;

E denso di ladroni un nembo venne

Dall’Eufrate ululando e dall’Oronte.

Egli mosse a rincontro; e no ’l rattenne

Il mar della bollente araba sabbia;

I vortici sfidonne e li sostenne.

Domò del folle assalitor la rabbia:

Jaffa e Gaza crollarno, e in Ascalona

Il britanno fellon morse le labbia.

Ciò che il prode fe’ poi sallo Esdrelona,

Sallo il Taborre e l’onda che sul dorso

Sofferse asciutto il piè di Barïona.

Sallo il fiume che corse un dì retrorso,

E il suol dove Maria, siccome è grido,

Dell’uomo partorì l’alto soccorso.

Doma del Siro la baldanza, al lido

Folgorando tornò che al doloroso

Di Cesare rival fu sì mal fido.

E di lunate antenne irto e selvoso

Del funesto Abukir rivide il flutto

E tant’oste che il piano avea nascoso.

Ivi il franco Alessandro il fresco lutto

Vendicò della patria, e l’onde infece

Di barbarico sangue, sì che tutto

Coprì la strage il lido, e lido fece.

Quei che il ferro non giunse il mar sommerse,

E d’ogni mille non campâr li diece.

Ahi gioie umane d’amarezza asperse!

Suonò fra la vittoria orrendo avviso,

Che in doglia il gaudio al vincitor converse.

Narrò l’infamia di Scherer conquiso

E dal Turco dall’Unno e dallo Scita

Desolato d’Italia il paradiso.

Narrò da pravi cittadin tradita

Francia, e senza consiglio e senza polo

Del governo la nave andar smarrita.

Prima assal se l’eroe stupore e duolo,

Poi dispetto e magnanimo disdegno;

E ne scoppiò da cento affetti un solo:

La vendetta scoppiò, quella che segno

Fu di Camillo all’ire generose

E di lui che crollò de’ trenta il regno.

Così partissi; e al suo partir si pose

Un vel la sorte d’Orïente, e l’urna

Che d’Asia i fati racchiudea nascose.

Partissi: e di là dove alla dïurna

Lampa il corpo perd’ombra, la fortuna

Con lui mosse fedele e taciturna

E nocchiera s’assise in su la bruna

Poppa, che grave di cotanta spene

Già di Libia fendea l’ampia laguna.

Innanzi vola la vittoria, e tiene

In man le palme ancor fumanti e sparse

Della polve di Memfi e di Sïene.

La sentîr da lontano approssimarse

Le galliche falangi, ed ogni petto

Dell’antico valor tosto rïarse.

Ella giunse, e a Massena, al suo diletto

Figlio gridò: Son teco. Elvezia e Francia

Udîr quel grido e serenar l’aspetto.

L’Istro udillo, e tremò. La franca lancia

Ruppe gli ungari petti, e si percosse

Il vinto Scita per furor la guancia.

L’udir le rive di Batavia, e rosse

D’ostil sangue fumar; e nullo forse

De’ nemici rediva onde si mosse;

Ma vil patto il fiaccato anglo soccorse:

Frutto del suo valor non colse intero

Gallia, ed obbliquo il guardo Olanda torse.

Carca frattanto del fatal guerriero

Il lido afferra la felice antenna:

Ne stupisce ogni sguardo, ogni pensiero.

Levossi per vederlo alto la Senna,

E mostrò le sue piaghe. Egli sanolle,

Nè il come lo diría lingua né penna.

Ei la salute della patria volle,

E potè ciò che volle, e al suo valore

Fu norma la virtù che in cor gli bolle.

Fu di pietoso cittadin dovere,

Fu carità di patria, a cui già morte

Cinque tiranni avean le forze intere.

Fine agli odi promise: e di ritorte

Fu catenata la discordia, e tutte

Della rabbia civil chiuse le porte.

Fin promise al rigore: e, ricondutte

Le mansuete idee, giustizia rise

Su le sentenze del furor distrutte.

Verace saggia libertà promise:

E i delirii fur queti, e senza velo

Secura in trono la ragion s’assise.

Gridò guerra: e per tutto il franco cielo

Un fremere, un tuonar d’armi s’intese

Che al nemico portò per l’ossa il gelo.

Invocò la vittoria: ed ella scese

Procellosa su l’Istro, e l’arrogante

Tedesco al piè d’un nuovo Fabio stese.

Finalmente, d’un dio preso il sembiante,

Apriti, o alpe, ei disse: e l’alpe aprissi;

E tremò dell’eroe sotto le piante.

E per le rupi stupefatte udissi

Tal d’armi, di nitriti e di timballi

Fragor, che tutti ne muggían gli abissi.

Liete da lungi le lombarde valli

Risposero a quel mugghio, e fiumi intanto

Scendean d’aste, di bronzi e di cavalli.

Levò la fronte Italia; e, in mezzo al pianto

Che amaro e largo le scorrea dal ciglio,

Carca di ferri e lacerata il manto,

Pur venisti, gridava, amato figlio;

Venisti, e la pietà delle mie pene

Del tuo duro cammin vinse il periglio.

Questi ceppi rimira e queste vene

Tutte quante solcate. E sì parlando,

Scosse i polsi, e suonar fe’ le catene.

Non rispose l’eroe, ma trasse il brando,

E alla vendetta del materno affanno

In Marengo discese fulminando.

Mancò alle stragi il campo; l’alemanno

Sangue ondeggiava, e d’un sol dì la sorte

Valse di sette e sette lune il danno.

Dodici rôcche aprîr le ferree porte

In un sol punto tutte, e ghirlandorno

Dodici lauri in un sol lauro il forte.

Così a noi fece libertà ritorno. —

— Libertade? interruppe aspro il cantore

Delle tre parti in che si parte il giorno:

Libertà? di che guisa? Ancor l’orrore

Mi dura della prima, e a cotal patto

Chi vuol franca la patria è traditore.

A che mani è commesso il suo riscatto?

Libera certo il vincitor lei vuole,

Ma chi conduce il buon volere all’atto?

Altra volta pur volle, e fûr parole;

Chè con ugna rapace arpíe digiune

Fêro a noi ciò che Progne alla sua prole.

Dal calzato allo scalzo le fortune

Migrar fûr viste, e libertà divenne

Merce di ladri e furia di tribune.

V’eran leggi; il gran patto era solenne;

Ma fu calpesto. Si trattò; ma franse

L’asta il trattato, e servi ne ritenne.

Pietà gridammo; ma pietà non transe

Al cor de’ cinque; di più ria catena

Ne gravarno i crudeli, e invan si pianse.

Vòta il popol per fame avea la vena;

E il viver suo vedea fuso e distrutto

Da’ suoi pieni tiranni in una cena.

Squallido macro il buon soldato e brutto

Di polve, di sudor, di cicatrici,

Chiedea plorando del suo sangue il frutto;

Ma l’inghiottono l’arche voratrici

Di onnipossenti duci e gl’ingordi alvi

Di questori prefetti e meretrici.

Or di’: conte all’eroe che ancor n’ha salvi

Son queste colpe? e rifaran gl’Insúbri

Le tolte chiome o andran più mozzi e calvi?

Verran giorni più lieti o più lugubri?

Ed egli, il gran campione, è come pria

Circuíto da vermi e da colúbri?

Sai come si arrabatta esta genía,

Che ambizïosa obliqua entra e penètra

E fóra e s’apre ai primi onor la via.

Di Nemi il galeotto e di Libetra

Certo rettile sconcio che supplizio

Di dotti orecchi cangiò l’ago in cetra,

E quel sottile ravegnan patrizio

Sì di frodi perito che Brunello

Saría tenuto un Mummio ed un Fabrizio,

Come in alto levarsi e fûr flagello

Della patria! Oh Licurghi! oh Cisalpina,

Non matrona, ma putta nel bordello!

Tacque: e l’altro riprese: La divina

Virtù, che informa le create cose,

Ed infiora la valle e la collina,

D’acute spine circondò le rose,

Ed accanto al frumento e al cinnamomo

L’ispido cardo e la cicuta pose.

Vedi il rio vermicel che guasta il pomo,

Vedi misti i sereni alle procelle

Alternar l’allegrezza e il pianto all’uomo.

Penuria non fu mai d’anime felle;

Ma dritto guarda, amico, ed abbondante

Pur la patria vedrai d’anime belle.

Ve’ quante Olona ne fan lieta, e quante

Val-di-Pado, Panaro e il picciol Reno;

Picciolo d’onde e di valor gigante.

Reggio ancor non obblia che dal suo seno

La favilla scoppiò d’onde primiero

Di nostra libertà corse il baleno.

Mostrò Bergamo mia che puote il vero

Amor di patria, e lo mostrò l’ardita

Brescia sdegnosa d’ogni vil pensiero.

Nè d’onorati spirti inaridita

In Emilia pur anco è la semenza;

Sterpane i bronchi, e la vedrai fiorita.

Molti iniqui fûr posti in eminenza,

E il saran altri ancor: ma chi gli estolle

Forse è quei che vede oltre all’apparenza?

Mira l’astro del dì. Siccome volle

Il suo fattore, ei brilla, e solve il germe

Or salubre or maligno entro le zolle.

Su le sane sostanze e su le inferme

Benefico del par gli sguardi abbassa;

E s’uno al fior dà vita e l’altro al verme,

Ciò vien dal seme che la terrea massa

Diverso gli appresenta: egli sublime

E discolpato lo feconda e passa.

Or procede alle tue dimande prime

La mia risposta. Di saper ti giova

Se fia scevra d’affanno e senza crime

La nuova libertade, o se per prova

Sotto il sacro suo manto un’altra volta

Rapina insulto e tirannia si cova.

Dirò verace. E dir volea: ma tolta

Da portentosa visïon gli fue

La voce che dal labbro uscía già sciolta.

Il trono apparve dell’Eterno; e due

Gli erano al fianco cherubin sospesi

Su le penne già pronti a calar giue.

L’uno in sembianti di pietade accesi,

Sì terribile l’altro alla figura,

Che n’eran gli astri di spavento offesi.

Verde qual pruna non ancor matura

Cinge il primo la stola, e qual di cigno

Apre la piuma biancheggiante e pura:

Ondeggiavano all’altro di sanguigno

Color le vestimenta, e tinto avea

Il remeggio dell’ali in ferrugigno.

Quegli d’olivo un ramoscel tenea,

Questi un brando rovente; e fisso i lumi

In Dio ciascun palpebra non battea.

Dal basso mondo alla città de’ numi

Voci intanto salían gridando pace,

Col sonito che fan cadendo i fiumi.

Pace la Senna, pace l’Elba, pace

Iterava l’Ibèro; ed alla terra

Rispondean pace i cieli, pace, pace.

Ma guerra i lidi d’Albïone, e guerra

D’inferno i mostri replicar s’udiro,

E l’inferno era tutto in Inghilterra.

Sedea tranquillo l’increato Spiro

Su l’immobile trono, e tremebondo

Dal suo cenno pendea l’immenso empiro.

La gran bilancia, su la qual profondo

E giusto libra l’uman fato, intanto

Iddio solleva; e ne vacilla il mondo.

Quinci i sospiri le catene il pianto

De’ mortali ponea; quindi versava

De’ mortali i delitti; e a nessun canto

La tremenda bilancia ancor piegava.

Quando due donne di contrario affetto

Levârsi, e ognuna di parlar pregava.

Chi si fûr elle, e che per lor fu detto,

Se mortal labbro di ridirlo è degno,

L’udrà chi al mio cantar prende diletto

Nel terzo volo dell’acceso ingegno.

 




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