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Vincenzo Monti Poesie IntraText CT - Lettura del testo |
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CANTO SECONDO
Pace, austero intelletto. Un’altra volta Salva è la patria: un nume entro le chiome La man le pose e lei dal fango ha tolta. Bonaparte... Rizzossi a tanto nome L’accigliato Parini, e la severa Fronte spianando balenò, siccome Raggio di sole che, rotta la nera Nube, nel fior che già parea morisse Desta il riso e l’amor di primavera. Il suo labbro tacea; ma con le fisse Luci e con gli atti dell’intento volto Tutto, tacendo quello spirto disse. Sorrise l’altro; e poscia in sè raccolto, Bonaparte, seguía, della sua figlia Giurò la vita, e il suo gran giuro ha sciolto. Sai che col senno e col valor la briglia Messo alla gente avea che si rinserra Tra la libica sponda e la vermiglia. Sai che il truce ottomano e d’Inghilterra L’avaro traditor, che secco il fonte Già dell’auro temea ch’India disserra, Congiurati in suo danno alzâr la fronte; E denso di ladroni un nembo venne Dall’Eufrate ululando e dall’Oronte. Egli mosse a rincontro; e no ’l rattenne Il mar della bollente araba sabbia; I vortici sfidonne e li sostenne. Domò del folle assalitor la rabbia: Jaffa e Gaza crollarno, e in Ascalona Il britanno fellon morse le labbia. Ciò che il prode fe’ poi sallo Esdrelona, Sallo il Taborre e l’onda che sul dorso Sofferse asciutto il piè di Barïona. Sallo il fiume che corse un dì retrorso, E il suol dove Maria, siccome è grido, Dell’uomo partorì l’alto soccorso. Doma del Siro la baldanza, al lido Folgorando tornò che al doloroso Di Cesare rival fu sì mal fido. E di lunate antenne irto e selvoso Del funesto Abukir rivide il flutto E tant’oste che il piano avea nascoso. Ivi il franco Alessandro il fresco lutto Vendicò della patria, e l’onde infece Di barbarico sangue, sì che tutto Coprì la strage il lido, e lido fece. Quei che il ferro non giunse il mar sommerse, E d’ogni mille non campâr li diece. Ahi gioie umane d’amarezza asperse! Suonò fra la vittoria orrendo avviso, Che in doglia il gaudio al vincitor converse. Narrò l’infamia di Scherer conquiso E dal Turco dall’Unno e dallo Scita Desolato d’Italia il paradiso. Narrò da pravi cittadin tradita Francia, e senza consiglio e senza polo Del governo la nave andar smarrita. Prima assal se l’eroe stupore e duolo, Poi dispetto e magnanimo disdegno; E ne scoppiò da cento affetti un solo: La vendetta scoppiò, quella che segno Fu di Camillo all’ire generose E di lui che crollò de’ trenta il regno. Così partissi; e al suo partir si pose Un vel la sorte d’Orïente, e l’urna Che d’Asia i fati racchiudea nascose. Partissi: e di là dove alla dïurna Lampa il corpo perd’ombra, la fortuna Con lui mosse fedele e taciturna E nocchiera s’assise in su la bruna Poppa, che grave di cotanta spene Già di Libia fendea l’ampia laguna. Innanzi vola la vittoria, e tiene In man le palme ancor fumanti e sparse Della polve di Memfi e di Sïene. La sentîr da lontano approssimarse Le galliche falangi, ed ogni petto Dell’antico valor tosto rïarse. Ella giunse, e a Massena, al suo diletto Figlio gridò: Son teco. Elvezia e Francia Udîr quel grido e serenar l’aspetto. L’Istro udillo, e tremò. La franca lancia Ruppe gli ungari petti, e si percosse Il vinto Scita per furor la guancia. L’udir le rive di Batavia, e rosse D’ostil sangue fumar; e nullo forse De’ nemici rediva onde si mosse; Ma vil patto il fiaccato anglo soccorse: Frutto del suo valor non colse intero Gallia, ed obbliquo il guardo Olanda torse. Carca frattanto del fatal guerriero Il lido afferra la felice antenna: Ne stupisce ogni sguardo, ogni pensiero. Levossi per vederlo alto la Senna, E mostrò le sue piaghe. Egli sanolle, Nè il come lo diría lingua né penna. Ei la salute della patria volle, E potè ciò che volle, e al suo valore Fu norma la virtù che in cor gli bolle. Fu di pietoso cittadin dovere, Fu carità di patria, a cui già morte Cinque tiranni avean le forze intere. Fine agli odi promise: e di ritorte Fu catenata la discordia, e tutte Della rabbia civil chiuse le porte. Fin promise al rigore: e, ricondutte Le mansuete idee, giustizia rise Su le sentenze del furor distrutte. Verace saggia libertà promise: E i delirii fur queti, e senza velo Secura in trono la ragion s’assise. Gridò guerra: e per tutto il franco cielo Un fremere, un tuonar d’armi s’intese Che al nemico portò per l’ossa il gelo. Invocò la vittoria: ed ella scese Procellosa su l’Istro, e l’arrogante Tedesco al piè d’un nuovo Fabio stese. Finalmente, d’un dio preso il sembiante, Apriti, o alpe, ei disse: e l’alpe aprissi; E tremò dell’eroe sotto le piante. E per le rupi stupefatte udissi Tal d’armi, di nitriti e di timballi Fragor, che tutti ne muggían gli abissi. Liete da lungi le lombarde valli Risposero a quel mugghio, e fiumi intanto Scendean d’aste, di bronzi e di cavalli. Levò la fronte Italia; e, in mezzo al pianto Che amaro e largo le scorrea dal ciglio, Carca di ferri e lacerata il manto, Pur venisti, gridava, amato figlio; Venisti, e la pietà delle mie pene Del tuo duro cammin vinse il periglio. Questi ceppi rimira e queste vene Tutte quante solcate. E sì parlando, Scosse i polsi, e suonar fe’ le catene. Non rispose l’eroe, ma trasse il brando, E alla vendetta del materno affanno In Marengo discese fulminando. Mancò alle stragi il campo; l’alemanno Sangue ondeggiava, e d’un sol dì la sorte Valse di sette e sette lune il danno. Dodici rôcche aprîr le ferree porte In un sol punto tutte, e ghirlandorno Dodici lauri in un sol lauro il forte. Così a noi fece libertà ritorno. — — Libertade? interruppe aspro il cantore Delle tre parti in che si parte il giorno: Libertà? di che guisa? Ancor l’orrore Mi dura della prima, e a cotal patto Chi vuol franca la patria è traditore. A che mani è commesso il suo riscatto? Libera certo il vincitor lei vuole, Ma chi conduce il buon volere all’atto? Altra volta pur volle, e fûr parole; Chè con ugna rapace arpíe digiune Fêro a noi ciò che Progne alla sua prole. Dal calzato allo scalzo le fortune Migrar fûr viste, e libertà divenne Merce di ladri e furia di tribune. V’eran leggi; il gran patto era solenne; Ma fu calpesto. Si trattò; ma franse L’asta il trattato, e servi ne ritenne. Pietà gridammo; ma pietà non transe Al cor de’ cinque; di più ria catena Ne gravarno i crudeli, e invan si pianse. Vòta il popol per fame avea la vena; E il viver suo vedea fuso e distrutto Da’ suoi pieni tiranni in una cena. Squallido macro il buon soldato e brutto Di polve, di sudor, di cicatrici, Chiedea plorando del suo sangue il frutto; Ma l’inghiottono l’arche voratrici Di onnipossenti duci e gl’ingordi alvi Di questori prefetti e meretrici. Or di’: conte all’eroe che ancor n’ha salvi Son queste colpe? e rifaran gl’Insúbri Le tolte chiome o andran più mozzi e calvi? Verran giorni più lieti o più lugubri? Ed egli, il gran campione, è come pria Circuíto da vermi e da colúbri? Sai come si arrabatta esta genía, Che ambizïosa obliqua entra e penètra E fóra e s’apre ai primi onor la via. Di Nemi il galeotto e di Libetra Certo rettile sconcio che supplizio Di dotti orecchi cangiò l’ago in cetra, E quel sottile ravegnan patrizio Sì di frodi perito che Brunello Saría tenuto un Mummio ed un Fabrizio, Come in alto levarsi e fûr flagello Della patria! Oh Licurghi! oh Cisalpina, Non matrona, ma putta nel bordello! Tacque: e l’altro riprese: La divina Virtù, che informa le create cose, Ed infiora la valle e la collina, D’acute spine circondò le rose, Ed accanto al frumento e al cinnamomo L’ispido cardo e la cicuta pose. Vedi il rio vermicel che guasta il pomo, Vedi misti i sereni alle procelle Alternar l’allegrezza e il pianto all’uomo. Penuria non fu mai d’anime felle; Ma dritto guarda, amico, ed abbondante Pur la patria vedrai d’anime belle. Ve’ quante Olona ne fan lieta, e quante Val-di-Pado, Panaro e il picciol Reno; Picciolo d’onde e di valor gigante. Reggio ancor non obblia che dal suo seno La favilla scoppiò d’onde primiero Di nostra libertà corse il baleno. Mostrò Bergamo mia che puote il vero Amor di patria, e lo mostrò l’ardita Brescia sdegnosa d’ogni vil pensiero. Nè d’onorati spirti inaridita In Emilia pur anco è la semenza; Sterpane i bronchi, e la vedrai fiorita. Molti iniqui fûr posti in eminenza, E il saran altri ancor: ma chi gli estolle Forse è quei che vede oltre all’apparenza? Mira l’astro del dì. Siccome volle Il suo fattore, ei brilla, e solve il germe Or salubre or maligno entro le zolle. Su le sane sostanze e su le inferme Benefico del par gli sguardi abbassa; E s’uno al fior dà vita e l’altro al verme, Ciò vien dal seme che la terrea massa Diverso gli appresenta: egli sublime E discolpato lo feconda e passa. Or procede alle tue dimande prime La mia risposta. Di saper ti giova Se fia scevra d’affanno e senza crime La nuova libertade, o se per prova Sotto il sacro suo manto un’altra volta Rapina insulto e tirannia si cova. Dirò verace. E dir volea: ma tolta Da portentosa visïon gli fue La voce che dal labbro uscía già sciolta. Il trono apparve dell’Eterno; e due Gli erano al fianco cherubin sospesi Su le penne già pronti a calar giue. L’uno in sembianti di pietade accesi, Sì terribile l’altro alla figura, Che n’eran gli astri di spavento offesi. Verde qual pruna non ancor matura Cinge il primo la stola, e qual di cigno Apre la piuma biancheggiante e pura: Ondeggiavano all’altro di sanguigno Color le vestimenta, e tinto avea Il remeggio dell’ali in ferrugigno. Quegli d’olivo un ramoscel tenea, Questi un brando rovente; e fisso i lumi In Dio ciascun palpebra non battea. Dal basso mondo alla città de’ numi Voci intanto salían gridando pace, Col sonito che fan cadendo i fiumi. Pace la Senna, pace l’Elba, pace Iterava l’Ibèro; ed alla terra Rispondean pace i cieli, pace, pace. Ma guerra i lidi d’Albïone, e guerra D’inferno i mostri replicar s’udiro, E l’inferno era tutto in Inghilterra. Sedea tranquillo l’increato Spiro Su l’immobile trono, e tremebondo Dal suo cenno pendea l’immenso empiro. La gran bilancia, su la qual profondo E giusto libra l’uman fato, intanto Iddio solleva; e ne vacilla il mondo. Quinci i sospiri le catene il pianto De’ mortali ponea; quindi versava De’ mortali i delitti; e a nessun canto La tremenda bilancia ancor piegava. Quando due donne di contrario affetto Levârsi, e ognuna di parlar pregava. Chi si fûr elle, e che per lor fu detto, Se mortal labbro di ridirlo è degno, L’udrà chi al mio cantar prende diletto Nel terzo volo dell’acceso ingegno.
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